Dove in molti vedevano eroine e paladini, giustizia e redenzione, bene e male, c’era in realtà “l’unica cosa su cui valga la pena scrivere: il cuore umano in conflitto con sé stesso”: lo disse William Faulkner dopo aver ricevuto il Nobel per la letteratura, nel 1949, e George R.R. Martin (autore de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, ciclo di romanzi ad oggi incompiuto di cui il Trono di Spade rappresenta la trasposizione televisiva) ne ha fatto la regola aurea della sua scrittura.
Le origini di questo anomalo fenomeno serietelevisivo risalgono al 17 aprile 2011, data della messa in onda dell’episodio pilota della serie sul network americano HBO: un vertiginoso crescendo di consensi da parte di pubblico e critica ha accompagnato lo show per otto stagioni e settantratre episodi, ma sarebbe un grave errore giudicare lo statuto eccezionale del Trono di Spade (e l’eredità che ci lascia) esclusivamente sulla base degli ascolti record registrati nei suoi anni di trasmissione. Di sicuro il successo che ha travolto il felice e fortunato adattamento de Le Cronache martiniane rappresenta un elemento decisivo nel processo di cristallizzazione del Trono di Spade nell’immortalità della cultura pop quale icona abitante nell’immaginario di milioni di persone. Non credo sia questa, però, la giusta prospettiva di analisi di un’opera che ha stravolto gli standard qualitativi delle serie tv, fenomeno, oggi, assai dibattuto e adeguatamente approfondito dalla critica di settore.
Le Cronache, dicevamo: che Martin termini o meno quella che è sicuramente la sua magnum opus, questa non è banalmente, o esclusivamente, la matrice originaria da cui lo show è tratto; rappresenta qualcosa di più profondo, la genesi di uno stile, di una personalità, di un senso strutturale molto complesso e stratificato che il Trono di Spade ha saputo far suo e tradurre sul piccolo schermo, compensando la densità delle vicende scritte con una spettacolarità visiva assolutamente rimarchevole.
Il Trono di Spade è impregnato di letterarietà e romanzesco, e non per il semplice fatto di essere derivato da una saga cartacea, ma perché nella sua narrazione agisce, fortissima e palpabile, la logica dell’intreccio, oltremodo intrigante ma potenzialmente rovinosa, in quanto l’accumulo di tante (e complesse) linee narrative necessita di un sapiente gioco di forze e tensione dall’impianto straordinariamente solido per non collassare. In questo, il Trono di Spade è stato ineccepibile: il motore che alimenta gli eventi di partenza si sostanzia, fondamentalmente, in due “gialli”, due domande a cui trovare una risposta, forse, correlata:
Cosa si cela dietro la caduta di Bran dalla Torre Spezzata?
Cosa si cela dietro la morte di Jon Arryn, Primo Cavaliere del re?
Già dall’innesco della trama si nota una certa divergenza dal tipico canovaccio fantasy, giacché la componente sovrannaturale (l’arrivo degli Estranei) è relegata a sfondo, oltre i confini della storia (al di là della Barriera), presente ma, di fatto, impalpabile. Nessun paladino in viaggio per adempiere ad una missione mortale ed epica. Ci sono solo uomini, ed è questo che la serie rimarrà: una storia di uomini. Dell’uomo, con i suoi vizi e le sue virtù. Il Trono di Spade indaga, in maniera invasiva e poco piacevole, ma anche sincera ed autentica, la dimensione umana a tutto tondo, nelle sue espressioni più nobili e in quelle più becere. La esplora in rapporto al potere (politico e non), certamente uno dei temi salienti di tutta l’opera; tra il lucido e crudele pragmatismo di Tywin, la tirannide di Joffrey, l’inquietante camaleontismo di Baelish, l’assolutismo di Cersei, ma anche il giustizialismo ingenuo di Ned e Jon, l’astuta diplomazia di Tyrion e il romantico indipendentismo di Robb Stark, si palesa allo spettatore un vero e proprio trattato visivo sull’esercizio del potere, sul suo particolarissimo statuto e sull’ordinamento politico che ne deriva, e su cui si modellano gli avvenimenti che seguono.
E ancora: in questa ruvida vivisezione dell’essere umano, di ciò che più lo anima, di ciò che realmente lo annienta, non potevano mancare famiglia e amore, così gentilmente adulati nella maggior parte dei racconti, classici e non. Il Trono di Spade respinge l’idea di (impossibile) perfezione, dell’amor cortese e stilnovistico, così tanto narrato ed osannato da essere unanimemente considerato come unico modello possibile, assoluto ed insindacabile. E così, dopo aver simpatizzato istantaneamente per i valorosi Stark, nel prosieguo delle stagioni ci si domanda se anche Cersei e Jaime, gemelli incestuosi uniti da un amore turbolento e passionale, non avessero diritto ad essere una famiglia, al netto della discutibile scala di valori in nome di cui agiscono.
