“Non so che farmene” protestò. “E con tutta questa roba addosso non so nemmeno se riesco ad estrarre il raggio”. Si portò una mano alla coscia, sul fodero nascosto tra i vestiti che celava lo stiletto di argento lunare, sacro alla Dea. Lo sfilò con un gesto ostentato e lo puntò dritto verso la più giovane delle adepte. Il pallido metallo della lama saettò, allungandosi di un palmo sotto lo sguardo attonito della ragazzina. Nella scarsa luce della stanza, traducendo la sua volontà, Endymion lanciava bagliori lunari, lungo venature invisibili in pieno giorno. Ci aveva messo un intero anno prima di ottenere la confidenza sufficiente per plasmare la forma e la lunghezza della lama. Ad Iste erano bastati tre mesi.
Fece ruotare l’impugnatura di nixalba tra le dita, mentre la lama tornava a contrarsi, prima di scorrere nuovamente nel suo fodero. “Questo è tutto quello di cui ho bisogno”.
Iste, dal canto suo, aveva già messo la spada nel fodero e adesso sembrava attendere. “Sono pronta” sottolineò.
“Andiamo”. Ura con un cenno allontanò le iniziate e si avviò verso la porta.
“Stai benissimo” le sussurrò Iste, prima di andare.
Quanto avrebbe voluto toglierle quel sorriso perfetto dalla faccia.
Erano sole nella stanza. Il sole primaverile filtrava attraverso le tende leggere, che oscillavano alla brezza del sud.
Adorèa chiuse per un istante gli occhi, annusando l’odore che giungeva dal giardino.
Un rumore alle sue spalle. “Voi dovete essere le guardie del corpo”.
L’uomo era alto e snello, il volto privo di barba, i capelli argentati, teneva le mani dietro la schiena e le guardava con un velato fastidio.
Era il primo uomo che vedeva da anni e la cosa le provocò un certo disagio. Si chiese se fosse un eunuco. Le sorelle gli avevano detto che gran parte delle servitù della cittadella era stata castrata.
“Il mio nome è Eru e sono il segretario della protècora Tàlia. La signora arriverà presto. Immagino conosciate già il protocollo”.
“Sì”. Iste non mostrava alcun impaccio in quella nuova situazione.
Il protocollo è una cazzata. Questo avrebbe voluto dirgli, ma il pensiero di giocarsi la sua prima occasione di evasione dal Monastero in quindici anni le tenne a freno la lingua.
Si toccò il polso per risistemare un laccio dell’epipechion che le sfregava sulla pelle. L’armatura d’onore era un tormento, ma avrebbe dovuto farci il callo, se fosse riuscita a non farsi cacciare via troppo in fretta.
Un movimento la mise in allerta. Istitivamente portò la mano alla coscia, ma Iste la fermò, con discrezione, mentre un bambino, entrato da chissà dove, sfrecciava nella camera e si gettava su una pila di cuscini.
“Semidespote Leno”. La voce del segretario della protècora tradiva una certa accondiscendenza. “Non dovreste essere con la vostra istitutrice?”.
“Io volevo vedere le guerriere!” borbottò il bambino. Non doveva avere più di sei o sette anni. “Le Mani della Dea”.
“Ed eccole, dunque, che ve ne pare?”.
Il semidespote le squadrò imbronciato. “Sono delle bambine”.
“Ma da molto non giochiamo con le bambole!”. Aveva risposto d’istinto. Maledetta lingua.
Il giovane Leno la studiò per un istante, poi si mise in piedi. “Come ti chiami?”.
“Su, mio signore”. Eru sembrava aver esaurito la pazienza. “Avete dato più di un’occhiata e vostra madre sarà qui a momenti. Sapete che non sarebbe felice di trovarvi distratto dalle vostre lezioni”.
Il pensiero del prossimo avvento della protècora sembrò sortire l’effetto dovuto e il semidespote sgattaiolò via da una porticina nella parete ad est. Quando l’ebbe richiusa dietro di sé, nessuna traccia, neppure la più piccola fessura, restò a indicarne la presenza.
Sentì la sua voce. Le giunse filtrata dalle pareti, ornata del cinguettio degli uccelli del giardino, odorosa di sole e rose; una sensazione che faticò ad interpretare nell’emozione del momento.
