QUELLO CHE DEVI SAPERE
Annibale aveva raccontato molte volte la sua esperienza; prima ai suoi coetanei, una volta fatto rientro in paese, e in seguito a donne e uomini molto più giovani di lui. Ogni volta, nei suoi pensieri, le parole si trasformavano in visi e in voci che riemergevano dai ricordi, dandogli modo di rivivere tutto quello che era accaduto, come in un film. Di tutto quel parlare e riflettere sul suo passato era emersa una sola verità: diventare uomini non era mai stato facile per nessuno, tantomeno per chi, come lui, aveva cercato in ogni modo di sopravvivere a una guerra, la Seconda guerra mondiale.
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Non amava vincolare la libertà altrui nell’immaginare come meglio credessero quel che aveva vissuto. Si rendeva conto che alcuni rimanevano incantati dall’accaduto, altri mostravano un palese scetticismo, figlio della mancata conoscenza e dell’incapacità di immedesimarsi; ciò nonostante, col tempo si era reso conto che l’interesse per la tragedia della Grande guerra cominciava a scemare, in particolare tra i giovani nati e cresciuti nella fase di benessere propria del dopo-guerra.
Annibale si era convinto fosse giusto così; chi ascoltava non aveva vissuto quel periodo e non nutriva nessun coinvolgimento particolare per un tempo ormai lontano, troppo lontano e differente dalla realtà che conosceva. Solo una volta, spontaneamente, si era presentato a casa sua un giovane compaesano amante della storia militare per intervistarlo e conservare nella biblioteca del paese la sua testimonianza e quella degli altri sopravvissuti alla Grande guerra, ma nulla di più.
Il conflitto era distante come uno spettro che nessuno sentiva la necessità di evocare. Chi lo aveva conosciuto era d’accordo sul fatto che la propria parentesi nell’esercito andava archiviata per sempre. Annibale si sentiva reo di non essere stato capace di coinvolgere maggiormente nei suoi ricordi i giovani, di condividere con loro le sue emozioni, proprio quelle che l’avevano reso l’uomo che era diventato.
Non era mai stato semplice trovare le parole giuste per condividere la sua verità, la realtà che aveva vissuto, la stessa che adesso aveva senso solo confinata nella sua testa. Come si può rendere l’idea di un campo di prigionia a un uomo che ha sempre conosciuto solo la pace e la libertà? Un luogo dove il giorno fa più paura della notte, e i carcerieri sono così crudeli da indurti a pensare che morire potrebbe essere meno doloroso che vivere; un posto dove si vive circondati da una nebbia di dolore, e solo la sensazione della fame ti ricorda che sei ancora vivo.
Ricordare e raccontare, a chi non aveva mai conosciuto l’inedia della guerra e la miseria di una vita vissuta senza dignità, era un’esigenza.
Così le sue parole, i suoi pensieri, avevano preso il ritmo del mare che da sempre l’aveva accompagnato; un’alternanza celeste e sicura di alti e bassi, imperscrutabile e infinita come il creato. Non sempre il mare è un confine: per chi è nato in un’isola, come era capitato a lui, tante volte quell’immensa distesa azzurra è solo l’inizio di una storia, tuttavia…
“I pensieri di un vecchio raramente suscitano attenzione ed entusiasmo, questa verità per me ha il sapore di un ingiusto castigo. Ricordati di raccontare!” ripeteva sempre come fosse un mantra, con l’aria assorta, mentre appoggiato al suo bastone osservava cambiare il mondo.
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