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Passeggiata nella notte

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Al compimento dei suoi trent’anni, Sofia vuole rifiorire e concedersi la primavera di vita che tanto ha desiderato, malgrado un divorzio in corso e un rapporto complicato con i figli. Il suo ritorno forzato nella villa degli ex suoceri e del marito, disposto a tutto pur di ricostituire la famiglia, sarà per lei una discesa agli Inferi, in cui riaffioreranno stereotipi sociali e angherie che già in passato l’avevano portata sull’orlo dell’abisso. La rinascita personale che i suoi stessi figli non capiscono e che il suo ex marito osteggia in ogni modo costerà a Sofia un enorme sacrificio.

Cosa fare quando “famiglia” non è sinonimo di “felicità”? Emanciparsi o conformarsi per il bene di tutti? 

CAPITOLO UNO

Ero pazza, sì, ma non per i motivi che diceva Viktor. Mi stava capitando di vivere, invece, una nuova adolescenza, che mi ingravidava il cuore di un desiderio astratto; così, finalmente, entrai nell’appartamento del mio amante segreto, Ivan. Era un alloggio piccolo, odoroso di essenze, arredato con mobili in legno grezzo, pieno di fotografie appese alle pareti, di libri e riviste ammucchiati ovunque e di souvenir dall’Africa e dall’Asia. Lui era davvero un uomo con lo sguardo sempre rivolto altrove, mi ricordava le caravelle che vedevo talvolta in sogno quando la mia vita era particolarmente insoddisfacente: tre caravelle che partivano verso l’orizzonte, lentissime, quasi immobili; io le guardavo da una finestra che incorniciava il mare immobile e verticale.

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 Avevo la sensazione che esistesse ancora un orizzonte, quindi un futuro radioso di nostalgia. Al risveglio, però, mi rimaneva appiccicata addosso una sensazione di gioia e di perdita da recuperare. Benché si trattasse solo di un sogno, mi dava il gusto di ciò che avrebbe potuto essere una condizione di intima gioia, e mi sprofondava nella nostalgia per qualcosa che, forse, non apparteneva neppure alla mia vita, a questa vita, ma solo alla possibilità dell’esistenza di un’altra, magari nemmeno mia. 

In corridoio, appena oltrepassata la porta d’entrata, mi fermai a guardarmi attorno. 

«Entra, non avere paura.» 

«Non ho paura, è solo strano. Fammi realizzare che sono qui davvero, aspetta un attimo, un attimo solo. Dammi un bacio.»

La sua lingua sapeva di tabacco. Ero rimasta a fissare le foto appese alle pareti, e una in particolare mi aveva colpito: era in bianco e nero, ospitava una sensuale sagoma femminile seduta nella cornice di una finestra, la testa con i capelli corti voltata verso l’esterno, dove si intravedeva la campata di un ponte, mi parve quello di Rialto, a Venezia. 

Lui si avvicinò, mi abbracciò da dietro, piegandosi come su di una bambina, la fronte poggiata alla mia nuca. «I viaggi che potremo fare,» sussurrò «li immagini?» Fece scivolare le mani lungo i miei fianchi. 

Le radici degli alberi erano sul punto di far esplodere la crosta d’asfalto, avevano gonfiato bolle grigiastre, piene di spaccature, che dissestavano i marciapiedi. Le avevo notate arrivando all’appartamento, mentre camminavo veloce lungo il viale che dalla stazione portava alla piazza, e dalla piazza alle vie del centro, dove solo pochissimi alberi resistevano cementati in aiuole talmente misere da permettere a stento alla terra di respirare. Ma anche da casa mia alla stazione era tutto un dispiegarsi di segnali d’insubordinazione vegetale; non li avevo mai notati prima, non di certo la precedente primavera, quando ero troppo impegnata a trovare il coraggio per chiedere il divorzio e non vedevo altro che rondoni che si precipitavano ubriachi tra i cavi elettrici e le pareti di vetro dei palazzi. Adesso che camminavo sopra le radici, però, le avevo notate, e non riuscivo più a togliermele dalla testa: questa sensazione improvvisa del punto di vista di un albero, dal basso o dall’alto, dalle radici o dalla chioma, come se mi si sciogliessero le ginocchia e la pavimentazione urbana mi arrivasse ai denti e agli occhi, nella vertigine dell’istante poco prima dell’impatto, oppure come se tutto si trovasse ai miei piedi, mentre agognavo il cielo in mezzo a pareti scure e altissime, di vetro e cemento. La città non mi sembrava niente più di uno strato di bitume sopra una materia biologica viva e innervata di un’ira lentissima e determinata. Uno strato di bitume tutto sommato sottile, sopra una massa di vita primordiale. Avrei voluto parlare di queste sensazioni a Ivan, ma l’istinto, invece, mi rendeva silenziosa. Rinunciavo spesso a raccontare le cose strane che provavo, perché mi sovrastava l’inutilità e insieme la pericolosità di farlo. Ciò che era accaduto con Viktor continuava a spaventarmi.

Io mi ero innamorata di Ivan tre mesi prima, in inverno. Avevo bisogno di una nicchia di braccia e di calore, pensavo mi servisse una nuova famiglia. Sul finire della stagione fredda, invece, la terra e la vitalità vegetale avevano colpito all’improvviso la mia immaginazione. Avevo iniziato a sognare che Ivan – nei miei sogni compariva come un ragazzo dalla pelle blu –, mi riportava alla vita come se precedentemente fossi morta. In verità, Ivan mi chiedeva una nuova disposizione al gaudium che ero ben lieta di ricercare, pur non sapendo ancora come liberarmi la testa dalle cicatrici dell’incidente che ricoprivano il mio ventre, e di cui continuavo a vergognarmi. Lui parlava di sesso, vino rosso, viaggi, fotografia, libertà. Lo ascoltavo ma non riuscivo a immaginare come quelle parole avrebbero potuto davvero diventare parte della mia vita. La mia relazione con Ivan doveva guarirmi da quella con Viktor, che avrebbe dovuto guarirmi da quella con Lucien, il quale mi aveva guarita solo dall’ingenuità di aver scoperto l’amore. 

