Marica è una ragazza di diciotto anni che ha sempre vissuto senza riflettere troppo sulle proprie scelte, ma ora si trova improvvisamente di fronte a decisioni che potrebbero cambiare radicalmente la sua vita. La bolla in cui si è rinchiusa fino a quel momento scoppia all’improvviso, e i punti fermi della sua esistenza iniziano a vacillare. Si rende conto che gli eventi non possono essere sempre previsti e per la prima volta dopo tempo, si sente diversa dalle sue coetanee e non più a proprio agio in conversazioni che le sembrano tremendamente superficiali. E poi c’è Edoardo, il compagno di classe che ha sempre rappresentato qualcosa di più per lei, ma che non ha mai avuto il coraggio di affrontare come avrebbe dovuto. Il suo ritorno non passerà inosservato, nemmeno agli occhi delle sue amiche più intime.
Capitolo uno
Avete presente le bolle? Le bolle di sapone in particolare.
Ovunque voi siate, immaginate di trovarvi soli, al centro di un luogo a voi familiare.
In pochi istanti vi sollevate, vedendo il terreno distante dai vostri piedi.
State volando, siete nella vostra bolla.
Vi sentite più leggeri, gioiosi ed estranei alle piccolezze del mondo che per tanto vi hanno influenzato.
Non è fantastica quella sensazione di quiete che ci attraversa il cuore, la mente e ci rende liberi?
Lontani dai pensieri che ci opprimono e offuscano il futuro che tanto sogniamo, ma che mai potremo avere.
A questo servono le bolle, le nostre bolle, per evadere e fuggire dalle paure che ci tormentano.
Il problema si pone quando anche loro si arrendono rompendosi in un secondo, perché non tutto è eterno e non sempre fuggire è la scelta più saggia.
Ci ritroviamo a scendere veloce, più velocemente di come siamo saliti, tocchiamo la terra e apriamo gli occhi.
La bolla è scoppiata, ma noi siamo ancora integri.
Possiamo affrontare la vita.
Quella mattina realizzai che la mia bolla si era rotta.
Erano le sette e la sveglia suonò, così la spensi.
Suonò un’altra volta e decisi di spegnere il telefono.
Quella mattina decisi che non sarei andata a scuola, scelsi di restare nel letto, sotto le coperte tra i fazzoletti sporchi della sera prima. Avevo gli occhi chiusi e non volevo aprirli. Sapevo che se li avessi aperti, lo avrei visto e non ero pronta ad accettare quello che mi stava accadendo.
Mi girai dall’altro lato del letto e uno spiraglio di luce mi colpì il viso.
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Cominciai a sentire i primi rumori delle macchine provenire dalla strada, così pensai che fossero più o meno le sette, perché a quell’ora solitamente a Roma ancora non vi è tanto baccano, le persone sono ancora abbastanza assonnate per immettersi nelle discussioni stradali e l’unico fastidio che sanno provocare è lo schiamazzo della marmitta dei loro veicoli.
Mia madre bussò alla porta.
«Marica, spero che tu ti sia alzata dal letto o faremo tardi.»
«Non farò tardi per niente, perché oggi a scuola non metto piede!» le urlai singhiozzando.
Lei non rispose. Riusciva sempre a capire quando fosse il momento di parlarmi e si rese conto che quello non lo era. Non volevo parlare con nessuno che non fosse lui e lui non c’era più.
Erano giorni che le urla di mia madre non mi sfioravano più l’orgoglio, l’odore sporco della metro non mi infastidiva come al solito e avevo iniziato a infischiarmene dei bei voti a scuola.
Non avrei mai pensato che un rapporto potesse trasformarsi in ossessione, dolore e fatica.
Perché amare qualcuno richiede tanta energia? E perché nel ricevere amore si fatica il doppio?
Non me lo spiegavo, avrei voluto strapparmi via la pelle, prendere il cuore e lanciarlo lontano. Non volevo più soffrire, volevo mettere fine al mio dolore, ma non potevo perché non dipende da noi, ma dal dolore stesso.
Decide lui quando abbandonarci.
Io di aspettare non ne potevo più.
Presi coraggio e mi alzai, uscii dalla camera con una mano sul volto, chiusi la porta e andai in cucina. Sul davanzale, vicino ai fornelli, c’era una scatola piena di cialde di caffè, ne feci uno doppio con due cucchiaini di zucchero, poi uscii in balcone e accesi una sigaretta.
Dal lì riuscivo a vedere Villa Borghese immersa nella pace e mi rilassava osservarla priva di ogni essere dotato di due gambe.
La sigaretta si consumava lenta e il sole mi baciava appena le guance, che in un secondo diventarono rosse.
Abbassai lo sguardo e con una mano mi toccai la pancia, poi con la bocca aspirai bruscamente dal filtro e buttai fuori.
Tossii due volte e iniziai a piangere.
Rialzai la testa e spensi la sigaretta.
Mi appoggiai al tavolo: dovevo ragionare e prendere coraggio o almeno trovarlo. Non si trattava di una stupidaggine, era una questione seria.
Parlavo ad alta voce, a casa erano usciti tutti.
Andavo avanti e indietro lungo il corridoio che univa la porta d’ingresso e la cucina; avevo i capelli scompigliati, ma mai quanto i pensieri, che erano un vero nodo da sciogliere.
«Stronzo» dicevo ogni cinque parole.
«Sono una stupida» ripetevo ogni due frasi.
I miei diciotto anni mi avevano regalato l’idiota convinzione che potevo agire come volevo, senza pensare alle conseguenze.
Sono state tante le cavolate che ho fatto, ma quella le superava tutte.
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