È un romanzo che nasce dal cuore e parla di quello che viviamo tutti, spesso senza riuscire a dirlo.
È la storia di Clara, un’infermiera giovane e inquieta che a un certo punto comincia a sentire che qualcosa nella sua vita non torna: piccoli vuoti, frammenti di ricordi che non le appartengono, volti che si confondono, e una donna che la chiama per nome come se la conoscesse da sempre.
Accanto a lei c’è Luca, un uomo capace di amare con semplicità, restando, senza volerla aggiustare.
Intorno a loro, un gruppo di colleghi che, dentro un ospedale qualunque, si troveranno travolti da qualcosa di più grande: una verità che lega scienza, emozioni, memoria, controllo e libertà.
È un thriller dell’anima, un viaggio tra le pieghe più delicate del sentire umano.
Parla di noi, delle nostre paure e del bisogno di restare autentici in un tempo che ci vuole prevedibili e omologati.
Si legge di getto, ma resta dentro come un’eco, perché sentire, anche quando fa male, è l’unico modo per restare vivi.
Perché ho scritto questo libro?
Ho scritto questo libro perché sentivo il bisogno di dare voce a ciò che spesso resta invisibile: le emozioni, la memoria, le crepe dell’anima che ci rendono umani.
Nulla da sentire nasce dal desiderio di raccontare la fragilità e la forza di chi continua a sentire, anche quando il mondo sembra volerci spegnere. Di persone che, come me, hanno paura che la tecnologia le sostituisca. È un atto d’amore verso la vita, verso il sentire autentico, verso l’imperfezione che ci salva, verso me stessa
ANTEPRIMA NON EDITATA
Capitolo 6 – Quello che non trovi nei referti
Clara ha acconsentito. Una notte ancora di degenza, solo una, per sicurezza. La stanza è silenziosa, il corridoio deserto.
Luca è arrivato con un mazzo di fiori piccoli e bianchi. I suoi preferiti, dice lui, ma lei non saprebbe dire.
–Domattina ti vengo a prendere– le dice –un paio di giorni a casa, riposo e poi si ricomincia.
Siede accanto al letto, le accarezza la mano.
–Probabilmente è tutto dato dallo stress… la morte di tuo padre, la tensione. Cose che si accumulano. Ti sei portata tutto dentro, come fai sempre, la mia capocciona preferita.
Lei non risponde. Sente le parole come ovattate, lontane. Come dette in un’altra lingua.
Poi Luca guarda verso la parete, sospira.
– Clara… quella fotografia… –
Lei si irrigidisce.
–Guarda che lo sapevi. Da sempre. Tu quella foto l’hai stampata, l’hai messa lì tu. L’hai fatta vedere anche a me. Lì c’è Ginevra, ti sei sempre riferita a lei così. Ginevra, la bambina che hai tenuto per una estate intera. Dicevi che era speciale. Che non sapevi perché ma… ti era rimasta dentro.
Clara sente qualcosa spezzarsi dentro, non una frattura netta. Un rumore più sottile: come il ghiaccio che si crepa.
–No– sussurra –io non ricordo niente. Non me la ricordo. Ginevra non esiste per me. Io quella foto l’ho vista per la prima volta stamattina. Non è possibile, Luca. Non è possibile.
Lui la guarda, confuso.
–Ma… Clara. L’hai appesa tu, l’hai fatta stampare. Mi hai raccontato di quell’estate mille volte. Almeno, io… io ricordo così.
Clara si volta dall’altra parte. Non vuole più sentire. Ha un nodo in gola, qualcosa che non riesce a deglutire.
Come se avesse un corpo estraneo nei ricordi. Un pezzo nuovo che nessuno ha mai chiesto di aggiungere, ma che adesso tutti dicono fosse sempre stato lì.
Clara si volta nel letto.
–Resti vicino a me finché non mi addormento?
–Certo amore io, io non ti lascerò mai sola– mormora Luca, sedendosi di nuovo accanto.
Le accarezza i capelli con un gesto lento, quasi ritmico.
Il respiro di lei si fa più calmo, si allunga. Gli occhi si chiudono, si lascia andare.
Un rumore improvviso.
Un oggetto che cade.
Sottile, metallico.
Forse un vassoio, forse una reniforme.
