Basta con la gente che ti cerca solo quando conviene, solo quando le serve qualcosa. Basta con quelli che in sostanza ti prendono in giro, facendo una faccia “bella” quando sono con te… e poi, magari ti parlano alle spalle. Mario ha solo 16 anni, ma di gente così ne ha già conosciuta abbastanza. E poi, da un anno a questa parte ormai tutto è cambiato. Ma non necessariamente in negativo.
Quella giornata era stata alquanto dura. Un altro giorno dove tutto non è andato bene. Tutto storto, insomma. Anche la pioggia, che scrosciava sulle strade e fra i pensieri, finiva per confermare: è stata una giornata da dimenticare. Sembrava come se Mario stesse facendo una collezione di queste “giornate no”: era così abituato al mare in tempesta che ormai non faceva nemmeno più caso a tutto quel dimenarsi di negatività. Gli era diventato familiare a tal punto che per lui era strano provare momenti di felicità.
E da un anno a questa parte, il tutto andava peggiorando.
Era in camera. Mario è in camera. Mario passerà ancora in camera le prossime ore.
Entra in casa, non saluta nessuno. La madre gli urla addosso: «Ma proprio non riesci a mettere un po’ d’ordine in quella stanza?». «Sono affari miei: pensa alla tua di stanza». «Quante volte devo ripeterti che non devi più azzardarti a rispondermi così?». E qui Mario decise di non rispondere come voleva. In realtà, cominciava anche ad essere stanco di arrabbiarsi. A cosa serve arrabbiarsi se poi resta tutto uguale? Resta tutto così con quei genitori che proprio gli stavano stretti, troppo appiccicosi e “pesanti”: non si può vivere con due “energumeni” (come li chiamava lui) che continuamente sono in apprensione per te. Che continuamente sono in ansia per quello che potrebbe accaderti. Non si può vivere con due che hanno paura a farti uscire con chiunque, come se solo loro ed esclusivamente loro possano garantirti tranquillità, pace e incolumità. Che asfissia! E quante volte ha provato a farlo capire ai suoi, Mario, ma inutilmente: non era affatto semplice per loro “decidere” che il loro figlio stesse crescendo, che tutto ormai stava cambiando. Come mai? Perché loro erano così? Una domanda difficile e forse semplice allo stesso tempo, in realtà. Difficile, perché forse “semplicemente” loro sono così: è il loro carattere, è il loro modo di fare. O ti piace, o ti piace: non puoi cambiare le persone con la bacchetta magica. E poi… tutti lo sappiamo… i genitori mica te li scegli tu! Una domanda, forse, anche semplice: sono così, sono diventati così perché Mario non era stato il loro unico bambino. Avevano perso la sorellina più grande ed erano convinti che la colpa fosse tutta la loro. A nulla valsero le parole dei medici: era stato solo un incidente. Se la ricorda Mario sua sorella: pochi ricordi sbiaditi, ma se la ricorda. È il secondo figlio di casa Fosso, il piccolino, ma Milena un po’ ancora la ricorda. Troppo poco, ma quanto basta per mancargli qualcosa, per sentire che sarebbe stato bello avere una sorella più grande.
Ma ormai era così.
Mario non rispose nulla alla madre e se ne andò nella sua stanza.
Quella parola, “ormai”, era il suo cavallo di battaglia: ormai è tardi, ormai non si può fare più nulla, ormai è andata male, ormai ho rotto con lui, ormai sarò promosso con 2 materie da recuperare a settembre, ormai… ormai… ormai… Era quasi diventato un gioco, una scommessa: prima o poi quell’ “ormai” sarebbe affiorato nelle parole di qualcuno che gli era attorno. Chi aveva cominciato? Il padre. Sì, suo padre gli aveva affibbiato questo “destino dell’ormai”. Ed era chiaro a molti: quella parola, quel destino era come un qualcosa che doveva accadere e che non poteva che accadere. Non poteva essere altrimenti. E suo padre lo diceva sempre. Lui, che era un super-uomo, un super-affermato, un super-arrivato, un super- in tutto… non riusciva che a trovare nella lista dei fallimenti del figlio la disfatta più eclatante della sua vita. Ed era… ormai… così tutto “normale” che non si arrabbiava nemmeno più lui di quello che (non) faceva suo figlio. Al massimo, se ne vergognava. Ma nulla di più. «La strada, caro mio, come te la fai, così te la trovi»: questa sentenza poteva essere praticamente il motto di casa Fosso. Perché sulla bocca del signor Paolo Fosso queste paroline affioravano almeno una volta al giorno. E per Mario, almeno una volta al giorno, erano una condanna a morte.
