Ovvio che sì, penserete. I colori si imparano prima ancora di imparare a parlare. Ebbene, i colori li vediamo, quindi ci sembra ovvio che siano reali. Invece non è così, e questo mi ha sempre affascinata: l’idea che, se non c’è luce a illuminarli, i colori non esistono. Senza luce è un tutto indistinto. Quindi il giallo, il rosso, il bianco e il blu – i colori delle bandiere della Catalogna e del Regno Unito – sono solo nella nostra testa, o meglio, nella nostra iride che assorbe il riflesso della luce.
Tranquilli, questo non è un manuale di teoria cromatica. Voglio solo tornare sulla questione principale: la realtà non è quella che sembra, i colori in realtà non esistono, esattamente come Babbo Natale. Esiste solo ciò che vogliamo vedere o che amiamo immaginare. Perciò, non sedetevi su quanto pensate sia vero, tangibile, inconfutabile.
Vi dirò di più: non sedetevi proprio. Anzi: se avete avuto un’infanzia nella norma, suppongo avrete imparato a saltare la corda. Bene, voglio che vi alziate e cominciate a saltare.
Se continuerete a farlo per cento pagine e più, forse alla fine sarete stanchi morti, ma è solo saltando che sentirete di aver capito tutto.
***
Ci risiamo: è successo di nuovo. Immobile a fissare lo schermo del PC, in attesa che mi piombi addosso l’ispirazione, la mia mente comincia a vagare. E di solito è come un bambino che si perde tra le corsie del supermercato.
La pagina è vuota, di sicuro non riuscirei – in questa piccola stanza di una Oxford svogliata, le nuvole imbronciate che guarda caso non mi sorprendono – a concepire qualcosa di sensato per il mio saggio sui diritti umani in Sud America.
Che fare, dunque?
Ho deciso di scrivere un libro.
***
Scrivere un libro. In realtà non ho mai pensato di poter scrivere qualcosa di più lungo di una poesia: lungo come un romanzo. Ma questo vale per me. Se invece si tratta di qualcun altro, di qualche autore famoso, be’, la cosa cambia: non mi pongo l’ansiosa domanda “come diamine si fa a riempire centinaia di pagine?”. I professionisti possono farlo, gli viene spontaneo.
Gli scrittori veri, poi, riescono incredibilmente a scrivere di tutto: poesie, saggi, thriller; forse anche barzellette. Beati loro: a un certo punto della vita, di punto in bianco, sono in grado di fare tutte queste cose. E accidenti, anche di essere giornalisti. Cosa per me totalmente incomprensibile. Un poeta che è anche un giornalista? Ma fatemi il piacere… Ovvio, lavorano entrambi con le parole, ma in modo totalmente diverso! È come dire che un idraulico può essere anche un eccellente istruttore di nuoto. È abbastanza evidente, un idraulico non sarà mai in grado di insegnare a nuotare a delfino solo perché il suo lavoro ha a che fare con l’acqua, e un istruttore di nuoto non potrà mai riparare l’impianto idrico di un hotel, perché di certo ignora che il pezzo da sostituire si chiama “polmone”.
Quindi, i poeti-anche-giornalisti sono per me esseri super-umani. Degli alieni. Alieni che ammiro molto, perché per fare queste cose insieme ci vuole un’enorme resistenza. Io, da umana, non potrei mai riuscirci: poetessa la prima metà del mese e giornalista nelle settimane che rimangono. Che esaurimento nervoso, alla fine!
Che un poeta possa anche essere un buon romanziere, be’, questo è da dimostrare. Io finora ho sempre e solo scritto poesie, quindi sono qui per verificare che le due cose siano compatibili.
Tenterei, se siete d’accordo, di scrivere un romanzo.
Eppure, lo sgomento di fronte a chi è capace di confezionare un mattone da quattrocento pagine fa fatica a sparire. Troppe pagine, troppo inchiostro, troppi tasti da schiacciare, di conseguenza troppi calli alle dita. Troppo tutto.
Per tale ragione devo continuare a ripetermi, come una costante somministrazione di gocce di passiflora, che va tutto bene, che la fine – del libro – è vicina: se guardo con attenzione posso addirittura scorgerla all’orizzonte.
Inizierei dalle cose semplici: mi chiamo Giulia.
CAPITOLO UNO
Questa storia avrebbe dovuto iniziare in un altro modo. Tutto doveva cominciare all’aeroporto di Milano Malpensa e proseguire in quello di Londra Heathrow, in Inghilterra.
