Ogni notte la sognavo. Sentivo la sua voce ma non riuscivo a distinguerne il volto; la sua figura aveva contorni indefiniti, annebbiati dai miei pensieri che si sovrapponevano in un tumulto di emozioni. La sua voce però rimbombava chiara e decisa. Chi era quella ragazza?
Al risveglio, un senso di ansia e di impotenza mi riempiva il cuore.
Capitolo uno
La sveglia suonava ogni mattina alle sei e mezza, quando il sole era basso nel cielo e il caldo non annientava ancora la voglia di uscire.
Abitavo a Sarasota, una città della Florida affacciata sul Golfo del Messico. Ci vivevano circa sessantamila persone, di cui solo una piccola parte si era stabilita nelle varie isole che separavano la baia dal mare. Erano tutte collegate fra loro da ponti e ponticelli e ogni casa o villa che si affacciava sulla baia aveva un corrispondente spazio di spiaggia privata sul lato del Golfo.
Le temperature salivano molto d’estate, con picchi di umidità lancinante, e l’unico momento in cui era possibile andare a correre era la mattina presto.
La corsa mattutina riusciva sempre a farmi sentire bene, fisicamente e mentalmente. La spiaggia era bianca, di una sabbia talmente fine da infastidire anche il più grande amante del mare, eppure di una bellezza tale da ammaliare persino il suo maggior detrattore. L’alba, con i suoi colori chiarissimi, mi dava il buongiorno, e io, come sempre, le rispondevo volentieri.
Correvo lungo la battigia, facendo attenzione a non calpestare e rompere tutte le bellissime conchiglie colorate. Ogni tanto mi fermavo a raccoglierne qualcuna, con l’intenzione di metterla nella grande ampolla che tenevo in bagno, riempita per un quarto di sabbia.
Correvo veloce, per far volare la mente, per non pensare a quella dolce voce che ogni notte tornava a tormentarmi. Andava avanti da mesi. Tutte le notti. Era una voce mai sentita, lieve, che mi cercava, che mi chiamava.
La corsa durava circa tre quarti d’ora, attraversavo tutta la spiaggia privata ed entravo in quella pubblica. Erano sempre deserte, entrambe, e ciò mi riempiva di soddisfazione. Arrivavo all’estremità dell’isola, dove la costa curvava repentina verso sinistra. Lì mi voltavo e facevo tutto il percorso a rovescio.
Il sudore mi grondava sulla fronte, sul petto, sulle braccia, dappertutto. Era estate, e il caldo umido iniziava a farsi sentire con insistenza. L’isola dove vivevo, Lido Key, era molto tranquilla. La maggioranza della popolazione era composta da pensionati che venivano stagionalmente per scappare dai dolori dei freddi inverni del Nord. E lo facevano ogni anno.
Verso dicembre si poteva osservare il numero di auto per la strada che aumentava spropositatamente, le file al supermercato che triplicavano, e per andare al lavoro ci volevano almeno cinque minuti in più.
Non mi sono mai piaciute le grandi città, le trovo caotiche e scomode. Nei piccoli borghi però non ci sono grandi prospettive, né un’ampia scelta di prodotti. Vivere sull’isola era l’ideale. Per qualsiasi necessità mi bastava attraversare un ponte, senza rinunciare alla tranquillità se non avevo bisogno di niente.
Stavo facendo stretching davanti al garage, come mi aveva insegnato il mio amico John, il precedente padrone di casa. Era un veterano della corsa, ogni giorno faceva su e giù per quelle spiagge per un’ora, era instancabile, anche se aveva il triplo dei miei anni. La prima volta che venni in questa città mi ospitò per quattro mesi.
Veramente una brava persona, gentilissimo e di compagnia.
Il giorno che mi convinse ad andare a correre con lui riuscì quasi a farmi svenire. Ovviamente ero troppo orgoglioso per non sforzarmi di tenere il suo passo. Non mi sentii i muscoli delle gambe per giorni.
La mia casa era grande, con gli spazi perfettamente disposti, insomma era perfetta. I miei genitori l’avevano comprata poco dopo la mia visita, quando il mercato immobiliare in Florida era favorevole, sperando di poterci andare ad abitare prima o poi. Dopo la mia laurea fu deciso che sarei stato io a occuparla, probabilmente per la vita.
