Sarà stato il freddo particolarmente pungente di quella mattina, ma neanche il richiamo aveva convinto Cesare.
Avrei raggiunto la “moka amica” da solo e farmi inebriare dal caffè nero bollente mi avrebbe aiutato per planare su quel lunedì mattina.
C’è sempre una serie di pensieri che accompagna l’avvio di ogni giornata.
C’è sempre una serie di pensieri che scandisce la pianificazione di ogni mia settimana.
Forse dopo il Covid-19 (ammesso che esista un dopo) questa tendenza si è pure accentuata: prenota la palestra; prenota il barbiere; prenota appuntamento in Posta; prenota il ritiro della spedizione.
Per non parlare poi del “ricordati di comprare” o del “devi ritirare”.
È tutta una prenotazione o, meglio, un richiamare spazio.
Rivendicare tempo per fare qualcosa, inanellando post-it o promemoria per provare a non dimenticare nulla.
Ecco, quella mattina c’era qualcosa che avevo dimenticato.
Qualcosa che avevo pure appuntato sul calendario in cucina: la versione di quest’anno era “Grattacieli dal mondo”.
Mi hanno sempre affascinato le costruzioni, le torri e i palazzi, capaci – piano dopo piano – di svilupparsi in altezza: lo sviluppo verticale, quello slancio verso l’alto, è proprio una figata.
Ti dà l’idea di come ci voglia tempo, progressione e misura per venir su bene, in senso armonico e stabile.
Che poi, stabilità e armonia… boh, chi se li ricorda?
I due anni di pandemia e la guerra in Ucraina hanno fatto germogliare in tutti ’sto senso di precarietà che ormai è riconoscibilissimo in ogni cosa.
Allo stesso tempo abbiamo imparato a convivere con la durata a tempo delle cose che viviamo, e forse solo così ne possiamo cogliere l’essenza.
Vale per persone, luoghi, relazioni, città.
Finanche per i cibi: tutto scade o passa di moda.
Ho imparato, così, a distinguere da un lato i bagliori esplosivi, quelle luci a intermittenza che regalano sfumature dai colori mozzafiato.
Dall’altro lato le luci fisse, magari anche tenui, che a distanza di tempo restano accese, senza spegnersi mai.
E nel vedere tale differenza non saprei oggi privarmi di nessuna delle due: servono i lampi e servono i fasci di luce costante.
Io la chiamo “sindrome dell’accendino”: è stata la mia terapista per la prima volta a farmi scoprire questa immagine.
Nel ricercare la luce puoi decidere di farti prestare un accendino per scatenare la scintilla, consapevole però che quell’accendino – spesso non tuo – devi poterlo rendere a chi te l’ha gentilmente prestato.
E a quel punto che si fa?
Passato il lampo che succede?
Prendere visione del buio è il primo passo che, in altre parole, significa acquisire la consapevolezza che in certe dinamiche, o in certe situazioni, dipende da te.
Solo da te.
Ecco, quella mattina mia sorella e mio nipote sarebbero arrivati in città da Napoli: lo avevo dimenticato, cancellando dalla mia testa l’impegno preso la sera prima.
«Certo, Anto, vi vengo a prendere io. Alle nove mi trovate agli arrivi, con tanto di cartellone.»
Ore 08:50 stavo ancora passeggiando con Cesare, sotto casa.
Ore 08:55, trillo di WhatsApp: «Atterrati!».
Ecco il buio.
Buon lunedì.
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