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Oltre l’ombra dei colori

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Michele è un giovane pittore della Napoli di fine Ottocento ed è in cerca di una svolta nella sua carriera. Ha da poco perso sua madre quando gli viene affidato un prestigioso incarico: realizzare un affresco nel monastero di Santa Chiara in sole tre settimane. Questa commissione segnerà l’inizio di una serie di eventi inaspettati, tra superstizioni su artisti che hanno perso il senno e intrighi che superano ogni sua immaginazione. Le sue certezze iniziano a sgretolarsi quando un’ombra del passato riemerge, rivelando una verità sconvolgente. Ad accompagnarlo in questa ricerca ci saranno le persone a lui più care, che sembrano conoscere aspetti della sua vita di cui lui stesso non ha mai sospettato.

Parte prima.
Gli occhi dell’affresco

I

Avevo sempre sperato che, prima o poi, qualcuno bussasse alla porta della mia bottega, portando con sé quel cambiamento che desideravo da tutta la vita. Ma non immaginavo che il destino, quella fredda mattina, si sarebbe presentato in un modo diverso da come lo avevo sempre sognato. Una donna avvolta in un grande scialle nero stava lì, oltre i vetri, e i suoi occhi spalancati tradivano impazienza.

Aprii la porta. I cardini arrugginiti stridettero come cicale e una folata gelida mi investì. Fu solo quando si scoprì il viso che riconobbi Amelia, il donnone tuttofare del vicino monastero di Santa Chiara.

«Cosa posso fare per voi?» domandai senza inutili preamboli.

«Per me niente, Michele» rispose con la voce sdentata e grassa, proporzionale al suo aspetto. «Ma per la madre superiora sì.» Da sotto lo scialle spuntò il braccio e con fare deciso mi consegnò una lettera. «La reverenda madre vuole una risposta.»

La superiora mi scriveva? Invitai donna Amelia a entrare, ma mi lanciò un’occhiataccia.

«Vuoi rovinarmi? Ho una reputazione, io! La gente maligna per molto meno. Leggila qui, e sbrigati, ché ho ancora un mucchio di cose da fare!»

La fissai stupito.

«Non penserete che io…»

«Non penso a niente! Fa’ come ti ho detto, ché il tempo perso non torna indietro!»

Nella busta trovai un foglio vergato in bella grafia.

Caro Michele,

è con profondo dolore che stiamo vivendo la perdita di sua madre, la nostra cara amica e sorella Rita. Che Dio l’accolga nel suo regno. Lì troverà la pace che le sofferenze della malattia le hanno negato. Noi la ricorderemo sempre nelle nostre intenzioni.

Mi perdonerà, non era mio proposito rinnovarle il dolore, bensì invitarla in monastero, per questo pomeriggio alle quattro, per proporle la realizzazione di un’opera pittorica.

Scenda su di lei, Michele, la grazia di Nostro Signore Gesù Cristo.

Le aristocratiche volute della firma suggellavano la lettera.

Sollevai gli occhi. Malgrado non sapesse leggere, donna Amelia aveva allungato il collo nel tentativo di sbirciare il contenuto del foglio e con un istrionico sbuffo tentò di nascondere l’imbarazzo di essere stata scoperta. Le chiesi se fosse a conoscenza del motivo dell’invito; tentennò e rispose di no. Non la forzai e la pregai di riferire che sarei andato a Santa Chiara.

«Alla buon’ora, giovanotto! E ricorda che non si fanno aspettare così le signore. Soprattutto se vanno di fretta!»

Si riaccomodò nel suo scialle e si allontanò sfidando il vento tagliente con il suo passo deciso.

Dovevo essere felice per la notizia, invece ero inquieto. Fissai la strada, la tramontana si era abbattuta su Napoli e via Costantinopoli era deserta, eccetto polvere e cartacce trasportate dal vento.

Mi allontanai dai vetri con indolenza. La lampada a gas spenta penzolava dal soffitto e i pastelli, i pennelli, la variopinta confusione dei vasetti di colore sul banco giacevano in disordine. Non c’era più la mano ordinatrice di mia madre che li disponeva allineati e in parata come soldati pronti alla battaglia. Ripensai a lei. Soltanto qualche giorno prima, alla stessa ora, mi avrebbe come sempre chiamato per la colazione e io, sbuffando per l’impazienza di rimettermi subito sui miei quadri, sarei passato in cucina e avrei divorato il pane e il latte che mi aveva preparato. E senza sollevare la testa dalla tazza, avrei controvoglia risposto “Sì” e “No” alle sue solite domande: “Hai dormito bene?”, “Hai avuto freddo?”, “Dipingi anche oggi?”. E avanti così, in un’interminabile tiritera da cui mi sarei liberato con un sospiro di sollievo una volta passato in bottega.

