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Consegna prevista Dicembre 2025
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Il libro parla di una storia d’amore giovanile con tutte le annesse problematiche del tipo. Vivere il primo momento post-adolescenziale è molto complicato, fatto di insicurezza relazionali difficili da scavalcare. Il libro scava all’interno dei personaggi analizzando il loro approccio con sé stessi e con la realtà. L’incipit di ogni capitolo è una considerazione generale su alcuni momenti che appartengono ad una sorta di “memoria collettiva” amorosa, ovvero alcune difficoltà quasi tipologiche dei giovani e delle loro insicurezze. Gli incipit poi si inverano nei racconti delle situazioni in cui i personaggi sono inseriti e nelle descrizioni degli ambienti esterni e soprattutto interni. Il libro si chiama Parallele proprio per il significato stesso di questa parola, due rette che appartengono allo stesso piano ma non si incontrano mai. Forse.

Perché ho scritto questo libro?

Questo libro nasce per fare compagnia. La musica, come la letteratura, come molte altre tipologie di arte, diventano un luogo di rifugio e di conforto. Conforto che nasce dal trovare all’interno delle opere persone che provano i nostri stessi disagi. Ho scritto questo libro nella ferma convinzione della potenza artistica dello stare vicino al lettore, della compartecipazione del dolore nell’arte e nella certezza che nessuno soffre da solo, ma soprattutto, nessuno si salva da solo.

ANTEPRIMA NON EDITATA

È notte, il silenzio della vita passata fa sì che non si possa percepire altro, se non quello che si attende, quello che manca. Quando i momenti della vita tacciono allora si può guardare bene dentro e fare, piacevolmente o spiacevolmente, un bilancio di ciò che si possiede e di ciò che sfugge alla propria presa. Frastuoni, grida, rumori di bicchieri che quasi si spaccano quando un brindisi troppo fragoroso, o semplicemente troppo alcolico, suggella l’esagerazione delle sere che non precedono giorni impegnati. La tempesta, che come sempre precede la quiete, si abbatteva sui locali pieni di gente che si concedeva al vizio della notte. Due ragazze venivano sbranate da sguardi rozzi e indiscreti di ragazzi che avevano perso i freni inibitori, aiutati dalla birra e da solo dio sa cos’altro. Predatori che guardano con attenzione e con celata violenza le loro prede, in un ambiente di caccia quanto mai più consono a chi vive le ore del divertimento. Fantasticavano su come avrebbero potuto rovinare la loro delicatezza e giovinezza con atti che non avrebbero realmente messo in pratica, anzi, più probabilmente, fino ad allora mai avevano avuto la fortuna di trasformare in atto. Fortuna che altro non era che coraggio mancato.

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Loro, inconsapevoli – pensavano persino di avere l’ardore necessario ad una battaglia – finivano per scaricare le colpe sul fato, che mai gli aveva concesso la giusta occasione per sfogare l’animalesco desiderio che forte stringeva il loro petto. Dall’interno del locale le grida del proprietario sembravano i corni di guerra vichinghi che anticipano la lotta. Forse qualcuno aveva esagerato e stava rischiando un linciaggio, uno di quelli che difficilmente si scordano e di cui il solo ricordo fa sì che nel futuro si alzi un po’ meno il gomito. Un ragazzo era seduto solo, ad un tavolo in disparte, escluso dalla vita mondana, frenetica. Tutti sembravano conoscerlo, ma nessuno si sedeva a fargli compagnia, nessuno aveva realmente voglia di passare del tempo con lui.

