Rita è una quattordicenne ironica e sensibile. Le sue giornate si dividono fra la scuola, l’amicizia con Lisa e le prime cotte, fra i sogni a occhi aperti e le riflessioni sulla vita. Non è spensierata come potrebbe apparire: un dolore mai risolto, dovuto alla perdita della mamma, mina infatti la sua quotidianità e la induce prima a rifugiarsi in un disturbo alimentare, poi a preferire il mondo virtuale alla compagnia dell’apprensivo papà. Tuttavia è proprio in una chat che Rita fa l’incontro che cambierà il suo modo di guardare il mondo e, ancor prima, se stessa. Un incontro che metterà a nudo la sua anima e le mostrerà come la felicità sia spesso molto più vicina di quanto non si immagini.
Capitolo uno
Che cos’è l’amore?
Bella domanda. Quanti testi saranno stati scritti in sua ode? Da quello che trovi facilmente sugli scaffali di una biblioteca a una semplice dedica scritta da mano anonima su un bigliettino che il tempo consuma.
Se è ineffabile, ciò che accade a corpo e mente quando si è avvinghiati tra le sue braccia, come lo definisci? E quanta parte ha l’istinto?
Quanto raziocinio può contenere il precipitare di un impulso che parte dal profondo, che non elabori né contieni, che non identifichi anche se lo riconosci, anche se lo vivi?
Se ridurlo a una risposta univoca è opera vana, quando puoi realmente dire di esserne sfiorata?
Posso dire con certezza di amare gli animali ma non sento il cuore esplodermi nel petto se penso a un cucciolo di beagle.
Allora, forse, l’amore lo definisci dal suo oggetto. Da cosa, o da chi, è in grado di trasmetterti un’emozione incontenibile. Così profonda da riuscire a raggiungere luoghi di te stessa che nemmeno sapevi ti abitassero. In tal caso l’amore avrebbe una forma e una sostanza. Ma anche così non lo puoi misurare. Eppure esistono amori che sono semplicemente più grandi di altri.
Forse l’amore cessa di essere astratto quando è in grado di cambiarti. Di fare da spartiacque tra ciò che eri prima e ciò che sei diventata dopo. Non più un’esperienza ma un confine. Io, però, su quel confine mi ci sono seduta. E ho lasciato penzolare le gambe, indecisa se attraversarlo o ritirarle e tornare indietro.
È questo che faccio. Procedo in modo trasversale mentre in apparenza la mia vita scorre via diritta. Eppure… quando pensi che le cose vadano male accade sempre qualcosa che ti persuade del fatto che, in fondo, non vanno poi così male… vanno anche peggio.
Mi chiamo Rita, ho quattordici anni ma esteriormente sembro già maggiorenne. Come sia possibile che il mio corpo si sia messo a correre senza lasciare alla mente l’opportunità di tenergli testa resta per me un mistero. Che forse risolverò quando le distanze si saranno ridotte.
Il mio papà mi ripete spesso che appena un anno fa non ero che una bambina. Il concetto non mi è così chiaro. Se me lo ripete ogni anno, vuol dire che in quello precedente ero una bambina (anche se gli anni passano) mentre nel momento in cui me lo dice non lo sono più. Vallo a capire, mio padre. Sempre “accelerato”, che ti esprime concetti risolutivi della vicenda umana mentre è tutto concentrato a fare qualcos’altro. Come se guardarti dritto negli occhi ne interrompesse il filo logico.
Da quando mamma non c’è più, sembra essere nel panico perenne. Un suo sorriso è raro, ed è ormai diventato il ticchettio fastidioso di un pendolo, il suo sfogo lamentoso. Si ripete continuamente, a ogni occasione e senza posa.
Io sono il suo bersaglio privilegiato. Non gli va bene nulla di me, neanche un gusto musicale che poco poco si allontani dai canoni del Festival di Sanremo, e nemmeno delle edizioni più recenti.