Quella mattina, invece, fissavo i cavalletti, la rastrelliera, dove tre vedute di Napoli attendevano di essere ultimate. A essi supplicavo una normalità perduta, un mondo ormai andato. Era il 13 gennaio 1892: mia madre era morta da tre giorni.

Qualche minuto prima delle quattro, varcai la soglia del chiostro della basilica di Santa Chiara. Donna Amelia richiuse lesta la porta, come se si potessero insinuare in quel luogo sacro chissà quali vizi e peccati, dopodiché mi fece cenno di seguirla lungo il braccio nord del chiostro. Mi accompagnavano sulle pareti gli affreschi che narravano storie dell’Antico Testamento. Era la seconda volta che entravo in quel posto, dove pochi erano ammessi. La prima era accaduto grazie alle reiterate suppliche di mia madre presso la superiora, perché, artista qual ero, farmi ammirare le bellezze del chiostro era di vitale importanza.

Arrivammo dove un tempo c’era stato il cimitero e un affresco diverso prese il posto di quelli biblici: Morte di una monaca. Mi ci fermai davanti e osservandolo mi sentii inquieto, pur vedendovi una monaca che in fin di vita si abbandonava fiduciosa a Dio.

Donna Amelia si voltò e mi spronò a riprendere il passo. Varcata una piccola porta, si allungavano davanti a noi scale strette e interminabili e in cima ci attendeva un lungo corridoio scandito da bifore che filtravano una luce pallida. Lo percorremmo finché non ci fermammo davanti a una porta, poi donna Amelia bussò con deferenza e attese un istante prima di aprire.

«Il signor Castaldo è qui.»

«Entri pure» disse la superiora.

La donna si inchinò in modo ossequioso e con un energico gesto della mano mi spronò a entrare.

La superiora era alla sua scrivania, fiera e composta come fosse su un trono. Il viso asciutto, delicato, incorniciato dalle fasce della cuffia, non rivelava i suoi sessant’anni.

Lo studiolo aveva un arredo scarno: un grande crocifisso di legno appeso alla parete di fronte alla scrivania e sul davanzale interno delle due piccole finestre c’erano altrettanti candelabri. Dai vetri filtrava l’ultimo sole del giorno.

«Le sono grata per essere venuto» esordì, mentre richiudeva un grosso tomo che le era aperto davanti.

«Ringrazio voi per ciò che mi avete scritto stamane.»

Accennò un sorriso rassicurante.

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«Sua madre era una donna pia, devota alla Madonna e ai santi. L’amavamo come una consorella. Il suo portare la croce fino in fondo è stato di grande esempio per tutte noi. È stato il suo modo di servire Dio. Di sicuro grande è la ricompensa che l’attende in cielo.»

Non avevo certo intenzione di parlare di mia madre. Interpretò il mio silenzio come un segno di dolore e passò oltre.

«Immagino la incuriosisca il motivo della convocazione. Abbiamo bisogno di un pittore, ma sarò schietta, così eviteremo malintesi. Le nostre finanze sono modeste e in tempi migliori ci saremmo rivolti ad artisti, come dire… più noti. Ma sa meglio di me che il costo dell’ingaggio è proporzionato alla qualità. Non mi fraintenda… non sto insinuando che lei non abbia talento. Ma… non è, come dire, un artista conosciuto. E questo la rende accessibile alle nostre risorse.»

La sua asciutta considerazione nei miei confronti mi urtò, ma cercai di dissimulare.

«Apprezzo la vostra franchezza.»

«Mi ringrazierà per la possibilità che le offro di legare il suo nome al nostro monastero. E sappia che non nutro alcun dubbio sulla buona riuscita dell’opera.»

«Spero non ve ne dobbiate pentire.»

«Non accadrà» rispose decisa.