Il Trono di Spade sfugge alla logica binaria, demolisce la presunta superiorità etica dell’eroe (o di chi gioca a riconoscersi come tale) per esaltare, invece, la sospensione di qualsiasi giudizio morale, il rovesciamento dello stereotipo e dei tòpoi di genere, la riflessione su ciò che è comunemente considerato giusto o sbagliato, la complessità dei sentimenti, insieme puri e bestiali, casti e lussuriosi, motori tanto di vita quanto di morte. Insomma, il suo universo è intessuto di una ricchezza tematica squisitamente abbondante, e proprio per questa ragione addentrarvisi è tutt’altro che cosa semplice. Specialmente se si tiene in considerazione che Martin, nelle vesti di produttore esecutivo, ha partecipato attivamente (almeno fino alla fine della quarta stagione) al progetto televisivo, permettendo di fatto la creazione di nuovi personaggi, eventi e situazioni rispetto ai suoi libri, e generando in questo modo quasi due realtà parallele, non così diverse e non così simili.
D’altro canto, la questione riguardante l’adattamento cinematografico-(serie)televisivo di un’opera letteraria, in merito a cui è difficile rintracciare un’opinione univoca e armonica, è annosa e tutt’oggi ancora fortemente trattata. Se è vero che gli adattamenti “sono opere inerentemente “di palinsesto”, perseguitate ogni istante dal testo che in esse è stato adattato”, allora il Trono di Spade rappresenta senz’altro un caso abbastanza singolare, in virtù del fatto che mentre Martin è attualmente impegnato nella stesura del suo sesto (e penultimo) romanzo, la serie tv si è conclusa nel maggio 2019; questo pone dunque l’opera-madre in un’insolita posizione vicaria rispetto allo show tratto dalla stessa. Le prime due stagioni del Trono di Spade presentano una contiguità tematica abbastanza fedele a Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, mentre dalla terza in poi gli sceneggiatori David Benioff e Daniel Weiss (per tutti ormai D&D) hanno guadagnato sempre maggiore autonomia, fino a svincolarsi quasi totalmente dalle linee narrative pensate da Martin. A questo proposito, Poli asserisce giustamente che “dopo le prime due stagioni si inizia a spaziare da un romanzo all’altro prelevando eventi, condensandoli, modificandone l’ordine cronologico [si pensi al ritorno di Jaime ad Approdo del Re: nei libri avviene immediatamente dopo la morte di suo figlio Joffrey, mentre nella serie tv qualche settimana prima del matrimonio dello stesso. Questo particolare influisce grandemente sulle dinamiche che muovono il rapporto sessuale dei due gemelli alla veglia funebre del giovane sovrano]. Le ragioni sono da attribuire sempre alle diverse necessità narrative: la serie tv è una forma d’arte diversa dalla letteratura, e in quanto tale ha una vita propria”. All’altezza della quarta stagione si percepisce chiaramente un’effettiva discrasia tra libri e adattamento televisivo, questo perché i due sceneggiatori iniziano a cassare vicende, personaggi e avvenimenti che avrebbero gravato eccessivamente sulla fruibilità del prodotto, caratterizzato già di per sé da una trama piuttosto articolata e stratificata. Studiare un adattamento significa, in un certo qual modo, effettuare anche un’analisi comparatistica, perché esso può essere a tutti gli effetti considerato come un’opera a sé stante, con una propria aura, un suo personale hic et nunc di benjaminiana memoria. Benché i libri di Martin rappresentino, come già detto, la base su cui lo show si è modellato, l’adattamento televisivo ha assunto negli anni una certa indipendenza formale; d’altra parte, è intellettualmente onesto puntualizzare come alcuni dei fattori che hanno contribuito a rendere il Trono di Spade tra le più riuscite opere televisive della contemporaneità siano propri della dimensione cinematografica: tra questi, la fotografia, straordinaria nella restituzione visiva di scene prima naturalmente solo immaginate, ma non solo, anche l’indovinata scelta del cast, tra vecchie glorie, volti talentuosi e giovani scommesse.
Che il Gioco del Trono abbia inizio, dunque. Questo libro, rinunciando sin dal principio alla pretesa di completa esaustività, intende offrire un’ulteriore interpretazione di alcune della principali tematiche mostrate nella serie tv, a volte ponendosi in dialogo con i personaggi tramite cui sono state raccontate, nel tentativo di arricchire il dibattito (ancora vivo e fecondo) in merito all’opera così complessa, divisiva, innegabilmente potente, che il Trono di Spade rappresenta nel panorama televisivo mondiale.
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