Lasciai che Ivan continuasse ad accarezzarmi. Recuperare la gioia era il motivo per cui ero lì, gioia da gaudium, sostantivo derivato dal verbo “godere”, avrei spiegato ai miei studenti: «La lingua stessa, ragazzi, ci avverte che non si tratta di cosa facile, ma di attività nobile e faticosa, una creazione di energia, che è alla base della vita, capite?». Niente energia, niente vita. Mi baciò il collo, le sue labbra scottavano per la febbre del fiato che risaliva dall’interno del corpo. Con la punta della lingua toccò il lobo del mio orecchio. Subito arrivò tutta la bocca a sopraffarmi, e fu come se mi divorasse l’udito e il cervello. Io mi lasciai andare. Chiusi gli occhi, rilassai il collo. Il corpo risaliva in superficie attraverso sospiri e mugolii, per risanarsi a quel calore miracoloso, a quella febbre di respiro che bruciava. Eppure desiderare e ottenere piacere per sé è una forma di peccato sociale – mi sarei ritrovata di nuovo a spiegare ai miei studenti –, perché è miope egoismo. Ogni individuo deve perseguire non il proprio benessere, ma quello della specie alla quale appartiene. Infatti, per questo, l’individuo nella società sacrifica la propria più intima felicità a una serie di obiettivi che rappresentano non il suo bene, ma quello dell’organismo più ampio del quale fa parte. Invece, come avrei spiegato ai miei figli questo folle desiderio di godimento e di vita nuova, che si era impossessato di me a tal punto da spingermi fra le braccia di un amante, mentre ancora stavo divorziando da mio marito? Eppure, in quegli attimi, quella notte, mi pareva quasi di riuscire a dimenticare tutto e, cosa ancora più strana per me, di averne diritto.

Ero nell’appartamento di Ivan, entrata nella sua vita in modo materiale. Dopo due mesi vissuti di nascosto, come adolescenti, nei luoghi meno opportuni, avevamo finalmente dove godere con tranquillità o quasi. Respirai d’improvviso, uno schiocco nel petto: ora avevo a disposizione l’aria, dopo tanto tempo. Oh, sì, essere passivi, fiduciosi, abbandonati al ritmo del respiro (scendeva lungo la mia gola, onorava il mio petto con baci infiniti). Potersi fidare. 

Il verde spuntava sui tronconi neri degli alberi, prigionieri tra le strade. L’erba appariva come un miracolo al centro di alcune piazze, un elemento completamente alieno, una presenza consolante e inquietante allo stesso tempo. Tutto questo verde me lo sentivo scorrere dentro e avrei voluto comunicarlo a Ivan, che percorreva il mio corpo risanandolo. Avrei voluto renderlo partecipe di questa mia nuova integrazione estatica con l’universo, ma temevo che non mi avrebbe capito, non lo conoscevo abbastanza, magari mi avrebbe presa per pazza, come Viktor, e io ero stufa di sentirmi dire che ero matta, non ne potevo più, quando si giunge a un limite non si torna indietro. Eravamo due alberi, due piante rampicanti, due divinità vegetali, lo sapevo solo io e non glielo dicevo. Stavamo celebrando qualcosa, certo era una mia immaginazione (niente mai accadeva davvero), però mi permetteva di giungere più vicina a una liberazione necessaria da Viktor. Ivan mi scompigliò i capelli, me li ero fatti sistemare dal parrucchiere in onore del mio trentesimo compleanno. Lo lasciai fare. Gli uomini mi scompigliavano i capelli e mi accarezzavano la testa come a una bambina; mi dicevo che occorre pur prestarsi, a volte, all’immaginazione altrui. 

«Ti piace?» mi chiese. «Questo è solo un pied-à-terre, sto qui finché non risolvo alcune cose nella mia vita, ma di certo voglio andarmene,» disse «sai che non voglio rimanere qui. Il mestiere di insegnante, per me, è solo un ripiego – me l’aveva già detto mille volte –, voglio dedicarmi alla fotografia in modo professionale, riuscire a viverci. Ci riuscirò presto, vedrai, e sarà bellissimo. Noi due saremo liberi e felici, ci devi credere.» 

Lo guardavo con un sorriso benevolo, perché aveva un’espressione infantile quando parlava di fotografia; io stavo zitta, fissavo i suoi occhi e li amavo: se fossi riuscita a entrare davvero nel suo animo, avrei potuto vivere con lui senza riserve, anche se non sembrava in grado di comprendere la mia difficoltà con il divorzio, l’ansia per i figli e l’angoscia di fronte a ciò che avevo osato fare. Infilai le dita tra i suoi capelli e tirai, gli feci quasi male. Mi spinse sul letto. Legno di cirmolo, spezie indiane, aspro dopobarba, lenzuola di bucato. Ivan aveva un sorriso talvolta feroce, ma come di un bimbo intento a giocare. D’altra parte, Viktor non aveva mai avuto nessun sorriso feroce, e nel suo volto tutto era morbido e raffinato: la linea del naso, le sopracciglia, il taglio degli occhi, gli zigomi e le labbra. Neppure la sua barba era feroce quando non se la radeva, e i suoi baci pungevano e grattavano solo un pochino, non troppo. Neppure i suoi denti erano feroci, mentre Ivan, quando sorrideva, mostrava canini sani, forti e lunghi. I denti di Viktor erano piccoli, modesti, e li mostrava raramente. Fantasticavo e intanto mi lasciavo andare, decisa a essere felice a costo di narcotizzarmi. Gli chiesi soltanto di mettere la sveglia alle ventidue e trenta, se avessi fatto tardi mi sarei trasformata in una zucca. Glielo ripetei e aggiunsi: «Dico davvero, credimi. Devo prendere il treno alle ventitré e quindici». 

Lui sbuffò. 

«Tu non guidi,» continuai «e io neppure. Vedi la sfortuna? Se tu non fossi stato epilettico, la mia relazione con te sarebbe stata più utile.» 

Si oscurò. 

Gli accarezzai la testa. «Non si tratta di materialismo, ma così stanno le cose. Poi si ama lo stesso, eh!» scherzai. 

Lui andò in cucina e tornò con due bicchieri di vino, montò con le ginocchia sul materasso, il liquido rubino in equilibrio instabile creò un moto ondoso e traboccò. Macchie rosse sulle lenzuola pulite. «Pazienza.» Sospirò. «Vorrà dire che faremo un rito scaramantico.» Toccò la macchia di vino con il dito e mi sfiorò dietro l’orecchio: odore alcolico come profumo. Si profumò anche lui. «Così non ci porterà sfortuna.» 