La religiosa illustrò il mio incarico e le circostanze che lo avevano permesso: giorni addietro l’arcivescovo di Napoli, Guglielmo Sanfelice d’Acquavella, aveva visitato il monastero e celebrato la messa. Aveva voluto visitare anche la saletta attigua alla sagrestia e in particolare la parete rivolta verso l’entrata, nota per delle tristi vicende. E lì, di fronte alla parete, una visione lo aveva folgorato: un Cristo, misericordioso e in trono, tra san Francesco e santa Chiara. Quella visione andava realizzata: un’opera semplice – aveva sottolineato –, dal sapore bizantino, poco importava se arcaico. Niente fronzoli, niente libere interpretazioni artistiche. Un’opera essenziale, austera, coerente con l’atmosfera della basilica.

La madre superiora mi raccontò senza entusiasmo dell’inopportuno amalgama d’ispirazione pittorica e rivelazione mistica dell’arcivescovo, e la sua contrarietà era acuita dall’ordine perentorio dell’altro di non bussare alla Curia per chiedere finanziamenti: il Cristo andava realizzato in economia.

Da allora la religiosa aveva trascorso notti insonni per trovare una soluzione, che la Provvidenza le aveva mandato tramite il suggerimento di una persona fidata che avrebbe permesso di coniugare risparmio e discreto valore artistico. In più, era previsto anche un piccolo aiuto per le casse della santa… Era stato proprio questo a fugare in un “Amen” i dubbi della superiora su di me.

«Chi avrebbe fatto il mio nome?» chiesi senza nascondere la mia curiosità.

«Il cavalier Federico Imbriani.»

«Il cavaliere Imbriani?»

«È un nostro fedele. Animo nobile, sensibile, gran devoto di santa Chiara, sempre tra i primi banchi alla messa domenicale.»

Non ero un pittore affermato e l’aver scelto me rispondeva più a esigenze economiche che artistiche. D’altronde Imbriani era un imprenditore, tra i più noti di Napoli, e aveva ragionato come tale. Non se ne intendeva né di arte né di pittori.

L’avevo conosciuto un paio di anni prima, quando gli avevo realizzato una veduta di Napoli ammirata da Posillipo. Su una tela di circa due metri per uno avevo dato vita a una Napoli che, come una sensuale Partenope, contemplava una rosseggiante alba sul golfo. E il Vesuvio sullo sfondo, pur dominando con la sua autorevole presenza, pareva acquietarsi avvolto in quel bagno di infiniti colori.

Per la proposta della superiora qualcun altro al posto mio si sarebbe forse indispettito. Io no. Era arrivata la mia occasione, l’opportunità di rivelare la mia esistenza artistica. E una volta per tutte avrei smesso con ritratti ricopiati da fotografie consunte e con vedute da appendere nei leziosi salotti borghesi, in cui chi vi abitava millantava un gusto tanto più presuntuoso quanto più c’era ignoranza dell’arte.

«Noto in lei una certa perplessità» riprese la religiosa vedendomi pensieroso.

«No… La proposta mi entusiasma, ma credo che sappiate che sono un pittore di ritratti e di vedute. L’affresco non è il mio genere.»

«Non vuol dire che non farà un buon lavoro. O… c’è dell’altro?»

«Cioè?»

Nello studiolo i raggi di sole avevano ceduto il posto a una tenue luce azzurrognola che iniziava a rendere incerti i contorni delle cose.

«Sa che sono solo sciocchezze quelle che si raccontano sul passato della saletta?»

«Sì, madre… anche se non ne conosco i particolari.»

«Sono passati più di quindici anni, lei era appena un bambino. Fu fatto il possibile perché l’accaduto non si divulgasse, ma…» disse in tono di biasimo «nonostante gli sforzi di chi mi ha preceduto, alcune notizie trapelarono. Fu coinvolto il pittore che stava realizzando un affresco proprio in quella stanza, Antonio Abbati. La sua improvvisa pazzia gli fece scagliare un secchio di vernice contro la sua opera. Un gesto folle, nient’altro, che i superstiziosi interpretarono come il segno di una maledizione: la parete faceva perdere il senno a chi osava dipingerci. Ne comprende la gravità? Una maledizione in un luogo sacro! Non può immaginare gli sforzi per affidare il completamento dell’opera ad altri artisti. Tutto inutile. Il progetto fu abbandonato e l’allora cardinale Sforza mise a tacere quelle insulsaggini facendo ricoprire di bianco l’affresco. Quanto all’Abbati, dopo aver tentato in seguito di picchiare una nostra consorella, rea secondo lui di avergli rovinato l’opera, fu rinchiuso in manicomio. Dubito che sia ancora vivo. Questo è tutto. Spero non si faccia influenzare da simili sciocchezze.»

«Per nulla» mi affrettai a risponderle.

