C’era infine un altro motivo inconfessato che inizialmente non credevo fosse così importante, ma lo divenne sempre più con l’andare del tempo: il riscatto.
Mi rendo conto dell’ambiguità di quest’ultima affermazione, ma divenne necessario che il lavoro finito fosse una conferma delle pochezze che in questa stessa storia vengono narrate. Un riscatto e una rivincita per mio figlio e per me, per il male ricevuto, per le sconsideratezze subite, per la mia annosa emarginazione genitoriale.
Ricevetti anche pesanti critiche per i contenuti di questa memoria storica e venni accusato di averla scritta solo per me stesso, senza preoccuparmi del dolore che avrei potuto infliggere a mio figlio qualora l’avesse letta. In effetti lui era a conoscenza di questi appunti, scritti inizialmente in un blog privato, ma non me ne davo pensiero poiché, data la giovane età, non se ne interessava. Ero certo però che un giorno l’avrebbe letta, quando una storia come questa gli avrebbe semmai destato ammirazione per la mia costanza, senza scuotere eccessivamente un’identità adulta, formata e risolta; forse sarebbe anche giunto a sentirsi fortunato di avere un padre custode della nostra storia.
Qualche lettore distratto potrebbe giudicarmi accanito, ma credo francamente che una storia fatta di carta e inchiostro sia pur sempre meno cattiva di una storia subita con fatti e misfatti.
Ebbi anche grandi elogi per l’umanità che scaturiva da queste dolorose pagine, che infine posso dire di aver scritto per amore. Forse un amore per taluni incomprensibile, ma questo amore, per la consegna della mia verità nelle mani di mio figlio, è secondo soltanto all’esempio che nel tempo ho cercato di dargli con le mie azioni.
Una storia, questa, che a volte mi ha spinto verso ignobili sentimenti che per natura non mi appartengono, e che hanno messo a dura prova l’identità che ogni giorno scruto nello specchio.
In un tema di quinta elementare, mio figlio scrisse che ero la sua stella. Oggi, dopo tanti anni, ho la conferma di essere stato un riferimento importante nella sua crescita: una lampada per illuminargli il cammino, una luce incondizionata, un radiofaro nella notte che nessuno avrebbe mai potuto spegnere, se non lui solo.
Eppure, ancora oggi, non sono certo di essere un buon padre, e rincorro i pensieri e i sentimenti più nobili alla continua ricerca di quell’unico e autentico amore storge che può esistere solo tra un figlio e il suo genitore.
Una storia piena di amore e sconsideratezza, di sdegno e rimorso, di ingiustizia e ingerenza, a tratti romantica e spesso analitica o matematica; la storia di un padre che guarda lontano dalla collina, e da qualche punto lontano, suo figlio tornerà.
La fine di una cosa vale più del suo inizio (Ecclesiaste 7:8)
Tutto cominciò prima della separazione da Rita, nella quale ora sento di avere tante responsabilità quanto lei. Non era così all’epoca, quando pensavo fosse interamente colpa mia e non ero l’unico a pensarla così.
Potrebbe essere inutile soffermarsi su motivi e responsabilità di una separazione, se non per impararne qualcosa: quando una coppia si divide, difficilmente è causa di uno solo, anche se in misura e per ragioni diverse.
Nel corso di una qualsiasi storia ci sono momenti in cui le responsabilità individuali si ridimensionano e appaiono meno gravi rispetto all’inizio ed è ciò che è accaduto a me. Infatti, le ripetute e discutibili azioni di Rita dopo la separazione evidenziarono che, tutto sommato, lei era stata vittima, ma solo per metà. Persino alcuni che furono solidali con lei rimasero delusi e subirono le conseguenze di quelle stesse azioni.
Le mie evidenti colpe del passato, se anche i problemi di salute possono rientrare fra queste, oggi appaiono piuttosto inconsistenti rispetto alle incalzanti sconsideratezze che subii più tardi e delle quali fece le spese suo figlio.
Quando scrivo “suo figlio”, lo faccio per mettere l’accento su quello che dovrebbe essere un rapporto privilegiato, ma che infine si rivelò un disastro.
Il male oscuro
Tra il 1992, un anno dopo il matrimonio, e il 1998, soffrivo di attacchi di panico e per mia moglie era senz’altro difficile starmi vicino. Quello che invece non capivo, o semplicemente cercavo di negare profondamente a me stesso, era che queste crisi fossero la manifestazione somatica di un disagio, un malessere che vivevo all’interno di quella relazione e di parte di ciò che vi stava intorno.
Rita mi stava vicino ma non nel modo in cui avrei avuto bisogno, non capiva l’urgenza di correre ai ripari e non si accorgeva che il suo comportamento, il suo modo di essere moglie, donna e infine mamma peggioravano la mia condizione di salute. D’altra parte, nemmeno io ero capace di farla sentire amata.