Nudi nel letto a bere vino, storditi, giocavamo. Rannicchiati. Intrecciati. Rotolavamo ansimando, ci aprivamo ed eravamo stelle marine, rilassati e radianti sulle lenzuola. Non ricordo molto altro. Non ricordo quando siamo scivolati nei sogni. Il tempo allaga veloce le immagini dei ricordi, su alcuni passaggi posso solo fare ipotesi. So che a un certo punto la bambina mi fissava, ferma in piedi accanto alla mia sponda del letto, e io allungavo una mano, provavo a spostarle la frangetta dalla fronte mentre lei continuava a fissarmi con i suoi occhi verdi. Cercavo di supplicarla di restare lì con me, nel giorno del mio compleanno, ma mentre parlavo, mi rendevo conto di non riuscire a muovere la bocca, tutti i miei sforzi non arrivavano ai muscoli inerti. Mi ribellai con disperazione e urlai, d’un tratto fui sveglia. In mezzo a un groviglio di lenzuola, mi tirai su. Stavo ansimando ancora sull’eco del mio urlo, un mugghio nelle orecchie, già lontano. Mi ci volle del tempo per comprendere dove mi trovassi. Mi vergognai, mi sentii in colpa, mi sembrava di aver fatto qualcosa di completamente sbagliato – e con quale testa? Dove se ne era andata la mia mente? Come avevo potuto fare una cosa così stupida? Accanto a me, Ivan, con gli occhi piccoli, che cercava di capire cosa avessi. Macchie di colore intermittenti dalla finestra, forse il lampeggiante di un’ambulanza o di un’auto della polizia o dei vigili del fuoco o un’insegna, non saprei. Cercavo il mio orologio da polso, non lo trovavo. 

Ivan si allungò verso il comodino. «Le due» disse laconico. 

Trattenni il respiro per un tempo indefinito. «La sveglia» sussurrai infine. «Mi avevi assicurato di averla messa, ti ho spiegato il problema del treno, del rientro a casa, dei miei figli.» 

«Sì, la sveglia.» Sbuffò, lasciandosi ricadere sul letto. 

«Ti ho pregato.» 

Si alzò di scatto, si sedette sulla sponda e cercò le ciabatte, piegandosi in avanti e annaspando sotto il letto. Se ne andò in bagno. Sentii il clic! dell’interruttore, il crepitio dell’urina, lo sciacquone. Ebbi un momento di vuoto. Lui tornò e accese la luce. Stavo cercando i miei vestiti, mi voltai a guardare il suo corpo nudo, spento. Mi parve estraneo. «Mi sarò dimenticato» disse. Fece un gesto con la mano. «Potevi mettertela tu, no? E poi che dramma c’è? Mica è morto nessuno! Ti accompagno alla stazione e prendi il primo treno: fine della storia.» Non riuscivo ad allacciarmi i bottoni della camicetta. «Cosa c’è di così drammatico, Sofia? A quest’ora i tuoi figli dormono; se avessero avuto bisogno di qualcosa, avrebbero chiamato. Ci sono i cellulari apposta, sant’Iddio!» Tirai un calcio alle sue scarpe e cercai le mie. «Cresci, liberati, vedi di emanciparti, non puoi mica essere solo una madre per sempre!» Non lo guardavo, non riuscivo a seguire un ordine logico nel vestirmi: avevo infilato la gonna, poi mi ero accorta di essere senza le calze, cercavo in giro, lui mi guardava, lì, nudo, con le braccia incrociate, i muscoli flosci. I miei slip per terra, ai piedi della poltrona; le scarpe, una accanto al letto, l’altra chissà dove; la macchia rossastra di vino sul lenzuolo ingorgato in mezzo al letto. Afferravo le cose, tentavo di infilarmele. «Mi dispiace, pensavo di averla messa, la sveglia» disse lui. «A volte non funziona, non so perché.» Si infilò i pantaloni, la maglietta, si piegò e si allungò sotto il letto per recuperare le scarpe, se le infilò. «Comunque non si può essere così apprensivi con i figli. In questo modo non li fai crescere e non vivi neppure tu!» Lui era pronto, io avevo la camicetta allacciata storta, cercavo la borsetta, non sapevo più dove fosse l’orologio, forse non lo avevo neppure portato, non mi ricordavo. «Bisogna pur avere una vita propria, mica si può vivere al posto degli altri, e poi, spesso, si fanno drammi inutili per cose che si potrebbero risolvere facilmente, sai, Sofia? Il più delle volte siamo noi che esageriamo, ci sentiamo in dovere di fare molto più di quanto sarebbe ragionevole.» Sentivo le sue parole, un basso continuo e molesto sulle mie aritmie e il mio fiato corto. Lo odiavo quando faceva lo psicologo. Si avvicinò per accarezzarmi.

Camminavamo veloci verso la stazione nel freddo umido della notte. Vestita poco, tremavo; quel giorno ero uscita inneggiando al sole primaverile, sentendomi giovane e invincibile. Adesso era buio e freddo. Avevo i brividi anche se provavo a fare brevi corse, e quando arrivammo ebbi uno strano presentimento: lungo la banchina vidi correre un ferroviere che si premeva la borsa a tracolla contro il fianco. «Suicidio!» urlò a un collega che gli veniva incontro, e mentre questo si fermava perplesso, lui continuò a correre. Invece di interrogare quello fermo, inseguii quello che correva: «Scusi, il treno di mezzanotte per…?». 

«Tutti subiranno dei ritardi!» mi urlò seccato, mentre scompariva trottando giù per un sottopassaggio. 

Tornai da Ivan, mi chiusi nel mutismo. Sulla banchina, sotto lo sfrigolio dei neon, un altro viaggiatore allungava occhiate furiose a destra e a sinistra, ogni tanto piegava la testa un po’ di lato per osservare noi due, come un piccione. Telefonare a casa? Controllare se fosse tutto a posto, spiegare che «c’è stato un problema, Emma, ho un ritardo enorme. La riunione con i colleghi si è trascinata più del previsto, tutta una serie di imprevisti, sai, poi ti spiego meglio.» Sì, avrei voluto farla quella telefonata, ma non mi decidevo. Magari stavano dormendo e non si sarebbe creato nessun problema, né quella notte né l’indomani, non avrei dovuto spiegare nulla. Pregavo.

«Fra tutti i posti nei quali è possibile morire, perché la gente sceglie proprio i binari?» Due viaggiatori si avvicinarono, li potevo ascoltare, si accesero una sigaretta. 

«Dipende dalle possibilità che hai» rispose quello che per parlare agitava la mano con cui stava fumando. «Armeggiare con pistole, sonniferi o corde è più complesso. Se ti fai prendere sotto da un treno, invece, è come se il mondo ti investisse e ti schiacciasse. Ed è chiaro il simbolismo, è chiaro che vuoi mandare un messaggio, dare la colpa dei tuoi casini al resto del mondo. Io, comunque, se proprio dovessi lanciare quel messaggio, preferirei una bella strage, tu no?» 

L’altro, anch’egli con una mano fumante, ma stazionaria in prossimità della faccia, rispose con una certa flemma, argomentando che, secondo lui, oggi come oggi, nel nostro Paese, sarebbe davvero l’unica cosa ragionevole da fare. I due, sulla cinquantina e ben vestiti, ondeggiarono nel fumo, mentre proseguivano a discorrere di tipologie di suicidio e stragi. 

