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L’aria di Roma era finalmente fresca e piacevole quella sera. Il temporale pomeridiano aveva spazzato via il clima torrido che da una settimana attanagliava la città e stava rendendo gli ultimi giorni di settembre a dir poco insopportabili. Giunto all’incirca a metà di ponte Sisto, Oscar non poté non fermarsi a contemplare il meraviglioso scenario che gli si stagliava davanti: le ultime nuvole rimaste, di un blu profondo, cercavano invano di raggrupparsi per non disperdersi nell’immensità azzurro-giallastra che le circondava, mentre il Tevere, reso ancora più biondo dalle luci dorate delle lanterne disseminate lungo il suo corso, si trascinava dietro con la sua eterna corrente le parole e i fatti di cui le sue sponde erano state silenti testimoni. Era uno di quegli attimi per cui valeva la pena arrivare in fondo a una giornata, per quanto stressante e logorante potesse essere stata. Purtroppo per Oscar, però, di giornate stancanti e poco stimolanti ne stava vivendo fin troppe ultimamente. Aveva passato il pomeriggio a sviluppare le fotografie scattate per l’ultimo caso a cui stava lavorando: l’ennesima noiosissima indagine matrimoniale. Nel 1965, ormai, l’attività principale di un investigatore privato sembrava essere diventata quella di portare alla luce relazioni extraconiugali per salvaguardare la reputazione dei committenti, che, se non altro, erano in genere disposti a pagare profumatamente per quel tipo di servizio.
Superato il ponte, decise di allungare la strada di casa e imboccare il lungotevere verso l’Isola Tiberina, prima di addentrarsi di nuovo nei più profondi meandri della sua mente. Avrebbe circumnavigato il quartiere e sarebbe tornato al suo appartamento in piazza di Santa Maria in Trastevere solo quando quell’atmosfera incantata si fosse definitivamente dissolta. Dov’era rimasto? Ah, sì, era come suo solito pronto a usare come pretesto quel lieve stato di malessere per tuffarsi nel mare di nostalgia che custodiva i ricordi più intensi e felici della sua vita. Andando troppo in profondità, però, finiva spesso per rivivere anche i momenti più dolorosi.
Figlio di un investigatore privato e nipote di un ispettore del corpo degli agenti investigativi in congedo, la scelta di Oscar Calamita di entrare a far parte dell’agenzia di famiglia, per lui una vera e propria seconda casa, era stata fin troppo scontata. Con il fratello maggiore, Giulio, era solito trascorrere giornate intere nello sgabuzzino del locale a inscenare misteriosi casi di omicidio, viaggiando con la mente in luoghi spettrali e creando personaggi eccentrici e spesso poco verosimili. I giovani fratelli Calamita avevano sempre saputo che quello sarebbe stato il loro futuro, e che avrebbero fatto conoscere il loro nome – o meglio, il cognome, che già di per sé era abbastanza peculiare – in tutto il mondo.
Quel periodo dal sapore quasi idilliaco – senza alcun dubbio il più intenso e felice della vita del futuro investigatore – era però terminato troppo presto e nel peggior modo possibile, stroncato prima dalla prematura morte di Giulio, quando Oscar non aveva ancora dieci anni, e subito dopo dalla violenta crisi mentale che aveva afflitto la madre dei due bambini, e che aveva portato la donna a togliersi la vita qualche mese più tardi. Il padre dei ragazzi era un uomo perspicace e intelligente, ma emotivamente debole e passivo; non era stato in grado di dare alla moglie il conforto necessario dopo la tragedia, ed era così stato costretto ad assistere al crollo della sua famiglia con assoluta impotenza. Negli anni a venire, dopo essere ben presto diventato il vero punto di riferimento dell’agenzia, Oscar non aveva in ogni caso mai provato risentimento nei confronti del padre per la trascuratezza con la quale era sembrato avesse affrontato la doppia disgrazia. Al contrario, si era progressivamente fatto carico di lui e della sua sofferenza, permettendogli col tempo di lasciare sfumare alle sue spalle ogni tipo di rimorso e di scacciare i fantasmi che per decenni lo avevano perseguitato, rintanato in una sorta di sfera di cristallo dove era comodamente rimasto fino al giorno della sua morte.
«Buonasera, signor Calamita!» Lo squillante saluto di un passante lo fece tornare alla realtà. «È proprio una serata magnifica, non trova?»
«Ah, è lei, Giuseppe, buonasera! Sì, finalmente un po’ di aria fresca… Roma era un vero inferno in questi giorni.»
«Vedrà che è solo l’inizio, ne sono sicuro. Arrivederci, signor Calamita, le auguro un felice fine settimana.»