Il nostro cammino religioso, intrapreso un anno prima di sposarci, senz’altro non favoriva una vita distesa o alleggerita dai sensi di colpa, ma pesava ancor più sulle mie spalle e infine rimasi schiacciato dal peso di tutto.
La spiritualità era una boccata d’ossigeno in una vita difficile, ma col sopraggiungere della mia cattiva salute e delle difficoltà matrimoniali, anziché aggrapparmi a quest’àncora, la lasciai andare per paura che mi tirasse sotto, cercando in tutti i modi di riacquistare la mia salute.
Per metterla sul piano scientifico, mi trovavo nei due piani inferiori della teorica piramide dei bisogni di Maslow (1954), dove l’assenza di sicurezza nel mio corpo e nella respirazione, oltre a una serie di necessità primarie, non mi permetteva di raggiungere piani superiori come il bisogno di autostima, di appartenenza o addirittura di creatività, che invece in passato era stata una via d’uscita dal disagio.
Non riuscivo a dormire con lei, stavo sul divano del salotto convinto che così avrei evitato un attacco di panico durante la notte. Ero sempre in allerta, preparato per correre al pronto soccorso, avevo mille disturbi e paure, a volte dormivo vestito. Certo, mi rendo conto che un uomo così non solo non era in grado di amare sua moglie, ma in una relazione di coppia era inaffidabile e scomodo.
Difficile amare una moglie poiché tutte le attenzioni erano rivolte al mio fisico, alla mia mente, alla mia sofferenza: un uomo dedicato al proprio dolore.
Chi non avesse idea di cosa siano e come si manifestino gli attacchi di panico, oggi può trovare materiale ovunque, sia per chi ne soffre che per i parenti di questi. Ma in quegli anni, di questo male di vivere debilitante per la mente e il corpo si parlava molto poco e non si sapeva bene dove reperire informazioni. Questo faceva apparire il mio problema anomalo, raro e ciò mi identificava come un soggetto strano, forse con un germoglio di pazzia. Era una malattia vista ancora con troppi pregiudizi, forse per questo Giuseppe Berto ebbe bisogno di raccontarla nel suo libro Il male oscuro. Ecco, il mio morbo aveva il titolo di un romanzo e io ne ero il protagonista, mentre il mio disturbo non aveva un nome scientifico né una cura certa.
La mia vita era un continuo viaggio da uno specialista all’altro. Cardiogrammi, esami, alcuni ricoveri, tutto per avere sempre le solite risposte: attacchi di panico, distonia neurovegetativa, depressione reattiva. Ogni dottore dava un nome diverso e questo non aiutava chi mi stava intorno a comprendere che si trattasse di un vero e proprio disturbo, poiché si sa: le malattie vere avevano un solo nome.
La nascita di Pietro
Nel settembre del 1996 nacque Pietro, a giugno del 1998 ci separammo.
Pietro era stato fortemente voluto da entrambi per il giusto motivo, quello di mettere al mondo un figlio. Da parte sua però non c’era solo un sano desiderio materno, ma una buona dose di narcisismo di mamma che con il tempo, dopo la separazione, si mostrò per intero. Da parte mia, invece, c’era anche la speranza che lui cambiasse la mia vita, che desse impulso a un matrimonio in declino e mi distraesse dalla preoccupazione del mio corpo; questo non andava affatto bene ma era il sentimento di allora.
Pietro per me era una gioia. Lo cambiavamo insieme, suonavo la chitarra e lui gridava di allegria, ma Rita si comportava con lui in modo del tutto esclusivo: era la sua unica soddisfazione.
Per quanto mi riguarda, molte cose che facevo con Pietro venivano contestate per pregiudizio. Per esempio, se lo prendevo sulle spalle o se rincasavo con lui un po’ più tardi del previsto. Chiaramente venivo visto come un uomo inaffidabile e quindi un padre malsicuro, forse anche pericoloso.
La nascita di Pietro fu la gioia più grande provata in vita mia. Ero in sala parto e vidi il miracolo, facendo un tonfo temporale di durata indefinita, nel quale vidi quel corpicino coperto di placenta come fossi io appena venuto al mondo.
Il mio percorso psicologico
Per capire, elaborare e superare il dolore di questo distacco e i sensi di colpa annessi, oltre a cercare di migliorare il problema degli attacchi di panico, proseguivo il mio percorso psicoterapeutico iniziato poco prima della separazione, ma anche qui, molti fraintendimenti.
Si parla molto di persone poco consapevoli di sé e del fatto che per poter migliorare o risolvere un problema serva prima di tutto essere coscienti di averne uno.