Alzai lo sguardo: al di sopra dei binari, i cavi ferroviari proseguivano all’infinito nel buio, da una parte e dall’altra, e tracciavano una specie di strada fantasma nel cielo. Il tempo sembrava impazzito, era primavera, ma faceva così freddo! Ivan mi si avvicinò e cercò di spezzare il silenzio fra noi. Dalla galleria dalla quale sarebbero dovuti provenire i treni che non c’erano, correva un risucchio gelido che arrivava fin sulla banchina. «Lo senti che freddo fa?» sussurrò Ivan. Poiché non gli rispondevo, si allontanò lungo i binari, fino a diventare piccolo, giù in fondo, nella semioscurità. Poi tornò indietro. La luce dei semafori era rossa e non accadeva nulla. Ivan mi prese le mani, cercò il mio sguardo; si portò alla bocca le mie dita e le riscaldò con il fiato. «Hai le labbra blu» disse. Mi tirò per farmi sedere sulla panchina di marmo. «Ti tengo sulle ginocchia.» Ma io resistetti. Non avevo voglia di nulla, solo di tornare a casa. «Il tuo regalo» disse a un tratto, colpendosi la fronte. «L’ho dimenticato.» 

«Me lo darai» risposi. Poi aggiunsi a bassa voce che mi dispiaceva molto per come era andata la serata, che capivo che lui aveva fatto il possibile. Ci abbracciammo. Il suo odore mi procurò una punta di dolore da qualche parte nel petto, come se mi fossi pentita di aver rotto un bicchiere prezioso. Avevamo fatto pace? A Ivan avrei mai potuto raccontare di mia figlia Sara? Avrebbe mai compreso il mio terrore di Viktor? Rimanemmo sulla banchina ad attendere per un tempo infinito, stretti per scaldarci a vicenda, e quando finalmente arrivò un treno che andava nella direzione giusta, lo salutai in fretta con un bacio e salii senza più voltarmi a guardare, né lo cercai una volta dentro, pensai solo a sedermi da qualche parte nel vagone vuoto. Ecco le mie abituali poltroncine scomode, che spingevano in avanti la testa dei viaggiatori come una mano molesta, pregne dell’odore acre di polvere e di passeggeri. Tutte le mattine, tutti i pomeriggi, avanti e indietro, le pause forzate, e per me stupide, di quell’esistenza da pendolare alla quale mi ero costretta per poter insegnare. Incontrai il mio viso riflesso nel vetro nero del finestrino, un viso sfatto e con un’espressione infelice, i trent’anni nuovi di zecca incisi impietosamente nelle pieghe dei lineamenti. Nel buio vedevo scorrere grappoli di luci lontane e fredde, mi procuravano un malessere come se mi fossi persa in un mondo d’un tratto estraneo. 

Per lavorare facevo avanti e indietro tutti i giorni fra una città e un’altra, ci impiegavo quasi un’ora in treno, più tutti i minuti sprecati per autobus e spostamenti a piedi. Un’ora all’andata e un’ora al ritorno, più addendi vari, circa tre ore di ogni mia giornata lavorativa se ne andavano così, le altre cinque o sei le trascorrevo lavorando a scuola, e una era per mangiare. Quindi, nove o dieci ore al giorno erano occupate da queste faccende, se non tutti i giorni, quasi. Era dura con i figli. Tre ore al giorno di viaggio sono più di un mese in un anno di lavoro, trascorso spostandosi. Il tragitto era sempre uguale. Certo, le cose che si possono fare viaggiando non sono le stesse che si possono fare stando fermi in un luogo. Molte cose avrei voluto fare nella mia vita, ma, a quel punto, non avevo più il tempo di farle. D’altra parte, ero convinta che non avevo nessun diritto di lamentarmi, quella vita l’avevo voluta io, sfidando il parere di tutti intorno a me, dato che avrei potuto starmene a casa mia con mio marito, cercare di risolvere le difficoltà e continuare a vivere alla Villa, invece di fare il colpo di testa e chiedere il divorzio. Prima facevo “la signora”, come diceva mia sorella, vivevo agiatamente senza fare nulla per la maggior parte della giornata, e avrei potuto «ingoiare i miei rospi e andare avanti, come tutti» diceva. Perché far patire ancora mia madre dopo aver fatto morire di crepacuore mio padre con i miei comportamenti scriteriati? Mia sorella mi ripeteva sempre, fin da quando ero bambina, che chi è causa del suo male deve piangere se stesso. E al liceo mi scriveva quella sentenza in latino nel diario: “Faber est suae quisque fortunae”. A me sembrava sempre che a quella frase mancasse un pezzo, che esplicitasse a quale condizione di partenza ognuno può essere artefice del proprio destino. In quanto a piangere me stessa, ci provavo spesso, ma non mi riusciva. Preferivo inventarmi modi per risolvere i mali che mi fossi creata, cupa e testarda. 

Alla fine era tornato il sole, era giunta la primavera, e per il mio compleanno, già da qualche tempo, mi ero messa in mente di concedermi un regalo speciale; l’avevo deciso con una specie di disperazione: volevo trascorrere la serata con Ivan, che avevo conosciuto da tre mesi, e nonostante i miei terribili sensi di colpa, volevo rafforzare la nostra relazione che non avevo ancora confessato ai miei figli. Quei sensi di colpa mi pesavano addosso come una montagna, a volte sentivo tutto il collo e le braccia bloccate e avevo dovuto rivolgermi a un osteopata. Non sapevo con chi parlare di quello che mi si agitava dentro. L’amica che mi aveva convinta e aiutata con il divorzio era sparita dalla scena, uno di quei voltafaccia improvvisi che, prima o poi, capitano nella vita di tutti, credo: un giorno ci si confida l’anima, e il giorno dopo gli occhi sono opachi, la voce rigida, poi ci si rende fantasmi. Non ho mai capito cosa fosse successo davvero, anche se a lungo ho sospettato che c’entrasse Viktor. Ma per il mio compleanno volevo fare qualcosa di simbolico, tagliare definitivamente i ponti, entrare nell’appartamento e nella vita di un altro uomo, senza che Viktor lo sapesse, né ci potesse fare niente. Emma non aveva ancora compiuto i quattordici anni, però per la sua età era sicuramente molto matura e potevo benissimo lasciarla a casa da sola con Gabriel, per una sera. Avevano protestato, soprattutto lui, perché non avevo neppure fatto la torta, ma io mi sentivo così, incapace di fare quello che avevo sempre fatto in passato, volevo fare qualcosa di diverso che mi desse la certezza di aver compiuto un passo in un’altra direzione. Come facevo a spiegarglielo? Perché Viktor me lo ripeteva sempre che non sarebbe bastato il divorzio. 