Come da routine, il solito: “Un Campari soda, ghiaccio e arancia, grazie” e cominciava la sua osservazione del mondo, quasi come se volesse prendere appunti come all’università, la velocità che lo circondava era una lezione che lui aveva difficoltà a capire fino in fondo. Come si fa a stare con gli altri? Come si fa ad annegare i propri pensieri nel bicchiere? Come la vita riesce a diventare più leggera semplicemente perché se ne dividono i momenti con qualcuno? Lui non lo sapeva, e questo era il suo peso specifico. Tutti ne hanno uno. Per lui sembrava essere quello più pesante, nonostante nessuno nella letteratura – che conosceva bene, e che per lui era l’unico momento di contatto sociale, certo con persone fittizie dalle storie inventate, ma che a lui sembravano più reali di tutti quelli che conosceva – avesse mai stilato una lista, ordinata in ordine crescente o decrescente, di cosa fa più male e cosa meno. In questo era molto simile agli altri, che lui tanto disdegnava. Mettere il proprio male e il proprio dolore allo zenit della scala della sofferenza è una caratteristica comune tra gli esseri umani.

Mentre si dimenava come al solito tra le sue paranoie, e con non poca difficoltà cercava di districare i suoi troppi dilemmi – più intrecciati del filo delle cuffiette, ormai quasi vintage, che erano nella sua tasca sinistra -, eccola. Una ragazza con i capelli castano chiaro, non troppo lunghi, che scendevano delicatamente e per qualche centimetro sulle spalle, seduta al tavolo di fronte a lui. Poteva vederla solo dalla cinta in su. Aveva una maglia crop, attillata, che non lasciava molto all’immaginazione, l’occhio poteva percorrere tutte le sue linee con precisione chirurgica. Notò che non indossava il reggiseno, ma il solo far cadere i suoi occhi sul seno di lei lo imbarazzò, e dopo mezzo secondo dovette distogliere lo sguardo. Gli sembrava di varcare una linea proibita, di operare una violenza anche se non percepita dalla giovane – non era come i rozzi predatori che aveva osservato con sdegno poc’anzi – no, lui era diverso, non poteva. No. Non poteva. Ma qualcosa dentro di lui lo trasportava e ogni tanto, quando lei non sembrava accorgersene, faceva di nuovo cadere lo sguardo sulle sue curve. Tra un Campari e l’altro immaginava come potessero essere le sue gambe. Chissà chi avrebbe dovuto ringraziare per averla trovata seduta così da celare almeno in parte il segreto del suo corpo, e permettergli di immaginare cosa nascondesse sotto quel tavolo di compensato, verniciato per farlo sembrare di un legno non scandente quale in realtà era.

Si ricordò in quel momento di un appunto di Leopardi sullo Zibaldone, che diceva: “Alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta”. Di certo la sua stava volando nell’immaginazione. “Caro Giacomino quante ne sapevi” pensava; forse non era proprio quello l’ambito di applicazione del poeta, ma lui usava la letteratura come guida all’uso della sua vita, e non meno spesso come giustificazione dei suoi pensieri. Aveva trovato quella sera la sua Despina, gloriosa città tra le invisibili di Calvino, città del desiderio, città del deserto opposto al suo. Si sentiva il cammelliere, che dopo aver visto solo sabbia, riusciva a scorgere in Despina il mare, immenso e blu, e immaginava di essere un mercante esperto, di salpare verso l’orizzonte e verso mari sempre più ignoti. Quella ragazza era questo per lui già dall’istante successivo al primo sguardo, il deserto completamente opposto al suo e che lui sognava di solcare. Di certo si capiva quanto i due fossero diversi. Lei sembrava a suo agio nella vita, rideva. Addirittura, sorseggiava del vino in compagnia di un uomo. Non come lui, che scappava da qualsiasi contatto sociale, non riusciva nemmeno a dire una parola se attorno a lui orecchie più o meno interessate lo stavano ascoltando. Dentro sentiva crescere l’invidia per il giovane seduto con lei, così ben vestito – a lui non piaceva tanto come era vestito, ma doveva ammettere che forse poteva risultare piacente al frequentatore medio di quel locale, che vedeva nella camicia con il maglioncino lo zenit della moda mondiale – non come lui, con i suoi jeans larghi e sgualciti, il felpone due taglie più grandi, sulla quale aveva messo una maglia e già sentiva sghignazzare chi lo osservava. “Ma lo sa che la maglia va sotto e non sopra la felpa?”, “Stasera ci si veste al contrario a quanto pare!”.