Ma le sue disquisizioni ampliano il loro spettro fino all’inverosimile. La politica è sporca, il sistema è corrotto. Ma quale “sistema”? Quello che gioca ogni settimana per “dare una svolta”, come dice lui? Per non parlare della sua dialettica sulle professioni. Secondo lui la categoria degli insegnanti rappresenta una classe di privilegiati: stanno sempre a casa, fanno un lavoro comodo e ben retribuito oltre che socialmente riconosciuto, hanno una qualità della vita invidiabile, non hanno la minima idea di cosa significhi lavorare e bla bla bla. Neanche i vigili urbani gli stanno simpatici. Li trova inerti davanti alle scuole, come sgradevoli addobbi del paesaggio, oltretutto spazientiti dal loro dolce far niente, utile a fargli percepire il loro più che rispettoso stipendio. Cavolo, ma quando piove allora? E poi cosa vuole, abolire l’intera polizia municipale?
Anche il “piccolo” Fiocco di neve, il gatto che coi suoi venti anni d’età è prepotentemente attaccato alle sue sette vite, sembra sbadigliargli in faccia quando lancia le sue invettive. Anche lui è un essere inutile… ma almeno non percepisce lo stipendio, altrimenti sai che risate.
Mamma è morta due anni fa. Era bella. Riusciva a fare tutto senza scomodare i vigili, gli insegnanti, il parroco, il sindaco e tutti gli assessori.
Mi manca. Mi manca litigare con lei, svicolare da ogni suo consiglio. Dirle “Ti voglio bene”.
Papà è cambiato tanto da allora. Io lo so, lo vedo… lo odio.
La sveglia è suonata. Comincia l’avventura delle superiori. È il primo giorno.
Dovrei alzarmi di scatto, darmi il tempo di andarci al meglio ma… allungo il braccio, carezzo col dito lo smartphone per fermare quel suono orrendo, mi giro su un fianco, dando la schiena al comodino su cui è poggiato, chiudo gli occhi.
«Rita! Rita! Ma ti vuoi alzare? Ti avevo detto di non fare come gli altri anni! Adesso hai l’autobus che ti parte, mica aspetta la principessina dei Windsor. Mi ascolti?»
Tiro fuori la testa da sotto le lenzuola, dove avrei voluto stare per un decennio ancora. Diamine, mi urla da un centimetro. Lo guardo e non parlo. La sua voce mi trapana il cranio ma mi giro, lo guardo ancora una volta, gli occhi sono in perfetto allineamento e nessuno dei due li abbassa. Mi scopro di botto.
Mi vede già vestita e pronta per uscire (giusto una breve capatina nel bagno). Mi volta le spalle.
«Alzati» sibila.
Capitolo due
Io non sono pigra. Sono semplicemente riflessiva! Sto lì a ponderare sull’utilità di una tale cosa e a valutare le giuste azioni da compiere quando quella tale cosa non mi risulta, per così dire, tanto gradevole.
Voglio dire, perché sono tutti così frettolosi? Che senso ha correre per qualunque motivo, anche il più futile, quando alla fine la cosa più agognata della giornata è il riposo? Stress e relax. Lo Yin e lo Yang del confucianesimo moderno. Ci si fa l’abitudine, ad andare di corsa. Mentre si disimpara la contemplazione. Correndo così il rischio di assaporare ogni cosa senza gustare nulla. Per questo non mi spiego perché mi biasimino così tanto quando sono concentrata a fare ciò che mi viene meglio, quasi naturale… nulla!
“Vivi la vita come se fosse il tuo ultimo giorno.” Quante volte ho letto questa frase. Ma io non sono d’accordo. Tutt’altro. Penso che la vita vada vissuta come se fossi al tuo primo respiro. Quando l’entusiasmo è al suo acme. Quando tutto il tempo è davanti a te e tu lo insegui, lo modelli. Al contrario rischierei di deprimermi.
La vita per me non è “ora e mai più” ma “ora e per sempre”. Per tutto ciò che “ora” rappresenta e modifica il tuo futuro.
Non faccio mai colazione. Psicologicamente mi fa stare bene. È come se quest’abitudine mi aiutasse a perdere qualche chilo. Il primo buon proposito di ogni giorno.
Ieri sera non riuscivo a prendere sonno per l’emozione ma adesso struscio i piedi come se avessi le catene agganciate alle caviglie e mi trascinassi due pesanti sfere di metallo a ogni passo.