In realtà, pur non credendo a presunte maledizioni, all’idea di lavorare su quella stessa parete avvertii un brivido lungo la schiena, ma mi rianimai pensando ai benefici che ne avrei tratto.

«In realtà devo molto ad Antonio Abbati» aggiunsi. «È grazie a lui se ho scoperto la pittura.»

La notizia la stupì.

«Ne è stato allievo? No… non può essere. Lei avrà avuto una decina d’anni quando Abbati fu rinchiuso.»

«Una sua opera, un ritratto di giovane donna, mi impressionò molto da bambino… E mi innamorai della pittura.»

«Un debito artistico… Bene, di certo l’aiuterà. Deduco, quindi, che accetta l’incarico. Farò redigere il contratto ma, come le accennavo, nelle casse della santa il denaro non abbonda. Pertanto non mi dilungherò in oziose trattative. Il suo compenso sarà di duecentocinquanta lire, oltre all’eterna gratitudine del nostro monastero e alle nostre preghiere che le sconteranno anni di purgatorio.»

Gratitudine e soggiorno accorciato in purgatorio non mi interessavano. Purtroppo il compenso – quello vero – era inadeguato, ma almeno avrebbe per un po’ scacciato le mie preoccupazioni economiche. E la fermezza della superiora spegneva ogni possibile trattativa.

Assentii e le chiesi di poter fare un sopralluogo nella saletta.

«Donna Amelia l’accompagnerà, ma prima… una precisazione.»

L’improvvisa gravità, accompagnata da un’espressione glaciale, non mi fece presagire nulla di buono. Mi parve più conveniente affrontare la presunta maledizione che ascoltare quella precisazione.

«Sua eminenza deve incontrare l’arcivescovo di Salerno tra poco più di tre settimane» dichiarò come un dogma di fede.

Fili invisibili univano me, il Cristo misericordioso e l’intimo conclave tra i due prelati.

«Il 7 febbraio, per la precisione» continuò. «E intende incontrarlo qui. Per allora…»

«Ho capito, per quel giorno rimuoverò ogni traccia del mio lavoro e la saletta sarà in ordine.»

Abbozzò un sorriso indulgente, sottolineato da un cenno di diniego.

«No.» Mi redarguì. «Sua eminenza desidera vedere l’affresco terminato.»

Sgranai gli occhi incredulo.

«Ma… reverenda madre, è impossibile!»

«Si calmi. Ho fiducia in lei. Concluderà l’opera per tempo, ne sono sicura.»

«Non ce la farò!» protestai. «Se non ricordo male, la parete è grande. Tre settimane non bastano. Senza contare il tempo che mi serve per imparare la tecnica dell’affresco.»

«Glielo ripeto: ho fiducia in lei. E queste sono le condizioni, se vuole l’incarico.»

Fu lapidaria. Fissai le maioliche a scacchi del pavimento e sospirai.

«Predisponete il contratto.»

Sul suo volto apparve un’espressione di sollievo e benedisse Nostro Signore. Si alzò e andò ad aprire la porta, oltre la quale donna Amelia spiccò un balzo per allontanarsi e dissimulare di essere stata tutto il tempo a origliare. La religiosa si lasciò sfuggire una supplica al cielo e allargò le braccia per quella che doveva essere una consuetudine dell’altra. Le ordinò di condurmi nella saletta, poi si rivolse a me e mi chiese di realizzare alcuni bozzetti per la mattina seguente quando, alle nove in punto, avremmo sottoscritto il contratto e avrei ricevuto l’acconto del dieci per cento.

«Abbiamo bisogno di persone serie» dichiarò nell’accomiatarmi. «E lei lo è. È un buon pittore e lavora con responsabilità. Ed è anche un buon cristiano e si prodiga per il prossimo.»

03 September 2024

Intervista Baccanalia 2024

Su Youtube la mia intervista durante Baccanalia 2024: CLICCA QUI -> https://youtu.be/fwhAFqGXQqo  
2024-09-02

Il Mattino di Napoli

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Carlo Morriello
Carlo Morriello (Napoli, 1969) vive a Castelfranco Veneto. Laureato in Lettere moderne, insegna nelle scuole superiori. Ha collaborato con periodici locali e pubblicato una raccolta di racconti (Montedit, 2000). “Oltre l’ombra dei colori”, suo romanzo d’esordio e per due volte tra i trecento finalisti al torneo letterario nazionale IoScrittore, coniuga le sue passioni per la pittura e la scrittura.
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