C’era un vialetto lungo circa cinque metri che collegava la porta di casa al garage, delimitato da qualche pianta. Il giardino circondava tutta la casa, avrei potuto tranquillamente permettermi un cane, lo spazio c’era. Mi sarebbe pure piaciuto prenderne uno. Non ci si immagina quanta compagnia possa fare un cane fino a che non se ne ha uno. Il problema era quello inverso però: chi avrebbe fatto compagnia a lui? Per questo evitai di prenderlo. Non volevo farlo soffrire di solitudine.
Accanto alla mia, varie villette riempivano quella parte di paradiso. A destra avevo Jin, vedova di mezzo secolo che stava per ore intere a scrutare la strada dalla finestra, in attesa che passasse qualcuno da squadrare dalla testa ai piedi. Forse era solo un modo di passare il tempo. Era ancora una bellissima donna.
Alla mia sinistra invece abitava Max, degno di nota per la sua curiosità in materia di automobili. Girava per tutto il vicinato e il resto dell’isola con la scusa di fare amicizia, ma il suo intento era sempre quello di infilarsi nel garage delle sue nuove conoscenze, guardare che tipo di macchina avevano ed eventualmente vantarsi della sua Porsche Boxer. A volte gli andava bene, a volte no e tornava infastidito, gravato dai complessi d’inferiorità.
Ero fondamentalmente un tipo riservato, a cui non interessava la maggior parte delle frivolezze che riempiono questo mondo. L’invidia mi scivolava addosso come l’acqua di una pioggerella estiva. E in Florida di pioggia ne veniva giù tanta.
Stavo finendo di stirarmi per bene la coscia quando sentii il rumore di una bicicletta. Non ci feci molto caso, a volte ai turisti piaceva farsi un giro dell’isola, e la bici era il mezzo migliore per non perdersi niente. Potevano ammirare con calma le case, le spiagge e il mare, spalmati di crema e con un cappello in testa, ovviamente.
Il cigolio della catena e il rumore delle gomme sull’asfalto si allontanavano piano. Appena prima che sparissero del tutto udii qualcosa che catturò all’improvviso la mia totale attenzione.
Rimasi immobile per almeno una decina di secondi, e il mio battito iniziò nuovamente ad accelerare.
Non mi capacitavo. Forse avevo sentito male, magari me l’ero semplicemente immaginato, ma sembrava proprio quella voce. La voce che ogni notte si intrufolava nei miei sogni.
Una tempesta di pensieri mi inondò. È lei? Forse mi sbaglio… No, sicuramente mi sono sbagliato… Ma potrebbe essere lei… Cosa faccio? Lascio perdere… Dovrei raggiungerla? E cosa le dico?! Salve, lei non mi conosce ma io sento la sua voce ogni notte in sogno? Mi prenderebbe per pazzo, o peggio per un maniaco… No, devo vederla. Finalmente mi decisi.
Uscii di corsa dal vialetto, ma la bicicletta aveva appena svoltato l’angolo.
Iniziai a correre, preso dall’ansia di perderla. Le gambe si alternavano a un ritmo forsennato, come se si fossero appena svegliate da un lungo sonno. Il respiro accelerò vertiginosamente, le mani tese mi dondolavano con forza lungo i fianchi. Svoltai l’angolo e scorsi una figura indefinita dopo il ponte in fondo alla strada. Si stava allontanando.
Aumentai ancora il passo, cercando di ridurre la distanza che mi separava da quella ragazza. Ricominciai a sudare, gli occhi mi pizzicavano, i polmoni mi bruciavano intensamente. Sentivo le gambe stanche, troppo.
«Ehi, tu! Aspetta, ti prego!» urlai, invano, come ultimo tentativo.
La sua figura si allontanò e sparì dalla mia vista. L’avevo persa. Me l’ero fatta sfuggire da sotto il naso.
Tornai a casa lentamente, cercando di non vomitare i polmoni. Il caldo stava iniziando a rendere l’aria irrespirabile, come tutti i giorni.
Max si affacciò alla porta.
«Ciao Jake! Buongiorno! Va tutto bene?» mi chiese con la sua solita aria curiosa. Utilizzava sempre la traduzione del mio nome – che in realtà è Giacomo – ma in fondo oramai mi ero abituato e quasi quasi mi piaceva di più.