Sembra ancora estate. Si sente il canto degli uccelli che si inseguono in modo irregolare nel cielo. Chissà che sensazione si prova in volo? Mamma è andata in cielo ma dubito che sia la stessa cosa. Dovrei chiedere a un uccellino di passaggio ma non parlo il cinguettese, e poi gli uccelli sono animali diffidenti. Ti avvicini per osservarli e volano via, anche dopo che hai offerto loro qualche briciola per conquistarli. Venezia non è in ogni luogo.
«Rita!»
La voce di Lisa mi distoglie dalle mie elucubrazioni. È già alla fermata con le palpebre socchiuse, come se fosse lì da ore. Sventola il braccio destro per sollecitarmi ad alzare il passo. In effetti il frastuono del pullman è nitido alle mie spalle. Giusto in tempo, ma l’importante è il risultato.
«Muoviti che perdiamo l’autobus!»
«Ma se sei già lì» rispondo, come se non parlasse anche di me.
«Dai.»
Arrivo alla pensilina in perfetta coincidenza con la frenata dell’autobus. Le porte si aprono col tipico sfiato acustico. Entro prima di lei. Prima di tutti gli altri in attesa. Poi mi fermo, costringendo anche quelli alle mie spalle a fare lo stesso. L’espressione di Lisa è un misto tra l’attonito e lo sconcertato.
«Sali?» le dico con naturalezza.
I posti a sedere sono già tutti occupati. Mi porto verso il centro della vettura per evitare di restare schiacciata da corpi e odori non sempre gradevoli. Lisa entra per ultima nonostante fosse in attesa probabilmente da mezz’ora. Lei è così. Si tiene sempre indietro. Coi suoi capelli biondi, lisci, che le cadono fino al fondoschiena, e gli occhi di un celeste innaturale potrebbe prendersi la precedenza su ogni cosa immaginabile. Così, per diritto di immagine.
Invece lei è insicura e indecisa, timida e gentile, come se avesse sbagliato pianeta in cui abitare. La sua psicologa le suggerisce di avere più mordente e sicurezza nei suoi mezzi, ma da quando ha messo l’apparecchio ai denti i benefici della terapia sono evaporati come il fumo del cibo appena cotto su una brace in una giornata ventosa.
Conosco Lisa dalle elementari. Non saprei dire se è la mia migliore amica, però quando ho da sfogare qualcosa chiamo lei. Non abbiamo un’assidua frequentazione extrascolastica, non andiamo in vacanza insieme. Cinque anni nella stessa classe e nemmeno una volta abbiamo fatto i compiti insieme. Lisa è Lisa. I legami più duraturi non entrano mai in assoluta confidenza. E poi con lei mi sento come Candy Candy la crocerossina. Una volta me la citò mio padre. Dovrò vedere una puntata del cartone su Internet, prima o poi.
Com’era prevedibile, resta ferma sul primo gradino dell’autobus mentre le porte si richiudono alle sue spalle. La vedo a malapena, allora mi sporgo fino a toccare col mento il ciuffo di un ragazzo seduto al lato della vettura. Le faccio segno di avanzare ma lei mi osserva rassegnata. Allungo il braccio per indicarle di venire avanti ma urto il cellulare del ragazzo di cui già avevo apprezzato l’odore dei capelli freschi di shampoo. Ne riconosco la marca ma al momento me ne sfugge il nome. Il telefono gli cade sui piedi.
Immagino uno sguardo d’ira da parte sua, invece lo raccoglie con la dolcezza di chi sollevi da terra un gattino appena nato, alza la testa e mi sorride con un gesto del capo che tradisce un poema senza che proferisca una sola sillaba. Un “Tutto okay, non è successo nulla” in alfabeto muto.
Faccio un segno col dito per indicargli la mia amica, quasi come se anche lui lo fosse, e di vecchia data. Lui sorride e io lo osservo meglio per un attimo che dura cent’anni: ha lineamenti delicati, un ovale oserei dire perfetto. Gli occhi sono di un nocciola intenso, i capelli corti alla nuca con un bel ciuffo in avanti. Ma nulla è sufficiente a descrivere quel sorriso. Non lo dimenticherò mai. Potrei lavorare alla scientifica, da grande. Sogni da chef… andate a farvi friggere!
I tentativi di incursione di Lisa risultano vani, e così restiamo nelle nostre posizioni per il resto del tragitto.
Capitolo tre
D’un tratto sono agitata.
