Luca ha sedici anni, quasi diciassette, e immagina la sua vita come un mare perennemente piatto, che non lo fa sentire “né carne né pesce”. Ha voglia di crescere e si ripromette di non diventare come certi adulti: insoddisfatti, tristi, dediti solo al lavoro e a un’esistenza priva di emozioni. Luca vuole essere felice, ma le sue continue riflessioni sui sentimenti e sulla vita lo bloccano in un vortice di negatività, apparentemente senza via di uscita. Se la soluzione fosse lasciarsi sorprendere da un’onda anomala, uno tsunami in grado di agitare quel mare calmo? Perché una cosa è certa: quell’onda arriva per ognuno di noi, e una volta svanita, non faremo altro che desiderare di esserne travolti di nuovo.
1. Né carne, né pesce
Sedici anni, quasi diciassette. Sono in quella striscia di terra in cui chi ha già conquistato il proprio posto definisce come “né carne, né pesce.” I miei amici penso si debbano sentire come mi sento anch’io. Solo che loro non me lo dicono. Forse certe cose, certe sensazioni ed ebollizioni del cuore, non vanno raccontate, solo ascoltate e vissute, stando dentro la nostra pelle. Da lì, non escono. Eppure, a me piacerebbe parlarne. Anche solo con qualcuno. I miei genitori, quando mi sorprendono triste, o pensieroso, o svogliato, mi danno del pigro. Non fanno lo sforzo di capire che mi passa per la testa. Che cos’è che mi tormenta. Cosa c’è a scorrermi su e giù tra i vasi sanguigni senza darmi tregua.
«Luca, sei in quella terra di mezzo, né carne né pesce, vedrai che passerà» si limitano a dirmi. Loro già hanno valicato questo mio confine e si godono il panorama che c’è dall’altra parte. E io, mi convinco, come mi dicono loro, che tutto questo passerà e che anche io un giorno, cessata la tormenta, mi godrò il paesaggio con le mani ai fianchi e il respiro calmo, pacato. Magari allora sarò anche sposato. Magari avrò un lavoro che mi farà stare bene e una casa tutta mia, in città o, meglio ancora, in campagna; con un cane che gironzola in giardino e attende un biscotto per scodinzolare allegro, fino al prossimo che gli darò e di cui mi ringrazierà con altri colpi di coda.
I cani sanno come essere felici. Non si mettono a rimuginare su come raggiungere ciò che vogliono o che desiderano. Lo afferrano. Si mettono tra i denti quel biscotto. Lo mordono e poi ti mostrano la loro felicità a colpi di coda, sbattendotela in faccia.
Ma sarebbe un bene vivere così? Come un cane? Io di certo non ci riuscirei. Dovrei svegliarmi una mattina nel mio letto con muso e zampe per saperlo, ma se la mia anima rimanesse la stessa dentro a quel sacco di pelo, comunque non ce la farei a scodinzolare ignorando il fatto che non sono “né carne né pesce”.
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A scuola i miei compagni ridono. Ridono sempre. Si divertono. E pensano poco. O raramente. Hanno sulle spalle zaini pieni di niente. E le ragazze hanno il rossetto già a sporcare le labbra. E io mi domando perché. Vogliono forse che qualcuno glielo sbavi? Che glielo strappi via? E poi?
A sedici anni, quasi diciassette, tutto il mondo sembra ancora in costruzione. Ci sono solo fondamenta. Anche un po’ ammaccate. Quel mondo è come se andasse disegnato su carta, progettato, prima di mettersi al lavoro per realizzarlo. Mentre quello degli adulti è lì, sta davanti ai nostri occhi e già risplende. E mi dico che anche loro saranno dovuti necessariamente passare per la fase di progettazione, calcolo e costruzione. Eppure, sembra che a loro le cose vadano così bene…
Sì, hanno le bollette da pagare. Cosa che ancora non mi riguarda. Hanno i calcoli e i conti da far tornare e quadrare a fine mese. Hanno la macchina da rimpinzare di benzina altrimenti si fermerebbe in mezzo al traffico e sarebbe un macello. Ma hanno anche la domenica per riposarsi, fare colazione prendendo il caffè, leggere il giornale come se fosse qualcosa di davvero importante, preparare il pranzo o portare fuori la famiglia in un agriturismo e rientrare alticci, così da pregustarsi la pennichella per poi svegliarsi con un filo di bava sul cuscino, accendere una sigaretta assieme all’abat-jour e leggere un libro fino all’ora di cena, poi guardare la TV, spegnere tutte le luci di casa e mettersi a dormire.
Che altro possono aspettarsi loro dalla vita?
Tutto sembra quiete. Niente può provocare una bufera, una tormenta nelle loro vite. E in me? In me è prevista una tormenta? Un mare in burrasca o uno tsunami?
Una sera, mentre leggo Louis-Ferdinand Céline, papà bussa tre volte alla porta della mia stanza. Quando i rintocchi sono tre e non uno o due, indicano la sua volontà di lasciarmi nel cuscino e sotto le coperte qualche parola importante con la quale mi addormenterò pensieroso e su cui rifletterò per i giorni a venire.
«Luca, che leggi?»
«Céline.»
Sospira, come a indicare che è bello che io legga, ma che sarebbe meglio che leggessi qualcosa di scuola, e non solo e sempre libri di interesse e piacere personale. Io penso che la cultura ce la costruiamo e intessiamo noi, la scuola è solo una bussola, ci dà gli strumenti, ma poi siamo noi a decidere e condurre il gioco.
Poi prosegue: «Ti sta piacendo il libro?».
«Sì.» Mi piace, ovviamente. Leggere chi della vita sembra averne capito più di me, un ragazzino di sedici anni quasi diciassette, certo che mi piace. Mi sembra di crescere più in fretta o almeno meglio.
«Come stai?»
Che domanda difficile; anche se è diventata così banale per lo scarso peso con cui viene snocciolata e perché le si dà una risposta molto approssimativa, forse capita proprio perché già in partenza capiamo che nessuno davvero vuole sapere come ce la passiamo e come realmente ci sentiamo.
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