«Buongiorno Max…» ripresi fiato. «Tutto bene… non ti preoccupare… devo andare, buona giornata!»
«Altrettanto!» mi rispose, e rientrò in casa insospettito, scontento per la sua curiosità inappagata.
Guardai l’orologio, le otto e mezzo. Era tardi, il lavoro mi aspettava ma non riuscivo ad andare più veloce, avevo bruciato tutte le energie per raggiungere quella ragazza sconosciuta. Eppure deve essere della zona, magari si è trasferita da poco, pensai. Una ragazza in bicicletta non può vivere troppo lontano. Mi pare di aver sentito che la villa dei Burden è stata messa in vendita. Pensavo a una villa sull’isola vicina, Longboat Key.
Arrivai a casa, mi spogliai di corsa e mi precipitai in bagno. La doccia mi rimise in sesto, con l’aiuto di un integratore di sali minerali ai frutti rossi, il mio preferito.
Sistemai le conchiglie raccolte al loro posto accanto alla vasca da bagno, nell’ampolla di vetro, e cercai di asciugarmi. Stavo continuando a sudare, a causa dell’acqua troppo fredda e dell’aria condizionata. Si dice che una doccia calda faccia smettere, ma nella mia condizione non me l’ero proprio sentita.
Entrai in camera. Era molto grande, avevo un armadio per i completi e uno per tutti gli altri vestiti. Il letto, centrato nella parete a nord, era ampio e soprattutto molto comodo. La parte sulla destra era una vetrata immensa, con una porta che dava sul retro della casa, direttamente sulla piscina. Sì, c’era pure quella. Una piscina a forma di otto, con la metà superiore più profonda, e quella inferiore che arrivava circa a un metro e mezzo. Sul fondo, un robot andava avanti e indietro in continuazione, per cercare di pulire tutto lo sporco che vi si accumulava. Funzionava benissimo, riusciva perfino a risalire lungo le pareti quasi verticali. Era una gioia per gli occhi, e un grande risparmio di fatica, ve lo posso assicurare.
Scelsi il completo nero, lo indossai e mi misi l’orologio. Odio gli orologi, secondo me servono solo a mettere la gente sotto pressione. Ma, ahimè, il mio lavoro lo richiedeva.
Presi la valigetta, la fissai sul portapacchi della moto e partii.
Lo studio legale dove lavoravo era sulla terraferma, a circa tre chilometri e mezzo dal ponte principale, che distava cinque minuti da casa mia.
Avevo studiato giurisprudenza in Italia, mi ero laureato con un anno in ritardo a venticinque anni, mi ero trasferito qui a ventisei e adesso ne avevo ventotto.
Al lavoro, ogni giorno proseguiva uguale a quello precedente, in un ripetersi di azioni che avrebbe tolto la voglia al più diligente degli apprendisti. Il mio ufficio, se così si poteva chiamare, era una piccola stanza di circa nove metri quadrati, con una scrivania nuova, bianca, e una classica sedia con le ruote. I muri completamente immacolati avrebbero avuto bisogno di qualche quadro. Non mi ero mai permesso di chiederli, né di portarne da casa. Mia madre era fissata con i quadri, e infatti da qualcuno dovevo aver preso.
L’unica finestra presente nella stanza dava sul resto d’America: una pianura immensa che si stendeva a perdita d’occhio.
Il computer che mi avevano assegnato la prima settimana non era un granché, così al terzo stipendio investii una somma cospicua per metterne assieme uno che sarebbe potuto durare qualche anno di più. Passai la prima notte a cercare i giusti pezzi, la seconda a esaminare i componenti acquistati, come erano fatti, quali erano le loro caratteristiche, e specialmente quale il loro compito. La terza iniziai con l’assemblaggio. Il risultato fu ottimo, se l’avessi comprato già confezionato avrei sicuramente speso molto di più.
Era stato un mio amico in Italia a iniziarmi al magico mondo della tecnologia. Le poche nozioni di informatica che avevo le dovevo a lui. Per il resto sopperivo cercando dei video su Internet. In rete si trova proprio di tutto.
La mia mansione, oltre che fattorino, fotocopiatore e cameriere dei senior partners, consisteva nel redigere atti, semplici, chiari e concisi, specialmente in materia di Land Development. A volte correggevo anche le bozze dei miei colleghi. Sapevo scrivere, avevo uno stile leggero e semplice, ma colpivo nel segno.