Posto che le cose che uno dice suscitano quasi sempre un commento interiore in chi ascolta, è probabile che il lettore, a questo punto, ne avrà formulato uno sul fatto che ho collocato la scena in due aeroporti di “serie A”.
Ecco: non vorrei si pensasse che questa storia parla di una persona che sceglie solo gli aeroporti di lusso e le compagnie aeree di bandiera, una persona snob e parecchio facoltosa, in poche parole. Credete forse che io sia una rampolla che viaggia sempre in prima linea ed evita accuratamente le low cost perché c’è chi provvede a comprarle i biglietti online e a farglieli trovare sulla casella di posta elettronica prima ancora che abbia avuto il tempo… che ne so, una cosa rapida, la cosa più rapida in assoluto… prima ancora che abbia avuto il tempo di sbattere le palpebre?
Ebbene sì, avete ragione. Mi piace viaggiare sui voli di linea, o meglio: detesto meno viaggiare sui voli di linea. Di rado mi obbligo a ripiegare su quelli economici; l’ultimo charter che ho preso credo fosse quello diretto all’isola di Alonissos, nel lontano 1994, quando ancora non avevo sviluppato le angosce patologiche tipiche dell’adolescente cresciuta in una zona centrale di Milano. Venti gocce di rescue remedy, composto naturale creato appositamente per momenti di shock, e per persone da questi scioccate, ripieno di tutte le sostanze immaginabili – naturali anch’esse, per carità –, tutte quelle che vi possono venire in mente: coraggio, pensatene una e vi garantisco che anche lei è contenuta nel mio super composto, perché sono sempre le solite che fanno il giro di tutti questi medicinali inutili – infatti, io non credo funzionino, ma forse li prendo per tramortire il mio buon senso –, assemblandosi per aiutare la gente a calmarsi.
Insomma, un bel “cocktail di benvenuto” e siamo pronti a volare.
Per inciso: io non volo, grazie al cielo. È l’aereo che vola, e io ci sono seduta dentro, maledicendo la mia volontà che si è di nuovo piegata a una simile decisione. E comunque, azzarderei che nemmeno l’aeromobile vola. Se non voliamo noi esseri umani, perché mai dovrebbe riuscirci un ammasso di parti meccaniche? E le giunture riesci persino a vederle: sono quelle linee nere, con una punta di rosso ruggine o marrone bruciato, quelle che i miei occhi seguono quando percorro la scaletta che conduce all’interno dell’aereo, nella speranza di non incappare in nessuna orribile, spaventosa piccola crepa. Dopo qualche minuto non resisto e distolgo lo sguardo: cerco un posto dove posarlo nuovamente, ma purtroppo rimarrà sospeso per tutta la durata del volo, vacillante e smarrito, come un pezzo di legno umido sballottato tra le onde (o come Max Tooney della Leggenda del pianista sull’oceano: i suoi bulbi oculari non stavano mai fermi e nei momenti in cui compariva sulla scena eri più concentrato a seguire il loro movimento impazzito e a sperare che si placasse – e così placasse il tuo senso di nausea – piuttosto che a guardare il film, che intanto andava avanti).
Ma torniamo al punto di partenza: l’aeroporto di Milano Malpensa. Anzi, che avrebbe dovuto esserlo ma non lo è. Posso immaginare i fotogrammi di ogni singolo momento come fossero realtà. Io che faccio il check-in. E su questo non c’è molto da dire, ormai ho maturato una certa esperienza. So perfettamente cosa fare quando il regolamento impone che il bagaglio a mano debba essere uno e uno soltanto, anche se può comunque essere composto da quarantacinque sotto-bagagli formato David Gnomo stipati al suo interno. Praticamente, il mio hand baggage diventa come un minestrone Findus ricetta gustosa: ci infilo dentro tutto quello che posso – il suo volume è maggiore di quello di un Babbo Natale sovrappeso se si rannicchiasse su se stesso per entrare in un bagaglio a mano –, ma comunque è uno, e uno soltanto.
Sono a cavallo.
Ma che cavallo, accidenti: sto per prendere l’aereo. In questo momento sto glorificando nella mente tutti i bei modi alternativi di cui le persone dispongono per viaggiare. Quanti splendidi posti si possono visitare soltanto a piedi? Le Cinque Terre, per esempio! E come è bello viaggiare in treno. Comincio a rimpiangere le soste inspiegabili alle soglie della stazione di Milano Rogoredo. Quante, e quanti ricordi. E poi, viaggiare in aereo ammazza lentamente l’ambiente in cui viviamo: la quantità di CO2 che ogni singola persona dovrebbe emettere in un anno per far sì che l’ambiente non ne risenta è pari a una tonnellata. Una sola, in tutto l’anno. Come un viaggio sola andata da Londra a New York. Ecco, visto che quelli che partono da Londra per andare a New York vorranno anche tornare a casa, prima o poi, ma un viaggio di ritorno sforerebbe la quantità di emissioni concesse, suggerisco che questi avventurieri evitino direttamente di partire.