L’opinione altrui lo toccava, e anche in modo pesante. Era un pessimo attore quando si trattava di nascondere le ferite che derivavano dal modo in cui gli altri lo percepivano, ma cercava di non preoccuparsene. In fondo, loro cosa sapevano? Lui vedeva le sfilate, leggeva libri di famosi stilisti, studiava le loro visioni, cercando di imitare, per quanto la sua situazione economica lo permettesse, le loro stravaganze. Forse, però, se stasera avesse indossato la camicia e il maglioncino sarebbe stato lui a sedere a quel tavolo. No, non poteva essere solo quello. Magari quel ragazzo era molto bello – non riusciva a capirlo, ma dalle spalle larghe se ne faceva comunque un’idea, doveva essere un adone scolpito -, o magari era interessante, aveva una certa dote nel linguaggio e l’aveva stregata con storie di vita sfrenata. Nonostante tutto, non era minimamente sfiorato dall’idea di fare cambio con quel giovane. Solo il pensiero di dover parlare con una ragazza così bella, lo metteva a disagio. In ogni situazione fantastica che immaginava, lui finiva per scappare via con la coda tra le gambe. Stava arrossendo, lo sentiva, sentiva crescere un calore dentro di lui che presupponeva la sua trasformazione in un pomodoro. Ma cazzo! Solo la fantasia lo atterriva così tanto. Che disagiato! Che sfigato! Mentre nella sua testa ingaggiava questa lite con le sue fragilità, gli sembrò che lei lo stesse guardando. Panico. No, non è possibile. Forse, proprio in quel momento passava dietro di lui il cameriere, e lei cercava di intercettarlo con lo sguardo per non sembrare sgarbata e chiamarlo ad alta voce. Sì, sicuro era andata così. Era più probabile che lei volesse ordinare un’altra bottiglia di vino – la loro era ormai finita – che guardare uno come lui. In fondo, di fronte aveva un ragazzo ben più pronto e sicuramente più piacevole. Si stava tormentando così tanto, che la decisione di andare via gli sembrava la sua ultima salvezza. Il vento delle sue emozioni stava facendo ribaltare la sua nave, lo sentiva, lo sapeva. Come al solito aveva fatto diventare un punto nel mare un gigantesco iceberg. Doveva smetterla. A lei non interessava di lui, e lui, comunque, non era alla sua altezza. “Il conto, grazie”. Non voleva assistere alla scena di lei che si allontanava con quell’omone. Vederla voltargli le spalle e andare verso una notte d’amore lo avrebbe ucciso. Ma quanto era sciocco. Per la prima volta stasera l’aveva vista, e già questa si era trasformata nel suo tormento. Il conto arriva. Lui lo paga. Si alza e va via per la strada opposta al tavolo di lei, così da non passarle nemmeno davanti – la sua macchina era nella direzione opposta, ma comunque meglio fare più strada che subire un’altra sconfitta -. Lei non si sarebbe curata di lui che stava andando via, e questo lo avrebbe ferito. Nonostante non la conoscesse. Nonostante non l’avesse mai vista prima. Nonostante – e di questo era certo – non sarebbe mai e poi mai riuscito a scambiare una parola con lei.

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Mario Pio Novelli
Mario Pio Novelli nasce il 8 agosto 1999 a Foggia e vive da sempre a Troia, un piccolo paese in provincia di Foggia. Diplomato al liceo scientifico, prosegue i suoi studi con una laurea triennale in Lettere Moderne e attualmente è studente del corso di laurea magistrale in Filologia Moderna. In ambito artistico, Mario inizia la sua carriera come autore musicale, arrivando successivamente alla produzione di brani musicali propri, esplorando diverse sfaccettature del mondo della musica. La sua passione per la scrittura lo spinge ora a intraprendere la sua prima esperienza come autore letterario, un passo importante nel suo percorso artistico e creativo, alla ricerca continua di nuove forme di espressione con cui dar vita ai propri immaginari.
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