La mattina del mio compleanno avevo preparato la colazione e atteso che i miei figli si sedessero al tavolo. Mi ero preparata anche la bugia da raccontare: una riunione a scuola che sarebbe finita molto tardi e una cena tra colleghi dalla quale non potevo certo esimermi, compleanno o non compleanno. Mi avrebbero offerto un brindisi, ma sarei ritornata entro la mezzanotte; che loro due se ne stessero tranquilli e andassero a letto non dopo le ventitré. Controllavo le reazioni di mia figlia, con la sua barriera di capelli lunghi e neri davanti alla faccia e la tazza del caffellatte come una museruola per non gridarmi contro tutto il suo disprezzo. Gabriel insisteva nel chiedere la torta: «Perché non fai la torta? Voglio la torta!». Batteva le mani sul tavolo, si contorceva, piagnucolava come il suo solito. «Posso avere la torta a merenda? Perché no? Perché no? Perché no?» Strillava, mi scuoteva per un braccio, tirava pugni; come tutti gli animaletti, intuiva il pericolo di un’infrazione rispetto al rituale tradizionale. «Perchéperchéperché?» 

Emma, intanto, aveva abbassato la tazza come se ne avesse abbastanza anche di suo fratello, i gomiti piantati sul tavolo e gli occhi scuri pieni di rabbia. D’un tratto aveva sbuffato. «Tu sei l’unica insegnante che ha tutte queste riunioni.» Si era alzata per andarsene senza finire la colazione. Con voce cattiva le avevo chiesto di sciacquare almeno la tazza. Lei era tornata, l’aveva presa, era andata al lavello, aveva aperto il rubinetto, l’aveva sciacquata, si era voltata e, infine, aveva aperto le dita della mano. Un colpo secco, e la tazza era andata in mille frantumi sulle mattonelle. Tutti e tre avevamo guardato per qualche secondo i pezzi di ceramica schizzati in ogni direzione. 

«Perché fai così?» 

Mi aveva risposto che era lei a non sapere cosa stessi facendo io. Poi se ne era andata in camera a prepararsi per andare a scuola. 

Nel pomeriggio avevo davvero una riunione, ma sarebbe finita abbastanza presto. Dopo ero andata da Ivan, che mi aveva preparato un regalo con il fiocchetto, una cena e molte bottiglie di vino. Mancavano sei mesi alla conclusione del divorzio, e io volevo sentirmi già in salvo. Tutto stava rifiorendo, perché non potevo farlo anch’io, a trent’anni?

02 August 2022

Mangialibri

Mangialibri parla di Passeggiata nella notte, il romanzo d'esordio di Elena R. Marino. Ecco il link alla recensione.
2022-05-06

Aggiornamento

Presentazione di "Passeggiata nella notte" presso Libreria UBIK di Trento

https://www.ubiklibri.it/event-4637-elena-r-marino-presenta-passeggiata-nella-notte-bookabook.html
2022-06-01

https://www.premiocomisso.it/recensioni-a-passeggiata-nella-notte-di-elena-r-marino/

“Passeggiata nella notte” di Elena R. Marino

Libro bellissimo. Fra i tortuosi pensieri che portano alla consapevolezza, in modo fortemente empatico, con un linguaggio attuale e vero, spesso frammentato come l’affacciarsi dei pensieri alla coscienza, il faticoso percorso di affrancamento dalla dipendenza affettiva. E non è un caso se solo nel momento in cui si spezza il circolo vizioso che imprigiona all’interno del rapporto malato – dopo la discesa nell’inferno del senso di inadeguatezza e di straniamento dell’aver rifiutato i ruoli stereotipati imposti – il sottrarsi alle dinamiche claustrofobiche consuete fa emergere dove sta la patologia. La liberazione porta ad una catarsi inaspettata, ma profondamente vera. Avvincente, si legge tutto di un fiato.
Cinzia Marsili

La mia esperienza di lettura con “Passeggiata nella notte” di Elena R. Marino si è appassionata da quando al primo istante ho notato l’essenza femminile nella sensibilità della scrittrice, le parole che a volte si fatica a essere trovate, esposte, nello spiegare con semplice naturalezza, sentimenti che possono solo accomunare. Il sentire la natura nel pensiero intimo, onirico, permeato da sensazioni prive di materialismo, in un simbolico rapporto fatto di vista, olfatto, tatto, udito, forse anche di gusto, quando nel ruolo di madre la cucina è vissuta come solitudine. La disamina psicologica del personaggio protagonista si arricchisce di volta in volta con spunti filosofici riguardanti l’esistenza e la sofferenza umana, il tutto senza pesantezza ma scorrevolezza narrativa accattivante. La storia presenta colpi di scena e finale inaspettato, pur toccando una tematica quale la violenza domestica, il diverso, la manipolazione affettiva, il perdono, il delirio, con una inusuale formula prospettica, alternando in ruoli familiari e parentali differenziati. Da alcune esperienze brucianti il contrapporsi di una realtà apparentemente perfetta di classi sociali immerse in privilegi del passato, vecchio quanto la collezione di antichità in una splendida villa patronale, luogo principe dove scene salienti svolgono alcuni dei momenti cruciali del romanzo. Lo consiglio caldamente.
Michela Rigotti

Un romanzo di rara intensità che ti coinvolge fin dall’inizio con la sua scrittura fluida e piacevole. L’aspetto descrittivo lo caratterizza non poco e sono frequenti i passaggi nei quali raggiunge picchi notevoli nella sua semplicità e nel suo generare autentiche connessioni grazie al potere dell’immaginazione e del conseguente sentire. La storia di Sofia appassiona ed allo stesso tempo offre continui spunti di riflessione sulla complessità delle interazioni umane che raggiunge l’apice con un finale assolutamente magistrale. Insomma un gran bell’esordio quello della scrittrice.
Fabio Eleuteri
2022-03-04

Evento

dal 4 al 6 marzo a Milano Dal 4 al 6 marzo ci sono anch'io, in un certo qual modo, a Milano al Book Pride, fiera dell'editoria indipendente, grazie alla casa editrice Bookabook che sarà presente con i libri usciti negli ultimi sei mesi... #bookpride #passeggiatanellanotte #bookabook #romanzoitaliano Dal profilo facebook di Book Pride: "Ci siamo, il programma della sesta edizione di Book Pride Milano è online! Scoprite tutti gli incontri e gli ospiti presenti in fiera, dal 4 al 6 marzo a Superstudio Maxi." Consultatelo sul nostro sito: https://bit.ly/3Ihe1Dn
2021-01-29

Aggiornamento

Per chi ha già fatto il pre-ordine: ho messo a disposizione la bozza non editata, ma vi pregherei di scaricarla solo fra un paio di giorni, perché vorrei apportare ancora delle modifiche dalla metà in poi del testo... Grazie!