Sarei davvero felice se si potesse sovvertire l’insano tropismo di viaggiare in aereo. Da domani tutti in treno o in nave. E se un posto è troppo lontano da raggiungere, be’, non si può visitare tutto il mondo, non nell’arco di una sola vita.
Sarei felice, perché così nessuno avrebbe ragione di guardarmi come una fobica patologica per il solo fatto che ho deciso di andare a Barcellona in treno.
***
Ho finito il check-in: quindi, in compagnia del mio bagaglio a mano – il quale sta ospitando, nell’ordine, un’intera famiglia di scoiattoli, tredici confezioni di pasta trafilata al bronzo, quindici scatole di scarpe vuote, quindici piene, un’aspirapolvere e sei librerie smontabili – posso dirigermi verso il controllo elettronico. Passo senza problemi: per fortuna non porto mai addosso oggetti metallici che non siano facilmente rimovibili, anche se l’idea di avere un dente d’oro nell’arcata superiore mi ha sempre affascinata. A questo punto sorrido: non fa mai male sorridere alla gente. In questo momento è anche utile per dissimulare la mia inquietudine, che aumenta in modo inversamente proporzionale alla distanza dal gate del mio volo. E anche per mostrare che le mie arcate non contengono alcun dente d’oro. Il mio passo si fa sempre più lento, affaticato, prendo tempo, mi guardo intorno, scorro senza alcun interesse la fila di vetrine di negozi e mi chiedo se qualcuno, in questo tratto che va dal controllo elettronico ai gate, abbia mai deciso di fare acquisti voluminosi, comprare qualcosa di veramente grosso, e come si è poi comportato di fronte alle severe disposizioni delle compagnie aeree riguardo ai bagagli sovradimensionati. La domanda si fa davvero pressante: per calmare il mio improvviso allarmismo mi dico che, se per caso nella fila per l’imbarco troverò un disgraziato che si è comprato un violoncello e non può obiettivamente ridurlo alle dimensioni di una cassetta delle lettere, potrò sempre offrirmi di portarglielo io, infilato nel grande shopping mall che è il mio bagaglio a mano.
Bene, sono in fila per l’imbarco. Comincio a sudare, ma non per la strizza: la mia fobia da aereo non si manifesta in questo modo. Di solito comincio a sentirmi come Prometeo, divorata pian piano dai morsi di un’aquila nella zona del basso ventre. No, sto sudando perché, a rigor di logica, quando si ha caldo si suda. E io indosso un montone di pelle vera, anche se siamo a metà settembre, perché mio padre ha insistito per farmelo portare – “tanto vai in Inghilterra, là farà già freddo, una volta arrivata ti farà solo comodo. Andiamo verso la stagione invernale, sicuramente ti servirà”.
Mi sento un tantino stupida per aver assecondato i suoi argomenti, anche se in fondo ha ragione. Il punto è che qui, in Italia, la temperatura è ancora abbondantemente estiva. Nonostante questa innegabile circostanza, sono riuscita soltanto a ottenere una piccola riduzione della pena, dopo averlo convinto che il montone avrei anche potuto appoggiarlo sulle spalle, senza indossarlo proprio. Altrimenti, il rischio di collasso sarebbe stato decisamente alto.
