Un pomeriggio, mentre la madre era al lavoro, Franco entrò in camera sua e gli disse che lo avrebbe aiutato a fare i compiti perché era libero e poteva dedicargli un po’ di tempo.
Si sedette accanto a lui e cominciò a raccontargli una storia.
Gli parlò di un castello dove alcuni uomini avevano portato un gruppo di ragazzi dopo averli rapiti e sottoposti a indicibili sevizie e torture di ogni tipo.
Franco si soffermò sui particolari più crudi, mentre un sorriso sinistro gli illuminava il volto. Lo implorò di smettere, perché non voleva ascoltarlo, né sentire più nulla, desiderava solo che se ne andasse.
Ma non se ne andò. Non subito.
Prima avrebbe dovuto fare una cosa.
Quando tutto finì, Franco gli disse di non dire niente alla mamma, altrimenti avrebbe fatto del male a entrambi. Poi, finalmente, uscì dalla stanza.
Quella sera Pasquale disse alla mamma che non avrebbe cenato perché gli faceva male lo stomaco e rimase in camera. Guardò verso la lampada verde e vide che c’erano dei piccoli disegni ricamati sulla stoffa. Non ci aveva mai fatto caso e, incuriosito, si avvicinò. Gli sembravano delle stelle, o magari erano semplicemente figure geometriche. Forse dei simboli.
Il pomeriggio seguente Franco tornò e lui non si oppose nemmeno. Fece quello che gli chiedeva senza battere ciglio, senza parlare, senza pensare, senza reagire.
E fu così per quasi tre anni.
Subiva qualunque cosa, senza dire nulla. Quando sentiva la porta aprirsi, osservava quella stampa appesa sulla parete. Era l’immagine di un ragazzo che soffiava in una bolla di sapone. Il quadro era stato dipinto da un pittore impressionista di fine Ottocento. Chiudeva gli occhi e immaginava di trovarsi in quella bolla di sapone e di fluttuare nell’aria.
Riusciva a vedere le persone, le città, i monumenti. Si sentiva felice e assaporava quegli attimi.
Era il suo modo di distaccarsi dalla realtà. Era il suo modo di difendersi.
Una mattina d’estate sentì dei rumori in cucina. Entrò e vide sua madre piangere.
«È successo qualcosa a Franco, mi hanno appena chiamato. Ha avuto un incidente in fabbrica, non ho capito bene… Franco adesso è in ospedale, mi hanno detto che è grave… Forse è un’ustione, io corro da lui. Tu resta qui e, se hai bisogno di qualcosa, chiedi alla signora Marta. Va bene?»
«Va bene, mamma, non preoccuparti, non ho bisogno di nulla.»
Dopo due settimane, Franco morì. Si seppe che non era stata un’ustione, ma che fu stritolato da una macchina.
A sua madre non disse mai niente, perché non sarebbe servito a nulla. Solo ad aumentare il suo dolore.
Ma quella ferita rimase.
Ogni tanto piangeva di nascosto, senza farsi vedere, ma quel pianto non faceva altro che alimentare il fuoco che covava dentro.
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