Commenti

  1. Martina De Nisi

    Ho letto il libro quasi d’un fiato, perché impossibile non avere la necessità di sapere come procede. Ho apprezzato i diversi punti di vista nei quali mi ha fatto entrare e il senso di disagio, immedesimandosi nella protagonista. Quasi fino a provare la sua stessa confusione… E’ un libro che ti fa vivere la storia, senti in pancia le emozioni.
    Il finale inaspettato mi ha lasciato allo stesso tempo una sensazione di sgomento e strana pace.
    In definitiva aspetto il secondo libro di Elena R. Marino!

  2. Elena R. Marino

  3. Elena R. Marino

    Recensione di Antonello Costa su L’incendiario (https://lincendiario.com/2022/06/11/passeggiata-nella-notte-bookabook-2022-di-elena-r-marino-recensione/)
    “Passeggiata nella notte” (Bookabook, 2022) di Elena R. Marino – Recensione
    Chi scegliamo di essere?

    Chi siamo costretti a essere?

    Sono questi i due punti interrogativi che mi sono posto nella lettura di “Passeggiata nella notte” di Elena R. Marino. La protagonista, Sofia, è una donna spezzata, una donna che è divisa tra la giustizia e la felicità, tra la famiglia e l’amor proprio.

    Il romanzo di Sofia si apre nel giorno del suo trentesimo compleanno. Passa la serata con il suo compagno segreto, fa troppo tardi, non riesce in tempo a prendere l’ultimo treno. Non riesce in tempo a tornare dai suoi figli, e quando torna i suoi figli non ci sono più; sono andati, sono scappati, sono fuggiti nella notte, da quella parvenza di equilibrio. Sofia è una donna che non ha più tempo: tempo per essere donna, tempo per essere una giusta madre, tempo per scegliere chi essere. Le è stato rubato, viene costretta a essere qualcos’altro, dal suo ex marito, dai suoi ex suoceri, dalla sua vita. E sopravvive in modo passivo, tra le violenze esplicite e implicite, manipolazioni e compromessi. Sofia ricerca aria, tempo, respiro. Ricerca Sofia, la vera, in questa interminabile passeggiata nella notte dell’essere.

    Elena R. Marino è al suo esordio narrativo con questo romanzo, “Passeggiata nella notte”, con le sue pagine personali, private, introspettive. Rivedo in lei le scrittrici del Novecento, Alba De Céspedes, Natalia Ginzburg, donne che volevano semplicemente essere e hanno lottato per essere. Sofia è sulla stessa linea di queste donne, si segue nel suo romanzo il suo percorso di rinascita e crescita, un percorso per riappropriarsi del suo nome. Incuriosito da questo personaggio, sono andato a cercare il significato onomastico di Sofia. Deriva dal greco “sophia”, con significato di sapienza, saggezza. La Sofia del romanzo non appare inizialmente saggia, sapienza, cosciente. Nella sua testa, le Sofie si confondono, si sovrappongono, a causa di nebulose di interrogativi, a causa di quelle due contrastanti domande:

    Chi scelgo di essere? Chi sono costretta a essere?

    Sofia spezza nella passeggiata di notte queste nebulose, vuole essere la sua alba, la sua saggezza, sapienza. Vuole essere la sua Sofia. Riuscirà, quindi, a farcela? Sta a te, lettore, scoprirlo, ma voglio concederti un estratto dal primo capitolo del romanzo, per darti un anticipo del percorso della protagonista-creazione di Elena R. Marino. Le radici di una vita costretta legano i piedi di Sofia, la legano a un bitume, a un senso di soffocamento, a qualcosa che non vuole essere; ma lei combatte, lei resiste, per camminare sopra le radici.

    “ADESSO CHE CAMMINAVO SOPRA LE RADICI, PERÒ, LE AVEVO NOTATE, E NON RIUSCIVO PIÙ A TOGLIERMELE DALLA TESTA: QUESTA SENSAZIONE IMPROVVISA DEL PUNTO DI VISTA DI UN ALBERO, DAL BASSO O DALL’ALTO, DALLE RADICI O DALLA
    CHIOMA, COME SE MI SI SCIOGLIESSERO LE GINOCCHIA E LA PAVIMENTAZIONE URBANA MI ARRIVASSE AI DENTI E AGLI OCCHI, NELLA VERTIGINE DELL’ISTANTE POCO PRIMA DELL’IMPATTO, OPPURE COME SE TUTTO SI TROVASSE AI MIEI PIEDI, MENTRE AGOGNAVO IL CIELO IN MEZZO A PARETI SCURE E ALTISSIME, DI VETRO E CEMENTO. LA CITTÀ NON MI SEMBRAVA NIENTE PIÙ DI UNO STRATO DI BITUME SOPRA UNA MATERIA BIOLOGICA VIVA E INNERVATA DI UN’IRA LENTISSIMA E DETERMINATA. UNO STRATO DI BITUME TUTTO SOMMATO SOTTILE, SOPRA UNA MASSA DI VITA PRIMORDIALE”.

    di Antonello Costa

  4. Elena R. Marino

    Recensione di Francesco Grano su Cyranofactory (https://www.cyranofactory.com/perdersi-nel-buio-esistenziale-passeggiata-nella-notte/)

    Perdersi nel buio esistenziale: “Passeggiata nella notte”
    Francesco Grano

    «La primavera non è altro che la fase della fioritura in un ciclo sempre uguale. Deve portare ai fiori e ai frutti per la riproduzione, affinché tutto, poi, ricominci. La primavera non è una rinascita. È la continuazione di un ciclo infernale.»

    Una manciata di parole che compongono un insieme di frasi che, a loro volta, diventano pensiero e, parimenti, affermazione. Se si dovesse rintracciare l’essenza di un romanzo come Passeggiata nella notte di Elena R. Marino, questo breve ma intenso estratto ne rappresenterebbe, in maniera eccelsa, l’anima. Fresca del trentesimo anno di età, Sofia vorrebbe tornare a vivere una personale e nuova primavera, fatta di sentimenti e novità, lontana dai fantasmi del passato, dalle scelte sbagliate e dagli errori di percorso. Ma la reticenza dei due figli verso questa vita ex novo della loro genitrice nonché il divorzio in corso da suo marito, portano la donna a doversi confrontare, nuovamente, con gli echi della vita che fu in precedenza.