Non posso dire la stessa cosa del parlare. La mia proprietà di linguaggio era perennemente in sciopero, ogni santo giorno. Per questo mi facevano solo scrivere, cosa che del resto mi andava più che bene in quanto potevo saltare le noiosissime sedute della Commissione urbanistica. Mi trovavo a disagio davanti a persone che non conoscevo, un piccolo difetto che ho sempre avuto. Da più giovane mi vergognavo addirittura a rispondere al telefono, o a fare una chiamata. A malincuore devo ammettere che, anche da grandicello, ogni volta che dovevo prenotare un ristorante per una cena tra amici o al lume di candela chiedevo sempre a mia madre di farlo al posto mio.
Negli attimi di relax o di stallo, andavo su Internet, mi documentavo sul fai da te, sulle nuove uscite di libri e film, su qualsiasi cosa mi girovagasse per la mente. Odiavo starmene con le mani in mano.
Quella mattina non cercai libri, né film, né bricolage. Cercai le case in vendita nelle isole, quelle comprate, gli acquirenti. Insomma, cercai un qualche indizio su di lei.
«Hm-hm… buongiorno, sei arrivato in ritardo questa mattina.» Il mio capo era entrato di soppiatto, con passo felpato. «Va tutto bene? Non sei mai arrivato in ritardo, mi stavo preoccupando!»
«Ah…!» chiusi in tutta fretta il browser, rovesciando il caffè sulla tastiera. Mannaggia, chissà come resterà appiccicosa ora… pensai. «Buongiorno, mi scusi per il ritardo,» cercai di giustificarmi «ho avuto un problema con la doccia. Non succederà più.»
«Ma figurati! Se badassi a questi piccoli e rari ritardi avrei già dovuto licenziare tutti… me compreso, ah ah ah!» e lasciò la mia stanza ridendo.
Era una persona per bene, molto alla mano, che non si arrabbiava con facilità, anzi cercava di essere il più comprensivo possibile, per mettere a proprio agio tutti i lavoratori dello studio. In effetti non avevo mai sentito nessuno lamentarsi del boss, erano tutti molto contenti, cosa particolarmente rara.
In pausa pranzo andavo sempre in una caffetteria-libreria vicino al centro, così da poter leggere in tranquillità smangiucchiando qualcosa, da accompagnare a un buon bicchiere di vino rosso. Il pranzo era uno dei momenti che mi piacevano di più, non mi facevo mancare niente.
Entrando notai che c’erano poche persone, meno che in altri giorni.
Il mio tavolo era lì pronto che mi aspettava. La cameriera lo preparava con cura poco prima del mio arrivo. Mi lasciava sempre un libro alla sinistra dell’apparecchiatura, ormai conosceva bene i miei gusti, e un bicchiere di vino alla destra. Ogni volta mi faceva assaggiare qualcosa di nuovo. Mi stavo facendo una cultura di Merlot, Syrah, Sangiovese, Malbec eccetera che nemmeno un’enoteca. Iniziavo a conoscerne davvero molti.
Appena seduto, il padrone del locale venne a salutarmi. Mi chiedeva sempre cosa ne pensassi del vino. Era un sommelier. Ci aveva accomunato da subito la passione per i vini, per il buon cibo e per gli abbinamenti fra i due. Fu grande amicizia fin dal primo giorno.
In Italia avevo frequentato anch’io un corso per diventare sommelier, anche se non l’avevo portato a termine; il giorno dell’esame finale, ahimè, cadeva qualche settimana dopo la mia partenza, e io non potevo più aspettare.
Pensare che avevo sempre amato la montagna, la neve, il freddo, e adesso mi ritrovavo in un luogo senza vette, caldo e umido. A volte la vita prende una piega che non ci si aspetta, ma mi ero adattato con molta più facilità di quanto mi sarei mai aspettato. Specialmente considerato il mio carattere.
Il pomeriggio passò lentamente. Non riuscivo a scrivere, il pensiero di quella ragazza mi distraeva, a tal punto da costringermi a rileggere almeno una decina di volte la stessa frase per capire come andare avanti. Avevo il cervello in pappa.
Nel frattempo, aveva iniziato a piovere. Da queste parti era normale in estate: nel giro di un’ora si annuvolava, scaricava il dovuto e tornava sereno. Ogni santo giorno. Per questo motivo l’umidità raggiungeva picchi molto elevati.