Clara si sveglia di soprassalto e per un attimo pensa sia al lavoro, che sia tardi, che debba alzarsi per il turno. Ma poi ricorda: no, non è lì come infermiera.
È una paziente.
Sente il pigiama leggero addosso, il cartellino con il nome appeso al letto, l’odore di disinfettante che qui ha un altro significato.
Si alza, piano.
Accanto al letto Luca dorme, il capo piegato, una mano ancora appoggiata sul materasso, il ciuffo nero sugli occhi.
Esce nel corridoio. C’è una luce bluastra della luce notturna, il silenzio è totale.
Si incammina con passo leggero, vuole raggiungere la zona infermieri, magari salutare qualche collega.
Ma quella notte è di turno una nuova, una ragazza giovane che non conosce bene.
Si salutano con un cenno della testa.
–Vado alla macchinetta– sussurra Clara.
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–Ok, l’ascensore dovrebbe funzionare anche di notte, vuoi la chiave?
–No, no grazie.
Si dirige lì. Premere quel pulsante sembra un gesto familiare, ma ha un retrogusto strano. La porta si apre e Clara entra.
Tutto è acciaio e neon. I tasti: 0, -1, -2…. -3. Un tasto più piccolo, mai visto. Mai usato.
Clara lo preme.
Un click e l’ascensore inizia a scendere lentamente più lentamente del solito.
L’ascensore si ferma con un tonfo sordo e le porte si aprono davanti a un corridoio lungo, deserto, illuminato da luci al neon tremolanti. Le pareti sono grigie, spoglie, il pavimento ruvido, consumato dal tempo, ma senza tracce di passaggi recenti. Nessun cartello, nessuna indicazione, nessun rumore. Clara esce lentamente, il passo incerto, lo sguardo che scivola attorno cercando un appiglio logico, un riferimento conosciuto. Ma niente. Questo posto non esiste. O meglio, non dovrebbe esistere. Non è su nessuna mappa dell’ospedale. Eppure è lì, davanti a lei. Reale. Freddo. Denso di un silenzio innaturale.
Conosce quell’ospedale come le sue tasche: ci è cresciuta, ci ha studiato, ci lavora da anni. Eppure quel piano le è completamente sconosciuto. Ogni passo che fa è un affondo in un tempo sospeso. Il rumore dei suoi zoccoli risuona amplificato in quel vuoto, come se anche il suono facesse fatica a trovare un posto. Avanza, col cuore che accelera, la gola secca, le mani umide. Alla fine del corridoio, una porta. Di metallo, opaca, chiusa. Ma ciò che la inchioda è il simbolo inciso sopra: un cerchio e dentro un triangolo. Quel simbolo. Lo stesso che aveva visto sul polso della bambina nella fotografia.
Clara si blocca. Un’ondata di nausea le risale dallo stomaco. Sente le gambe farsi molli. Il cuore le martella nelle tempie. È come se, in quell’istante, tutto il mondo si ribaltasse. Ecco dove l’aveva visto, quel simbolo. Non era solo in una foto. Non era solo un dettaglio, era reale. Esiste. E allora anche il resto… anche quella foto, quella bambina, quell’estate dimenticata… tutto potrebbe essere vero. Ma se è vero, dov’è finito quel pezzo di vita? Chi gliel’ha portato via? Perché? Clara si stringe le braccia intorno al petto, comincia a tremare. La paura le sale addosso come un’onda gelida. Le lacrime le riempiono gli occhi. È puro panico. Si gira, corre indietro, preme con forza il pulsante dell’ascensore, non si apre. Ancora un colpo, poi un altro. L’ascensore finalmente arriva, entra di scatto, preme “1” e trattiene il fiato. Quando le porte si richiudono e la cabina riprende a salire, il fiato le esplode in un singhiozzo. Non riesce a fermarsi, appoggia la fronte alla parete fredda e si lascia cadere piano contro la parete opposta, come se il corpo non volesse più sostenerla.
Quando arriva al piano, barcolla fino al corridoio. È notte fonda, ma corre verso il reparto. Suona. Una volta. Due. Tre. Alla fine una voce assonnata risponde.
–Sì? Chi è?
–Sono Clara Lipari sono… sono al reparto. Mi sento male. Ho avuto una crisi. Non sto bene. Mi aprite, vi prego…
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