Mario ha chiuso la porta della sua stanza. Nessuno era più autorizzato ad accedervi, almeno da 3 anni a quella parte. Da quando lui aveva deciso di “esser diventato grande”. E che quindi aveva bisogno “della sua privacy”. Almeno su questo, Mario era d’accordo con il signor Paolo: per ottenere qualcosa, è lui che bisogna convincere. Quella camera era il suo rifugio, per davvero: lì trovava spazio qualunque emozione, qualunque desiderio. Al di là di come sarebbero andate le sue cose, Mario sapeva bene che la sua stanza gli sarebbe stata sempre… vicino!
Mentre si tuffava sul letto, si illuminò lo schermo del suo cellulare: nonna Mafalda (la madre di sua madre) gli aveva inviato il solito messaggino su Telegram per chiedergli come fosse andata la giornata. Nonna Mafalda: lei sì che è una donna/nonna top! Il cellulare? È una passeggiata per lei. E così tutto il resto della tecnologia. Una nonna equilibrata, bella e affascinante donna, che “fa” la nonna ma che non ha smesso di amare la vita. Mario è sempre stato il suo nipotino “del cuore” (la parola “preferito”, diceva lei, non era quella corretta… perché una nonna non fa preferenze). E Mario questo lo sapeva molto bene. Era lei “la persona grande” con cui riusciva a confrontarsi, da cui accettava anche le ramanzine. Ma per un semplice e solo motivo: era evidente che nonna Mafalda si prendeva cura di lui. Prendersi cura è qualcosa di troppo bello: è ricordarsi delle piccole cose delle persone a cui vuoi bene, è stare vicino senza invadenza. È prenderti anche quel piccolo spazio che l’altro ti lascia e di lì spargere tenerezza ed entusiasmo. Ecco: questo era per Mario sua nonna. Questo e tanto altro, in realtà.
Quel giorno era un giorno eccessivamente no. Mario lesse, visualizzò ma decise di non rispondere. E Mafalda sapeva bene che in quel caso doveva lasciare andare: nessuna insistenza, nessuna parola di troppo. Mario doveva sapere che lei c’era, che era con lui. Soprattutto negli ultimi undici mesi, doveva (sì, doveva!) sapere che non era affatto solo. E Mafalda, poi, sapeva bene che la tristezza di Mario non era affatto da biasimare, né da sottovalutare: avrebbe portato molto oltre l’immaginabile. Solo che Mario, questo, ancora non lo consapevolizzava. E nemmeno i suoi genitori. Purtroppo!
Anche quella sera provò a fare il suo “solito giro” su TikTok: intrufolarsi nelle vite degli altri (o in quello che gli altri volevano mostrare delle proprie vite) era per lui come una medicina, come un po’ di zucchero dopo aver bevuto caffè e sale. Lo aiutava a distrarsi, a non rimanere imbrigliato nei suoi pensieri. Fino a che non si stancava e fino a che non sentiva indebolirsi la sua tristezza. Ecco, quello era il punto per poter tornare alle sue cose, un po’ sollevato, un po’ rilassato. In attesa che quella tristezza tornasse alla carica. Devastando.