Già, non ci aveva fatto caso, era venerdì sera! Giuseppe De Angelis, il pediatra che aveva lo studio al piano inferiore della sua palazzina, era sempre portatore di buone notizie.
«Grazie, dottore. Lo stesso a lei, arrivederci» chiuse Oscar, quando i due avevano già incrociato i cammini e preso ciascuno la propria direzione.
Quella rapida conversazione, oltre a ricordargli che nei prossimi due giorni si sarebbe potuto godere un po’ di riposo senza sentirsi in colpa, gli fece anche notare che era praticamente arrivato a casa. Non si ricordava minimamente che strada avesse seguito dopo aver imboccato il lungofiume, ma era incuriosito e soddisfatto nel constatare che il suo subconscio lo guidasse ancora a dovere, nonostante il trascorrere degli anni.
L’appartamento di Oscar si trovava all’ultimo piano di un antico palazzo ristrutturato in uno degli angoli della piazza, dalla parte opposta alla chiesa: non avrebbe cambiato quella casa per nulla al mondo. Affrontò gli scalini a due a due con passo rapido e deciso, mentre tentava di ricordare se in cucina gli fosse rimasta qualche succulenta pietanza da potersi gustare in tutta tranquillità. Quella sera voleva solo pensare a rilassarsi e, perché no, a godersi un giro per la sua meravigliosa città. Arrivato all’ultimo pianerottolo senza essere riuscito a sciogliere il suo dubbio, girò con mano salda la chiave all’interno della serratura e spinse il portone con foga. Era così ansioso di precipitarsi a spalancare il frigorifero che non badò nemmeno ad accendere l’interruttore della luce del corridoio; realizzò poco dopo che sarebbe stato meglio fare le cose con più calma.
«Ma che diavolo…» disse di sfuggita, dopo che qualcosa di liscio sul parquet di casa gli aveva fatto pericolosamente scivolare in avanti la gamba.
Decidendosi finalmente ad accendere la luce, vide che l’oggetto che aveva ostacolato la sua corsa era una busta bianca, che il postino doveva aver spinto dentro casa dalla fessura sotto la porta d’ingresso.
Che strano, non ricordavo di aspettare qualcosa… pensò, chinandosi per raccogliere la lettera dal suolo.
La busta si era leggermente spiegazzata, ma il nome del mittente, scritto in un corsivo ben curato, era ancora perfettamente leggibile: “Aurelio De Benedetti”.
Un misto di sorpresa e piacere dipinse il volto di Oscar, che si affrettò ad aprire il messaggio e a leggerne d’un fiato tutto il contenuto.
Caro Oscar,
provo un po’ di vergogna nel pensare che, appena leggerai il mio nome sulla busta, ti chiederai probabilmente quale possa essere il motivo del mio messaggio, visto da quanto tempo non ci vediamo né sentiamo. Mi chiedo spesso se non avessi dovuto starti più vicino dopo la morte di tuo padre, ma poi mi dico, forse per autoconvincermi, che il mio ragazzo non avesse in fondo bisogno di un vecchio come me fra i piedi. Sono sicuro che, come tuo solito, avrai preso la vita per le corna e sarai ancora una volta riuscito a girarla a tuo favore; in caso mi sbagliassi, però, potresti comunque prendere questo invito come il mio modo di chiederti scusa e di cercare di recuperare, per quanto possibile, tutto il tempo perduto.
Ormai da qualche anno sento di essere entrato nella fase conclusiva del mio viaggio e, forse per la prima volta nella mia esistenza, ho iniziato a provare una sensazione di vuoto, di insoddisfazione, di incompletezza. Non fraintendere le mie parole: il tuo vecchio amico gode ancora di ottima salute ed Ernesto si prende come sempre cura di me, ma sento che è arrivato il momento di dare una svolta alla mia vita, di prenderla anche io per le corna e reindirizzarla come più mi soddisfi. Ho deciso quindi di farmi un “piccolo” regalo per rendere più piacevole la fine del mio cammino; un regalo che vorrei condividere con gli amici più cari che mi hanno sempre circondato e sostenuto.
Tutto quello di cui avrai bisogno per raggiungermi si trova nella busta, insieme alla lettera.
Chiaramente, amico mio, il rifiuto non è un’opzione valida. Sono sicuro che l’uomo nobile e premuroso che sei diventato non vorrà rovinare uno degli ultimi desideri di un povero vecchio.
A presto,
il tuo Aurelio
P.S: Forse non sono stato troppo giusto nei confronti degli altri invitati, ma spero proprio di vederti in buona compagnia.