Sospirai e andai nella caffetteria. Di solito ci incontravi molte persone, che pur di non lavorare troppo bevevano fino a sei o sette caffè al giorno. Il responsabile del reparto mise poco dopo una regola: massimo quattro a testa, per evitare disturbi psicologici ai lavoratori. Abituato a quello italiano, intenso, forte, il primo giorno me ne sparai troppi, finendo a passare la notte in bianco con le palpitazioni e la paura di un infarto incombente.
L’orario di uscita era già passato, la stanza era vuota.
Il cielo era nuovamente chiaro e limpido. Raccolsi le mie cose e feci per uscire. Lo sbalzo termico dall’interno dell’edificio, fresco grazie all’aria condizionata, all’esterno, fece sì che l’umidità dell’aria si condensasse in tutte le parti del corpo scoperte. Migliaia di piccolissime perle mi inondarono la fronte e il collo già nella piccola distanza percorsa per arrivare alla moto. Salii e inserii le chiavi.
Facevo ogni giorno la stessa strada, quasi avessi inserito un pilota automatico. Istintivamente mi fermavo ai semafori, e altrettanto naturalmente ripartivo senza quasi guardare il verde. Era un automatismo ormai.
Le strade in America sono tutte molto più dritte che in Italia, ma a renderle pericolose è la gente. Abituata a macchinoni e SUV di una certa dimensione non si accorgevano nemmeno della mia moto.
In più, la maggior parte della popolazione era ultrasessantenne e si sa che la pericolosità va di pari passo con l’avanzare dell’età. Dovevo essere molto cauto o rischiavo di finire investito come una lucertola che attraversa un’autostrada trafficata.
Stavo attraversando il ponte John Ringling Causeway, che mi avrebbe portato prima a Bird Key, e successivamente a Lido Key. Si scorgeva in lontananza la banchina di casa mia sulla baia, grazie alla pioggia di poco prima che aveva reso il cielo completamente terso. John ci teneva un motoscafo, bello e potente… Io una canoa. Un bel cambiamento, pensai. Sorrisi. John mi aveva portato a fare un giro col suo motoscafo solo una volta. Ricordavo il vento forte contro il volto che mi scompigliava i capelli, eppure l’acceleratore non era nemmeno a metà. «John, dai gas fino in fondo! Fammi vedere a quanto arriva» gli chiesi, già molto eccitato dell’andatura attuale. Rimase immobile per qualche secondo. Poi, senza nemmeno voltarsi: «Quando la benzina costerà di meno». Non mi aspettavo quella risposta, scoppiai a ridere di gusto, ma lui non batté ciglio e continuò imperterrito senza aggiungere altro.
Ero arrivato alla prima isoletta, dove la strada si incrocia con Bird Key Drive. Vidi con la coda dell’occhio una ragazza che passeggiava con una bicicletta a fianco. Aveva la stessa andatura della figura che avevo intravisto la mattina, non credevo ai miei occhi, era veramente destino allora.
Le passai accanto e mi voltai, per continuare a guardarla. Era bellissima.
Mi colpì subito il suo viso. Aveva lineamenti delicati, adatti alla sua voce soave. I capelli, neri, le scendevano leggermente dietro, per poi scivolare lungo la spalla fino a raggiungere il seno. Per un attimo i nostri sguardi si incrociarono. Aveva occhi terribilmente dolci, solari, leggermente a mandorla. Purtroppo, la distanza tra noi non mi permise di coglierne il colore. Le labbra erano la ciliegina sulla torta, la punta di diamante di una collezione dal valore inestimabile.
Portava una maglietta bianca, molto leggera, che svolazzava lievemente al vento. Scesi con lo sguardo. Indossava dei pantaloncini di jeans, molto corti, dai quali spuntavano due gambe sottili e slanciate. Probabilmente non raggiungeva il metro e sessantacinque, ma l’insieme era talmente armonico che chiunque avrebbe abbassato di qualche centimetro insignificante il proprio ideale di bellezza.
Mi devo fermare, pensai. Più avanti dovrebbe esserci una rotond… quando mi voltai era tardi, la macchina davanti a me si era fermata all’incrocio.
Sentii un colpo e mi sembrò quasi di volare. Poi chiusi gli occhi.
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