Era “ormai” un’ora che Mario scorreva quei video: lo sguardo cadde sull’orario, segnato dal suo orologio. Un’ora. Di solito dopo quindici o venti minuti, tutto diventava più semplice, più appagato e pacato. Quel giorno, nemmeno quel passatempo riusciva a sollevarlo. Era veramente il capolinea. Sì, perché era da almeno una quindicina di giorni che Mario diceva di non farcela più. Che era meglio farla finita. Lo diceva al suo vicino di banco, lo diceva nella rabbia ai suoi, lo diceva a sua nonna tra le lacrime, lo diceva con i suoi post “depressivo-andante” su Instagram. L’aveva detto, insomma, a tutti. Solo chi non aveva cuore poteva non accorgersene. Mario parlava sul serio, e pochi lo hanno preso sul serio. Voleva farla finita e basta. Era un chiodo fisso. Morire per non soffrire più. Il traguardo migliore da raggiungere, la svolta più efficace da poter dare. Forse almeno di questa “serietà” suo padre sarebbe stato contento: perché l’aveva detto e l’avrebbe fatto. Una parola “data” e realizzata, insomma. E non come le tante volte in cui aveva promesso di studiare di più, di essere migliore in questo o con quest’altro… ma senza cambiare. Quella poteva essere la svolta. La svolta definitiva, per l’appunto.
Le sue “navigazioni in incognito” non avrebbero permesso che i suoi piani potessero essere scoperti: e difatti ogni giorno, nelle ultime due settimane, Mario continuava a leggere storie di ragazzi che si erano tolti la vita. Cercava il modo “migliore” per smettere di vivere. Voleva a tutti i costi trovare una possibilità che non facesse male a nessuno. L’occasione per lui era semplice da trovare: i suoi, al mattino, escono di casa alle 6:40 per recarsi a lavoro. Sono due professionisti che “non sgarrano” mai un minuto: a quell’ora si esce, perché essere precisi e in orario è fondamentale. Si vede da subito (già dalla puntualità) se sei una persona di cui fidarsi e a cui affidarsi. Il loro successo lavorativo, in effetti, era il loro primo “figlio” e in qualche modo anche il “figlio preferito”. Quello era l’orario perfetto: sarebbe stato solo, tutto solo. E lì il suo piano poteva essere portato a termine.
«Toc toc»: mamma Gemma non solo bussava prima di entrare in camera di Mario, ma riproduceva con la voce il suono delle mani e del legno che cozzavano tra loro. «Arrivo: lo so, lo so… la cena è pronta». «Posso entrare?». Mario le diede il permesso: Gemma si sedette accanto a lui, sul suo letto. Da sdraiato, Mario si mise seduto accanto alla madre: «Papà è tornato?», le chiese. Mamma Gemma gli spiegò che era a casa da una quindicina di minuti e che stavano per mettersi a tavola. «Come stai?», aggiunse. Mario la guardo, come per dire che fare quella domanda era davvero inutile. Sembrava stesse per cominciare a parlare di sé, ma si trattenne. «Hai sentito nonna oggi?». «Sì, sì, come ogni giorno». «Bene, bene. Andiamo?». Mario annuì, alzandosi dal suo letto.
Fu una cena veloce: Paolo e Gemma parlarono dei soliti problemi di lavoro, Mario perdeva tempo al telefono. Tutto sembrava quel “quadretto familiare”, tranne che una cena: e soprattutto, tutto sembrava, tranne che una famiglia. Non appena potette, Mario tornò in camera sua.
E si mise a letto. Aveva un chiodo fisso ed era convinto che tutto dovesse andare esattamente come aveva deciso e pensato. Prese il suo telefono e decise di provare a scrivere qualche riga di addio. La salvò fra le note del cellulare. E cominciò a buttare giù le prime parole… ma le cancellò subito. E poi una seconda volta il cursore tornò indietro per buttare all’aria anche quella nuova frase d’apertura. Finché ebbe chiaro cosa dovesse rimanere come sue ultime parole. «Se resto qui, i miei occhi rimarranno spenti e muti. Solo se vado oltre, solo se ci rincontreremo, solo così brillerò di nuovo per la gioia. Vi lascio soli, lo so. Ma io, finalmente, non sarò più solo. Mai più!».