Quando infine la porta si schiuse, non ebbe difficoltà a distinguere tra le ancelle, la protècora Tàlia. Non fossero bastati i suoi abiti rigidi, trapuntati di perle nere o il diadema che le cingeva la fronte, sul quale scintillava uno zaffiro grande come una goccia, la Lacrima di Rea, sarebbe stato il suo volto di una bellezza antica a toglierle ogni dubbio. Era di almeno quaranta anni più grande di Adoèra, eppure i suoi tratti, così simili a quelli visti in decine di raffigurazioni della matriarca Assira, appartenevano a una giovane maliziosa e luminosa come la luna, nella cornice di capelli corvini e lunghi: un colore insolito in tutto l’Altoregno. I capelli sono quelli del principe consorte.
Il marito della Matriarca apparteneva alla nobiltà del nord dell’altopiano, quasi un gruppo etnico separato, che vantava una dinastia vecchia almeno quanto quella della casa reale. Al monastero era stata costretta a imparare a memoria i nomi delle ultime dieci signore di Curos. Quella litania le tornò in mente con un certo fastidio.
La protècora si fermò a guardarle, come avesse dimenticato di quella circostanza. Sotto i suoi occhi una linea azzurra di trucco scendeva diritta sulle gote. “Oh” disse infine. Due delle ancelle si scambiarono uno sguardo di complicità. “Quindi voi sareste la mia guardia personale” sbuffò, facendo alcuni passi verso di loro, una mano sull’altra, il mento alto, gli occhi turchesi fissi ad ispezionarle, ma senza un reale interesse. “Sembra che l’inquietudine di mia madre cresca con il mio grembo”.
Il Segretario si schiarì la voce, tradendo il suo disappunto. Adesso era abbastanza chiaro quello che i vestiti cercavano di dissimulare e, conseguentemente, il motivo per cui i loro servizi erano stati richiesti.
“Oh, abbi pietà, Eru, credi che le nostre due sorelle possano guardare il mio corpo senza vedere cosa nasconde? Sarebbe alquanto deludente, non è così?”.
Le ancelle risero, con discrezione.
Tàlia si avvicinò a Iste. La sua mano scivolò sulle trecce bionde. La protècora non dimostrava i suoi quasi sessantacinque anni, nonostante quella fosse la sua terza gravidanza. Il suo corpo era elegante, il collo sottile, le braccia aggraziate. In altezza superava persino Adoèra e di almeno un palmo Iste. “Mio padre ritiene che una guardia maschile sia inappropriata”. Lanciò uno sguardo a una delle ancelle, che abbassò subito gli occhi. “E non considera gli eunuchi all’altezza della situazione” disse poi, alzando la voce, perché il suo segretario non si perdesse una sillaba. “Si dice che voi sorelle guerriere siate le più micidiali armi dell’Altoregno. Di certo i miei mariti non disdegnerebbero di mettervi alla prova, se ne avessero l’occasione”.
“Le sorelle prestano giuramento di castità”. La voce di Iste tradiva una certa tensione. La osservò: i suoi occhi erano fissi in quelli della protècora. Si chiese se anche Tàlia avesse intenzione di metterla alla prova.
“Oh, certo”. La protècora sembrava non aver preso molto sul serio la sua affermazione. “Un giuramento prestato a sette anni…Come se io promettessi di non volare mai”. Volse gli occhi su di lei. “Ma a me le ali non cresceranno. I vostri corpi invece sono cresciuti al punto giusto”.
“Se i vostri mariti proveranno anche solo a guardarmi” mise in chiaro Adoèra “avrete qualche eunuco in più al vostro servizio”.
Nella stanza l’aria della primavera divenne in un istante gelida come sull’altopiano poteva essere solo in pieno inverno. Persino Iste aveva smarrito la sua compostezza, mentre il Segretario, a bocca aperta, guardava smarrito la sua signora e le ancelle si coprivano le labbra con la mano.
Fu una risata della protècora a spezzare infine la tensione. “Alta Selene, dovremo riavere questa conversazione in presenza di Temor!”. Corse verso di lei e le mise una mano sulla spalla. “E dovrai fissarlo negli occhi come adesso stai facendo con me, te ne prego”. Si volse poi verso Eru. “Le sorelle sono reclutate”. Poi ancora tornò a rivolgersi a lei. “Faremo presto conoscenza. Non ditemi adesso i vostri nomi o li dimenticherei. Vado davvero di fretta: quel tormento di mia sorella Lidia mi attende!”.
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