    Passeggiata nella notte è un sentito, profondo affresco psicologico e sociologico non, solo ed esclusivamente, incentrato sulla protagonista bensì su tutti i comprimari del plot che si incontrano e scontrano come meteore nell’orbita esistenziale di Sofia, personaggio piegato dal peso degli anni sprecati dietro le apparenze e le imposizioni di chi, al posto suo, ha sempre scelto cos’è meglio. Sofia è sì la protagonista assoluta del romanzo di Elena R. Marino ma, al tempo stesso, è il centro di gravità da cui si diramano tutte le mosse narrative di questa storia. Da una parte donna fragile e, parimenti, decisa, dall’altra parte è vittima, ancor prima che dei figli, del marito e della di sua famiglia, di se stessa: con un trascorso di difficoltà legate alla sfera della psiche a causa di un grave evento, Sofia è mossa da un continuo (e giusto) moto di ribellione verso le rigide convenzioni sociali e familiari. La chiusura perimetrale delle situazioni però, nonostante la voglia di andare oltre, di rischiare pur di raggiungere la soddisfazione e la felicità di essere libera, si va a scontrare con la sua stessa, rinnovata ritrosia nel lasciarsi totalmente andare, nel fare quel necessario tabula rasa nel momento in cui, la vita, diventa opprimente.

    Contemporaneamente, Passeggiata nella notte non si limita a sondare solo l’animo irrequieto della protagonista ma anche e soprattutto il contorno di situazioni che ella stessa si trova a (ri)vivere: il ritorno alla vita passata, seppur per un tempo limitato, innesca dentro di lei un mare magnum di re(azioni) e conseguenze. Parallelamente, l’autrice delinea degli ambienti antropologici e sociologici cristallizzati in altri tempi, fermi a dei cliché fuori tempo massimo e anacronistici in cui, la donna, è alla stregua di una blanda figura di contorno e niente più. Sono ambienti off quelli in cui, per forza di cose, Sofia si vede costretta a rientrare per amore materno e per poter capire, una volta per tutte, quali sono le migliori scelte per sé. Ma è il ritornare indietro, il reintegrarsi in questi spazi circoscritti e limitanti che fanno emergere, nuovamente, le sue difficoltà, il suo mal di vivere una vita perennemente sotto controllo, in cui non le è concessa neanche la possibilità di decidere. Ed è qui, in quel confronto tra passato e presente che, la psiche della protagonista, vacilla ex novo e, così, finisce per perdersi nel buio esistenziale in cui, il cortocircuito umano, è impossibile da evitare.

    Forte di uno stile privo di fronzoli e che va dritto al cuore del lettore, Passeggiata nella notte si conferma come ottimo romanzo emozionale, con cui non è possibile non carpire e, così, provare gli stessi, difficili stati d’animo di Sofia, emozioni e sentimenti perennemente sul filo del rasoio, fino allo spiazzante e impensabile finale.

    Francesco Grano – 21/05/2022

  5. Elena R. Marino

    Recensione di Recensione di Cinzia Passaro su Thrillernord (https://thrillernord.it/passeggiata-nella-notte/)

    Autore: Elena R. Marino
    Editore: bookabook
    Genere: Narrativa
    Pagine: 263
    Anno di pubblicazione: 2022

    Sinossi. Al compimento dei suoi trent’anni, Sofia vuole rifiorire e concedersi la primavera di vita che tanto ha desiderato, malgrado un divorzio in corso e un rapporto complicato con i figli. Il suo ritorno forzato nella villa degli ex suoceri e del marito, disposto a tutto pur di ricostituire la famiglia, sarà per lei una discesa agli inferi, in cui riaffioreranno stereotipi sociali e angherie che già in passato l’avevano portata sull’orlo dell’abisso. La rinascita personale che i suoi stessi figli non capiscono e che il suo ex marito osteggia in ogni modo costerà a Sofia un enorme sacrificio. Cosa fare quando “famiglia” non è sinonimo di “felicità”? Emanciparsi o conformarsi per il bene di tutti?

    Recensione
    Una scrittura piacevole e scorrevole. Una buona prova per un esordiente, con una trama intrigante che ti trascina dalla prima fino all’ultima pagina, senza pesantezza nonostante i temi affrontati come la violenza domestica e la manipolazione psicologica.

    Può una casa, una villa essere origine di disagio tanto da spingere la protagonista a scelte difficili? Si può per la propria sanità mentale accettare di avere contro i propri figli che non capiscono la reale situazione?

    Cosa è giusto fare se l’ambiente familiar è tossico?

    O ancora “Faber est suae quisque fortunae”, è davvero accettabile pensare che si è artefici del proprio destino? Non sono invece i fatti e le persone a determinare l’evolversi degli eventi?

    Sono queste le domande che si pone Sofia, mentre si lascia travolgere e cullare dalla natura circostante, dipigendo bellissimi quadri con le parole, quasi a voler rinascere come accade alla terra ogni primavera: “D’un tratto era primavera. Andavo a camminare nel giardino, camminavo come se avessi delle mete; raggiungevo una pietra e là sedevo”. La presenza della natura accompagna ogni passo della scrittura: il rifugiarsi in alcuni punti del giardino dove si sente protetta.

    Sofia è una donna che fa le sue scelte; pur molto giovane ha gia un suo vissuto molto tormentato, un rapporto difficile con un padre che non l’ha aiutata a crescere, giudicandola negativamente. Sceglie di sposarsi,ma vede tradita le sue aspettative, il marito si rivela troppo dipendente dalla famiglia di origine, costringendola a una convivenza soffocante con i suoceri. Contro il parere di tutti sceglie di abbandonare una vita comoda ma soffocante, preferendo vivere una vita normale, facendo un lavoro che non le piace, rimettendosi in discussione.

    É una donna che ripudia il compromesso anche se il prezzo da pagare è l’incomprensione dei figli.

    Sceglie di non farsi manipolare, riuscendo forse a manipolare, lei debole , senza volerlo spinge a un epilogo che lascia il lettore basito, un epilogo che comporterà conseguenze future. Un romanzo con un finale aperto che lascia immaginare un seguito.

    Elena R. Marino
    è regista di teatro, drammaturga e formatrice nell’ambito della comunicazione. Dal 2003 dirige, insieme a Silvia Furlan, il Teatro Spazio 14 a Trento. Tra le sue pubblicazioni scientifiche “Gli scoli metrici alle Olimpiche di Pindaro” (Trento 1999) e numerosi articoli su teatro e letteratura greca antica. I suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste. “Passeggiata nella notte” è il suo primo romanzo.