Un uomo che decideva di intraprendere un percorso verso un’auspicabile presa di coscienza, una consapevolezza dei motivi del suo male di vivere, sarebbe stato definito da molti maturo e responsabile, ma questo non valeva per me. Continuavo a essere mummificato nei pensieri degli altri, quelli di Rita e di tutti i familiari, come una persona non affidabile, forse inguaribile, e non riuscivo a riscattare l’idea che si erano fatti di me.
Il battello notturno
Una sera andammo nella vicina Bellagio e salpammo con il battello notturno. Fu un’esperienza per noi indimenticabile. Lo portai sul ponte di comando a conoscere il capitano e a guardare l’oscurità del lago vista dal timone, oltre il radar e tutti gli strumenti di bordo.
Pietro era felicissimo e mentre lo tenevo in braccio, tra il vento e alcuni spruzzi di acqua lacustre, venni mosso a chiedergli: «Non dimenticare mai questo momento, promettilo». Aveva poco meno di sette anni.
Le notti al lago passarono per lui senza panico, probabilmente perché era in un ambiente familiare e guardava nel suo letto i film della Walt Disney fino ad addormentarsi, ma soprattutto perché io rimanevo alzato in cucina a digitare su un vecchio computer portatile. L’ultima notte che invece passammo da soli nella mia casa di Dresano, ancora una volta pianse prima di dormire.
La notte di quel 10 luglio a bordo del battello fu magica per entrambi, tanto da rimanere indelebile nella nostra memoria storica: negli anni a venire spesso me la ricorderà proprio lui.
Punto zero
Il mattino seguente, partendo dalla casa di Davide, mentre andavo al lavoro attraversando quelle campagne bianche di brina, capivo che ancora una volta stavo cambiando rotta. Non era una cosa facile da accettare e, mentre cercavo ragioni e motivi di una vita giunta a quella scena madre, un poliziotto mi espose la paletta rossa. L’Agente, dopo aver controllato la mia patente di vecchio tipo, mi guardò divertito chiedendomi: «Ma quante residenze ha cambiato lei?» Era una semplice ma emblematica battuta, alla quale rimasi turbato: non avevo una risposta sensata da dare a me stesso.
La sera stessa, o quella appresso, mio padre mi telefonò dicendo, in modo calmo ma perentorio, di tornare a casa da loro. Non avevo ancora detto nulla ai miei genitori, ma Davide, forse preoccupato, lo aveva fatto al posto mio.
Quando entrai nella mia vecchia stanza venni investito da antichi sentimenti di fallimento, ai quali facevano eco quelli recenti, mentre non riuscivo più a contare quanti e quali sensi di colpa si frapponessero tra me e la felicità.
L’inizio della riforma
Come già descritto ampiamente, il mio carattere era un po’ schivo, riservato, a volte addirittura misantropo, a dispetto dell’attività musicale che mi esponeva immancabilmente alla visibilità e al plauso.
Questo mio lato caratteriale ben conosciuto dalle persone, specialmente da quelle a me più vicine, mi aveva spontaneamente indotto a soffermarmi fuori dalla portineria ogni qualvolta andassi a prendere Pietro. Ormai da tempo evitavo di salire in casa o anche solo sul pianerottolo, per scansare situazioni disagianti per tutti, evitare di assistere a strazianti addii rivolti a Pietro, e anche per ridurre al minimo il contatto con Rita, il comportamento della quale andava irritandomi in modo crescente.
Un’altra ragione era per quei ficcanaso dei vicini di casa, che dietro la loro porta tifavano che vi fosse qualche screzio per assistervi dallo spioncino.
Proprio per queste ragioni, un giorno mi giunse con stupore l’invito di Rita a non salire più in casa a prendere Pietro.
Questa cosa mi fece agitare molto, soprattutto perché era una richiesta ampiamente anacronistica, un atto dimostrativo di qualcosa che ancora non comprendevo, ma che senz’altro aveva a che fare con l’arrivo di Giorgio nella sua vita.
Per quanto mi riguardava, non mi ero mai posto il problema se in casa vi fosse Giorgio o meno, poiché non salivo già da epoche non sospette, ma il fatto che ora venisse puntualizzato come per fissare un limite o ancor peggio una regola, non mi andava bene. Offendeva il mio buon senso, la mia intelligenza e faceva emergere una certa immaturità per la quale non sapevo bene chi ringraziare. Di fatto fu un gesto incauto, la prima delle clausole tese al mio allontanamento. La cosa era preoccupante poiché, da un gesto apparentemente poco importante come quello, sospettai che ne sarebbero seguiti altri a completamento di una nuova e pericolosa riforma.
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