Era fatta: salvò quanto aveva scritto, così che non si cancellasse, e si mise a dormire.
Prima, però, doveva compiere l’ultima azione del giorno: vedere una scena di un film di Alberto Sordi. Anche se praticamente conosceva a memoria ogni frammento dei suoi film, andare a dormire con quelle immagini nella mente e con quelle parole nelle orecchie gli dava un po’ di pace. Giusto quel po’ di pace che serve per addormentarsi, a fine giornata. Era stata nonna Mafalda a trasmettergli quella passione cinematografica: e Mario stesso non sapeva se guardava quelle scene perché era invaghito della comicità dell’attore o perché guardando lui, in realtà immaginava e riproduceva sulle sue labbra il sorriso e l’allegria di sua nonna. Mario era così “fissato” con Alberto Sordi da avere ancora appeso in camera un poster che nonna Mafalda gli aveva regalato diversi anni prima. Guai a chi lo toccava! Era forse una delle cose più preziose, per lui.
Più prezioso di quel poster, c’è solo un piccolo cofanetto.
Cosa c’è nel cofanetto di Mario? Dei bigliettini, delle letterine. Scritti di almeno quattro anni. Sono bigliettini scambiati in classe. Letterine ricevute da “quella mano speciale”. Nessuna di quelle letterine, nessuno di quei bigliettini è andato mai perso. Ed erano tutti lì, in quel cofanetto. Ordinati per data, rigorosamente. Ogni giorno, Mario apriva il cofanetto e prendeva a caso uno di quei fogli così importanti. E rileggeva, come se fosse stato scritto oggi. Anzi, poco fa. Leggeva, ricordava. E qualche volta piangeva. Poi tutto veniva richiuso, meticolosamente rimesso in ordine. E il cofanetto tornava al suo posto, sul comodino della cameretta. Talvolta Mario accarezzava quel cofanetto. Proprio come se fosse una persona! Lo aveva trovato in casa della nonna, proprio quattro anni prima: lo aprì e lo trovò vuoto. Quindi chiese a Mafalda se potesse prenderlo. E ben presto si riempì di ricordi cartacei. Era così fiero di sé per quella ineguagliabile collezione, soprattutto perché era riuscito a fare qualcosa di diverso da quelle miriadi di messaggi, più o meno lunghi, che si scrivono tramite telefono. Erano fogli troppo particolari. E privati, assolutamente privati. A casa, Gemma e Paolo sapevano di non poter aprire il cofanetto (tra l’altro “corredato” di apposito lucchetto). Conoscevano il contenuto di alcuni di quei fogli, un po’ perché inizialmente lasciati in giro, un po’ perché sbirciati da loro. Quattro anni prima: era cominciato un tempo così bello… Ma undici mesi fa, tutto andava a finire.
#nelloltretesto
SCHEDA 1
keyWORD
Una parola per il tutto
Cerca quella che secondo te è la PAROLA CHIAVE del capitolo. Poi verificate insieme quali parole sono le più #virali e trovate la KEYword di classe.
NEWwords
Nuove “conoscenze”
Trascrivi una PAROLA NUOVA, un termine che non hai trovato nelle letture che hai fatto fino ad oggi. Verificate in classe la parola più #virale fra quelle scelte.
blogTIME
Per scrivere e per parlarne
“Quella camera era il suo rifugio”
Com’è la tua stanza? Cosa fai nei tuoi spazi? Hai un posto-rifugio?
“Quella parola, ‘ormai’, era il suo cavallo di battaglia”
C’è qualcosa che pensi che “ormai” sia così e basta? Cosa vorresti cambiasse di te, della tua vita, delle persone che conosci?
“Ecco: questo era per Mario sua nonna”
Hai una persona della tua famiglia che per te è speciale? Come un punto di riferimento…
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Dal flash ai ricordi
Cerca una foto stampata o digitale che dica qualcosa di importante per te della tua vita fino a questo momento.
Scatta una foto a qualcosa che per te, oggi, è veramente importante.
Condividete in classe i vostri scatti.
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