  6. Elena R. Marino

    Recensione di Ippolita Luzzo – Il Regno della Litweb (https://www.facebook.com/groups/340484019456714/permalink/1906846782820422/)
    Elena R. Marino è regista di teatro, dirige insieme a Silvia Furlan, il Teatro Spazio 14 a Trento. “Passeggiata nella notte” è il suo primo romanzo ma scritto con l’esperienza di anni di regia. Leggendolo si può anche vederlo come uno sceneggiato, perché ne ha il ritmo e ne conserva i tempi. Fin dalla prima pagina noi leggiamo gli avvenimenti per come li vive Sofia, la giovane protagonista che al compleanno dei trenta decide di andare via da un matrimonio claustrofobico e di iniziare a vivere libera lavorando. Sembra un bel programma ma i suoi due figli, soprattutto la maggiore, già quasi tredicenne, lo renderanno subito impossibile. Lacci familiari difficili da annodare e da sciogliere. Ricorda un po’ il libro Lacci di Domenico Starnone. La famiglia di lei, la famiglia di lui, la famiglia nuova composta da Sofia e suo marito, nessuna di queste famiglie sembra un luogo vivibile. Famiglie tossiche. Riflettiamo insieme ad Elena R. Marino su cosa siano veramente le pulsioni che fanno vivere malgrado tutto apparentemente sembri perfetto. Da Sofia era tutto un sembrare perfetto. Ma poi il libero arbitrio dove stava? In questa domanda il senso del libro

  7. Michela Rigotti

    (proprietario verificato)

    Recensione:
    La mia esperienza di lettura con “Passeggiata nella notte” di Elena R. Marino si è appassionata da quando al primo istante ho notato l’essenza femminile nella sensibilità della scrittrice, le parole che a volte si fatica a essere trovate, esposte, nello spiegare con semplice naturalezza, sentimenti che possono solo accomunare. Il sentire la natura nel pensiero intimo, onirico, permeato da sensazioni prive di materialismo, in un simbolico rapporto fatto di vista, olfatto, tatto, udito, forse anche di gusto, quando nel ruolo di madre la cucina è vissuta come solitudine. La disamina psicologica del personaggio protagonista si arricchisce di volta in volta con spunti filosofici riguardanti l’esistenza e la sofferenza umana, il tutto senza pesantezza ma scorrevolezza narrativa accattivante. La storia presenta colpi di scena e finale inaspettato, pur toccando una tematica quale la violenza domestica, il diverso, la manipolazione affettiva, il perdono, il delirio, con una inusuale formula prospettica, alternando in ruoli familiari e parentali differenziati. Da alcune esperienze brucianti il contrapporsi di una realtà apparentemente perfetta di classi sociali immerse in privilegi del passato, vecchio quanto la collezione di antichità in una splendida villa patronale, luogo principe dove scene salienti svolgono alcuni dei momenti cruciali del romanzo. Lo consiglio caldamente. A mio parere è un
    romanzo che merita pubblicazione e diffusione a prescindere. Sono felice di averlo nella mia biblioteca personale.
    Mi sono trovata a sottolineare alcune parti con la mia matita.
    Grazie per averlo fatto nascere.
    Michela Rigotti

  8. (proprietario verificato)

    Finalmente trovo un momento per dedicarmi ascrivere due righe su questo libri che ho finito di leggere oramai da un po’ …
    Sono pigro solitamente a lasciare feedback o recensioni, ma credo che Elena meriti due parole di apprezzamento, per le sue notevoli qualità artistiche che si evincono da questo bel libro che ha scritto (ma anche da alto per chi la conosce un po’ …).
    La trama è molto intrigante e la lettura scorre via fluida, anche per il linguaggio semplice e molto comprensibile.
    La storia ti tiene in sospeso fino alla fine per la curiosità di capire “come andrà a finire“ …
    Lo stile molto descrittivo di Elena, dà la sensazione al lettore, di essere realmente immerso nell’ambiente nel quale si svolgono gli eventi narrati; un ottimo copione per un film !
    Questo libro è riuscito a coinvolgere anche me che solitamente prediligo letture più “didattiche”, per cui lo ritengo adatto e consigliato per tutti gli amanti della lettura.
    Buona lettura quindi, a chi sceglierà di scoprire cosa si nasconde dietro la lettura delle pagine di questo libro !
    Angelo

  9. Elena R. Marino

    Grazie Antonella!

  10. (proprietario verificato)

    Un capolavoro. Il ritmo è incalzante ma ti permette di assaporare ogni parola, ogni sfumatura e non so come la autrice sia riuscita a fare intuire la violenza dietro a gesta apparentemente innocue. Pochi romanzi mi sono piaciuti di più perché non ci sono parole in eccesso, ma tutte quelle che servono.

  11. Elena R. Marino

    Grazie, Luana!

  12. (proprietario verificato)

    Di getto: sensazione di disagio fin da subito nel percepire la situazione della protagonista; questa sensazione ti tiene legata fin da subito al lavoro perché si percepisce il tentativo continuo di affrancarsi e liberarsi da un passato complesso di manipolazioni e condizionamenti… bellissima e realistica la rappresentazione della Villa e dei suoi abitanti, ma ancor di più del giardino, come embrione di possibile libertà…tutto il lavoro è permeato da questa sensazione di angoscia che culmina con la passeggiata finale tra lei e il marito che fa pensare all’esito finale di classica violenza sulle donne. Bellissima invece la scena finale dall’esito assolutamente inaspettato. Anche la figura della vicina greca rimanda ad altre solitudini e sofferenze ma molto centrata e poetica. Ottima conoscenza delle dinamiche umane descritte. Molto consigliato!

  13. Elena R. Marino

    Grazie, Fiorella!

  14. Fiorella Malchiodi Albedi

    (proprietario verificato)

    Sofia è riuscita a ritagliarsi uno spicchio di vita autonoma con grandi difficoltà, ostacolata dal marito, da cui è separata ma che non si arrende alla fine del loro rapporto, dai figli, che vorrebbero riunire la famiglia, incapaci di comprendere i sentimenti della madre, ma soprattutto dai suoi sensi di colpa. Finché un episodio doloroso e inaspettato sembra far vacillare il difficile equilibrio raggiunto e sembra rimettere tutto in discussione. Sofia, nella sua nuova solitudine di donna separata, troverà aiuto e conforto solo nella sua vicina di casa, Xenia, un personaggio enigmatico di cui non sa nulla. Un finale inaspettato scoprirà le carte e farà cadere le maschere.
    Elena Marino segue le vicende di Sofia scandagliandone minuziosamente i sentimenti, con la precisione di un settore anatomico. La prosa è ricca e densa, ma mai ridondante. È un libro sulle solitudini e sulle debolezze, palesi o nascoste, e sulle colpe dei padri che ricadono sempre sui figli.
    Fiorella Malchiodi Albedi

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Elena R. Marino
è regista di teatro, drammaturga e formatrice nell’ambito della comunicazione. Dal 2003 dirige, insieme a Silvia Furlan, il Teatro Spazio 14 a Trento. Tra le sue pubblicazioni scientifiche “Gli scoli metrici alle Olimpiche di Pindaro” (Trento 1999) e numerosi articoli su teatro e letteratura greca antica. I suoi racconti sono stati pubblicati su numerose riviste. “Passeggiata nella notte” è il suo primo romanzo.
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