È necessaria una piccola digressione sulle ragioni per cui mi trovo a possedere un montone. Il tutto risale a circa quindici anni fa, quando ero un’adolescente come tante altre. No, non come tante altre. Perché quando sei adolescente, in genere, occupi una posizione intermedia tra il bisogno di appartenenza al branco e la ribelle volontà di distinguerti. Io invece non perseguivo nessuna di queste due filosofie: vivevo abbastanza in superficie. Non ho mai seguito nessuna moda in particolare, e nessuna antimoda. L’episodio dell’acquisto del montone, però, mi ha fatto pendere verso la schiera degli omolo-sfi-gati. Nessun branco, nessuna membership specifica: io volevo solo somigliare a mia cugina maggiore. Ma non in generale, no. Soltanto in un frangente, un piccolo snapshot che la vedeva raffigurata con quel suo bel montone color cammello dai bordi castano scuro, mogano; un montone sciancrato con le frange di pelo che spuntavano dalle maniche e dai fianchi, cosa che conferiva, al montone e a mia cugina, un’aria al tempo stesso raffinata e provocante. Volevo somigliare il più possibile a quel fotogramma. Non avevo però calcolato che un capo di tale pesantezza avrei anche dovuto indossarlo in movimento, nello svolgere le normali attività quotidiane: camminare, lavare i vetri, scappare… Non m’importava affatto. Tant’è che, al momento di acquistare la mia “copia” – nulla di più distante dall’originale del fermo immagine mentale – ho dato poco peso al fatto che le dimensioni di quel giaccone lo rendevano tale da poter tranquillamente contenere mia madre e mio padre messi assieme.
Fatto sta che non ho mai avuto occasione di indossarlo. Fino a oggi, perché per una qualche oscura ragione ho deciso di fregarmene del lato estetico. E del giudizio della gente: saranno belli loro…
Ci è voluto un bel coraggio.
Ora come ora, invece, il coraggio mi manca del tutto, perché – accidenti a me e all’umanità gretta che ignora il drammatico effetto delle emissioni – sto per salire sull’aereo. Non posso più scappare; mancano anche quei passaggi intermedi che a volte si frappongono, il braccio metallico, il pullman che ci mette quaranta minuti a raggiungere la piazzola dove si trova il mio aeromobile (mi chiedo sempre come mai lo abbiano parcheggiato così lontano, ma soprattutto perché il pullman, nel raggiungere il posto stabilito percorrendo spazi sgombri, invece di seguire una linea retta debba sempre tracciare dei geroglifici sull’asfalto, che probabilmente si vedono da qualche satellite nello spazio. È altrettanto probabile che si riesca a vederli anche da Aldebaran).
Si nota che mi sto avvicinando al posto 7D del volo LH0175, che mi ospiterà per le prossime due ore. Si nota eccome, perché se non stessi per salire su un aereo, probabilmente non mi perderei in simili elucubrazioni. Ma è anche questo un modo per prendere tempo.
Non ho scampo, sento già le voci dei controllori di volo che accolgono cordiali a bordo i miei compagni di crociera, mentre io sto facendo la conta delle linee nerastre sul corpo di quell’enorme tricheco volante, per verificare se siano in numero pari o meno. Sono quasi arrivata, non ho davvero vie di fuga… O forse sì? Sì, c’è un piccolo pertugio che si apre su uno scenario all’inizio indistinto, poi sempre più nitido… Riesco a vedere qualcosa… Sono i nuovi negozi che hanno aperto nelle gallerie sotterranee della Stazione Centrale di Milano! Non ci penso due volte, anzi neanche una, e mi butto a capofitto in quel magma, con un tuffo di testa che probabilmente mi provocherà una commozione cerebrale, ma non ci faccio caso, sono già commossa per l’inatteso miracolo che si sta consumando: NON DEVO PRENDERE L’AEREO.
E mi rendo conto che alla Stazione Centrale di Milano io ci sono davvero: tra qualche decina di minuti salirò sul treno Elipsos Salvador Dalí, diretto a Barcellona. Non credo che le emissioni di CO2 siano drasticamente diminuite proprio oggi: in questo momento, milioni di persone si affollano davanti ai check-in, sudate, vestite di montoni e pellicce di cincillà, ricolme di valigie contenenti armadi a muro e camerette per bambino…
Ma poco importa, se qualcuno sul treno mi chiederà dove sono diretta sciorinerò il discorso sull’inesorabile inquinamento globale. E risponderò che sono diretta a Barcellona, stazione França, che mi aspetta un nuovo inizio e che la cosa non mi spaventa, al contrario di tutte le volte in cui sono andata incontro a un futuro ignoto.
Il futuro che mi si presenta davanti è sconosciuto, ma io non vedo l’ora di stringergli la mano
Mattia Grandi
Ti auguro di riuscire a realizzare il tuo sogno! Barcellona è una bella città 🙂
Giulia D’Appollonio
Grazie a Valentina Berardi per il suo gradito commento, che qui riporto dalla pagina Facebook di “Non fatemi suonare le note normali”:
“Libro in lettura… Mi piace molto la tua scrittura, Giulia. Devo ammettere che in un certo senso mi mette a disagio: si insinua in testa, mi fa pensare, trasporta altrove. Un altrove scomodo forse ma dove è necessario andare. Davvero bello ❤”