Nei due minuti scarsi di lettura della lettera, le espressioni sul volto di Oscar assunsero varie forme, l’ultima delle quali fu di assoluta perplessità. La stravaganza e il mistero avevano in una certa misura sempre caratterizzato il vecchio amico, ma questa volta si era proprio superato. Il senso generale del messaggio iniziò a essergli un po’ più chiaro solo dopo aver visto e aperto una busta interna più piccola, contenente a sua volta due biglietti aerei per Bucarest da Fiumicino e altri due di treno da Bucarest per Sinaia, tutti con ritorno. Sembrava proprio che il caro Aurelio gli avesse appena offerto alcuni giorni di villeggiatura in Romania per l’ultima settimana di ottobre e che, a giudicare dalla non proprio criptica frase di chiusura, si auspicasse di vederlo arrivare accompagnato da qualche presenza femminile. Quell’ultimo dettaglio fu l’unico a non stupire più di tanto l’investigatore, sapendo bene come Aurelio, per lui come un secondo padre, non avesse mai digerito il fatto che il suo figlioccio non fosse riuscito a costruirsi una famiglia. Al vecchio amico sembrava quasi inconcepibile, o almeno così era solito dire, che un uomo con la sua bontà d’animo, dai penetranti occhi verde smeraldo e la chioma castana ancora così folta e vigorosa non avesse mai trovato la sua anima gemella.
Accorgendosi di essere di nuovo sul punto di perdere il controllo dei propri pensieri, Oscar scrollò in maniera decisa la testa per liberarsi la mente e tornare al suo venerdì sera tanto meritato. Ripose quindi biglietti e lettera dentro la busta, con l’intenzione di appoggiarla in fretta insieme al cappotto nella stanza a lui più vicina e dedicarsi finalmente alla cena. L’inconsapevole scelta del locale, tuttavia, non fu particolarmente fortunata per l’investigatore, tenendo in considerazione la precaria situazione emotiva in cui versava. La foto incorniciata e appesa alla parete dove si era posato il suo sguardo, infatti, lo fece immediatamente riprecipitare nel mare nostalgico da cui, con molta fatica, era riuscito a uscire solo qualche minuto prima.
Nel quadro era raffigurato un Oscar poco più che ventenne, che posava con il padre davanti all’agenzia di famiglia. Quello scatto era una celebrazione per la risoluzione di un intricato caso di traffico di opere d’arte sull’asse Parigi-Roma avvenuto alla fine degli anni Trenta, il primo a dare al giovane investigatore una certa risonanza al di fuori dei confini cittadini. In quell’immagine – e in quella stanza in generale, piena di cimeli, lettere di ringraziamento, fotografie e articoli di giornale che riportavano i più grandi successi della sua carriera – era presente tutto quello di cui Oscar sentiva più la mancanza, tutto quello di cui avrebbe avuto bisogno in quel momento: la sua vera identità. Non era mai riuscito a individuare l’istante preciso nel tempo in cui la corrente aveva iniziato a prendere un corso diverso – la morte del padre aveva sicuramente avuto un ruolo importante –, fatto sta che, con il passare degli anni, tutto si era drasticamente trasformato. Da un giorno all’altro aveva iniziato a porsi domande esistenziali che mai prima avevano attraversato la sua mente. Era arrivato a realizzare che il suo tanto amato lavoro non gli faceva più sentire le farfalle nello stomaco; il mondo dell’investigazione si era adeguato allo scorrere del tempo, si era evoluto, e questo cambiamento gli aveva fatto perdere passione e motivazione. Si sentiva ormai fuori posto, prescindibile, quasi di troppo. L’inaspettata insoddisfazione professionale, poi, gli aveva suo malgrado iniziato a far conoscere anche gli effetti della solitudine. La mancanza di qualcuno con cui condividere le sue giornate, le sue idee, i suoi timori, di qualcuno da amare si stava facendo ogni giorno più grande e ingombrante. Tutto ciò non gli era mai sembrato veramente importante anni prima, quando ardeva ancora di quell’irrefrenabile passione investigativa che gli scorreva nelle vene e riempiva la sua esistenza, ma adesso le cose erano cambiate. Ciò che in passato gli aveva dato tutto, ora se lo stava riprendendo, e con gli interessi, per giunta.
Quella raffica di immagini e pensieri lo aveva all’improvviso di nuovo sopraffatto, e gli fu da subito ben chiaro che stavolta non se ne sarebbe liberato a breve. Riprese quindi il cappotto e si incamminò verso la sua camera da letto per riporlo direttamente nell’armadio, chiudendo dietro di sé la porta della stanza dei ricordi.
Quella sera non sarebbe più uscito.
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