Immaginai fossero le nove del mattino quando scesi in strada, il sole illuminava appena i marciapiedi e l’aria era fresca di primavera. Camminavo lungo una via stretta, scrutando i passanti ignari del perché li fissassi così intensamente. Sperai qualcuno mi riconoscesse, ma nessuno si avvicinò. Ero come un fantasma nelle moderne strade di chissà quale città.
Le luci blu lampeggianti di un bar attirarono la mia attenzione. Decisi di entrare, ma le gambe non mi reggevano per la tensione. Traballando raggiunsi un tavolo qualunque, respirando affannosamente. Sentivo i miei occhi bruciare mentre la testa continuava a girare, così mi sedetti a riprendere fiato.
«Cosa posso portarle?» disse la voce di una giovane cameriera alle mie spalle. Aveva una strana pettinatura e una divisa blu come l’insegna.
A bassa voce risposi: «Un caffè forte, grazie».
Il mio respiro stava tornando regolare, quando all’improvviso un uomo entrò nel bar sbattendo la porta.
«Bella giornata, non è vero? Il solito, per favore!» urlò al barista.
Inconsciamente e incuriosito iniziai a fissarlo. Era goffo, i suoi modi di parlare e camminare erano strani e scoordinati. Abbozzai un sorriso e subito me lo ritrovai davanti che si agitava sulla sedia di fronte alla mia, cercando la posizione più comoda.
«Ma sei impazzito? Neanche una telefonata ieri! Iniziavo a preoccuparmi. Non fare mai più che sparisci solo perché ti si dice qualche parolina di troppo. Capita a tutti di esagerare ogni tanto.»
«Sta parlando con me?» chiesi, sgranando gli occhi.
«Fai finta di niente, adesso? Non mi sembra la soluzione migliore» disse lui, mentre la cameriera lasciava i nostri due caffè sul tavolino.
«Oh, grazie, cara. Puoi portarmi anche i biscotti al cioccolato, per favore? Senza cioccolato che vita sarebbe?»
Continuò a parlare un po’ con me e un po’ da solo, mangiando due biscotti alla volta e stiracchiandosi in continuazione, come se non dormisse da giorni. Poi, di colpo, smise.
«Devo andare via adesso, ho delle consegne da fare. Chiamami quando rinsavisci, ok?» mi disse bevendo l’ultima goccia di caffè dalla tazzina bianca.
Quindi si alzò di scatto facendo quasi cadere la sedia, lasciò una banconota sul tavolo sufficiente a pagare quello che avevamo consumato e andò via, chiudendo distrattamente la porta.
Non capii cosa fosse successo. Era chiaro che mi conosceva, ma io non ricordavo minimamente chi fosse e di che cosa stesse parlando.
Andai via anche io, il caldo fuori dal bar mi assalì e ricominciò a farmi male la testa. Avrei dovuto trovare il modo di ottenere informazioni sulla mia vita, sarei dovuto andare in ospedale o dai carabinieri. Avrei dovuto fare qualcosa e invece mi limitai a camminare, confuso e dolorante.
Frugai nelle tasche dei pantaloni: in una trovai qualche banconota e poche monete, nell’altra le chiavi di quella casa, che avevo preso frettolosamente prima di uscire. Avevano un portachiavi attaccato con il nome di un ristorante scritto sopra.
Rigirai il portachiavi tra le mani cercando di ricordare qualcosa, ma quel nome non mi diceva proprio niente. Ripresi a camminare sconsolato con lo sguardo fisso davanti a me quando, come per magia, apparve un locale piuttosto grande con una lunga fila di piccole finestre con tendine marroni da cui passava poca luce. Vidi lo stesso nome del portachiavi scritto sulla porta d’ingresso e così, stupito da quella coincidenza, decisi di entrare.
Aprii la porta con delicatezza, all’interno era buio e c’era un odore leggero di pomodori freschi e basilico. Mentre mi guardavo attorno, fui raggiunto a sorpresa da una donna uscita silenziosamente dalla cucina. Era molto alta, indossava un grembiule con fiori bianchi e teneva minacciosamente un mestolo in mano.
Senza nemmeno guardarmi in faccia, gridò: «Siamo chiusi, torni per l’ora di pranzo!».
«Oh, mi scusi, signora!» esclamai colpevole.
Non appena finii la frase, si girò per guardarmi meglio, come se avesse riconosciuto la mia voce.
«Ma sei tu, scansafatiche! Vuoi un premio, per caso? Un riconoscimento per aver lavorato due giorni questo mese, pensando solo a come svaligiarmi la dispensa? Non dirmi che sei venuto per lavorare, perché non ci credo. Guarda che essere mio figlio non ti dà il diritto di fare come ti pare qui.»
«Mamma?» risposi incerto e sorpreso allo stesso tempo.
«Eh sì, proprio tua madre deve portare avanti il ristorante! E suo figlio che fa? Se ne va in giro e viene qui solo per mangiare! Ma questa è l’ultima volta, o cambi atteggiamento o con me hai chiuso.» Imbronciata tornò in cucina lasciandomi solo nella grande sala del ristorante.
Uscii senza fare altre domande, ma ancora più confuso di prima.
Percorsi la strada nella direzione contraria a quella da dove ero venuto. Volevo tornare all’appartamento e provare a riordinare le idee.
Lungo il cammino, però, man mano che percorrevo la strada, mi sorgevano dubbi su quale fosse il palazzo giusto. Gli edifici mi sembravano tutti molto simili tra loro ed ero uscito talmente di fretta che non avevo fatto caso ai dettagli.
Non sapevo da che parte andare, così rallentai il passo fino a fermarmi, lasciando i miei piedi incollarsi all’asfalto.
In quel momento, mentre guardavo ciò che mi circondava e assottigliando gli occhi per scorgere anche la più piccola cosa che potesse aiutarmi a ricordare, i palazzi cominciarono a diminuire, svanendo uno a uno dietro un’enorme quantità di polvere gialla.
Non credetti a quello che stava accadendo: stavano semplicemente sparendo e, per di più, senza fare alcun rumore, mentre i passanti camminavano tranquilli, scrollandosi infastiditi la polvere dai vestiti.
Pochi istanti dopo, era rimasto un solo palazzo a guardarmi fisso, ricoperto di giallo e mistero. Capii fosse quello giusto e lo raggiunsi incredulo e intimorito al tempo stesso.
Pensai di essere guidato da uno strano destino e mi sentii osservato e giudicato nel profondo.
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