Fino a pochi minuti fa sembrava non mi sfiorasse nemmeno l’idea di ritrovarmi nelle agognate scuole superiori, e invece adesso soffro un certo senso di disagio. Non c’è stata la consueta corsa all’ultimo banco. Forse perché per lo più non ci si conosce, salvo poche eccezioni.
Grazie a un giro di favori, io e Lisa siamo nella stessa classe. Fosse stato per lei ci saremmo sedute al primo banco centrale, magari anche spostandolo più avanti, fino a rischiare di non vedere i professori a causa dell’enorme cattedra anni Novanta che domina quella porzione d’aula, a simboleggiare uno stile di insegnamento che nulla ha a che vedere con quello più innocente delle medie appena passate, appena rimpiante. Invece, Sim Sala Bim, ci ritroviamo all’ultimo banco, con Lisa che mi lancia uno sguardo che mi ricorda uno dei nemici dell’ultimo Spider-Man. Ma si calma, per poi tornare a irrigidirsi all’ingresso del prof, che spegne il chiacchiericcio circostante.
«Buongiorno» tipico.
«Buongiorno, professore» corale.
Poi accade l’inatteso. Lisa comincia a svuotare uno zaino che, in effetti, per essere il primo giorno di scuola mi sembrava alquanto ingombrante. Poggia un quaderno sul banco per poi rettificarne di un millimetro la posizione, posa due penne (una blu e una rossa) alla sua destra, ne mette una terza (nera) in alto, disposta in maniera trasversale, e una matita con tanto di gomma e temperino alla sinistra. Ma che sta facendo? Prepara il tavolo per un ricevimento nuziale?
E non è mica finita qui. Continua ad abbassarsi e rialzarsi prendendo tutto lo stock reperibile in una cartoleria. Righello, squadrette, goniometro, compasso. Compasso?! Che pensa di doverci fare col compasso il primo giorno? Poi supera ogni limite umanamente sopportabile: si abbassa di nuovo e tarda a rialzarsi. Sembra un’escavatrice i cui denti sono rimasti incastrati in qualcosa di grosso. Disincaglia il macigno e risale come un palombaro dall’acqua, tutta rossa in viso; impettita, adagia un dizionario della lingua italiana che pare pesare un quintale, luccicante per quanto nuovo. Dopo il parto, lo zaino prima stracolmo si sgonfia come un palloncino bucato.
Quando è troppo è troppo, però. Le tiro una gomitata sussurrando: «Ma fai per davvero?».
Nel frattempo, l’ingresso del prof aveva zittito l’aula: il mio sussurro risuona come un boato. L’intera classe si volta all’indietro. Venti paia di occhi si girano verso di noi da ogni direzione. Dal centro partono quelli del professore, sulle fasce laterali si scagliano quelli dei compagni come in una surreale partita di calcio. E così via, tutti diretti verso uno stesso punto. Ogni paio… quel paio. ODDIO! Non ci posso credere. Quegli occhi, quello sguardo… andrò alla scientifica, è deciso.
Lo stesso prof sembra attonito di fronte alla metodica disposizione degli strumenti chirurgici di Lisa. Sorride, alzando in maniera quasi impercettibile gli occhi al cielo, e con risolutezza si rivolge alla classe richiamandone l’attenzione con un leggero battito delle mani.
«Prendete un quaderno e una penna, per favore.»
Tutti i soldatini tornano ai loro ranghi. “Angelo col ciuffo” compreso. Prendo il quaderno (l’unico quaderno) che avevo portato. Senza zaino, senza merenda, senza… ops.
«Ehi, Lisa.»
«Che c’è?»
«Mi presteresti una penna?»
ilaria.lamberti (proprietario verificato)
immaginavo fosse un libro da leggere tutto d’un fiato ed aspettavo il momento giusto per iniziare… e cosi è stato.. tanto da toglierlo il fiato fino al colpo di scena finale. Mi sono rivista in tanti ruoli: l’adolescente Rita, l’amica Lisa ed anche da genitore. Tra sorrisi, qualche lacrima e tanti battiti al cuore ❤️. Lo consiglio vivamente; lettura adatta a ragazzi ed adulti. Attendo che l’autore ne pubblichi un altro di pari emozione. Grazie per quanto mi ha fatto rivivere ed immaginate!!
Anna Cascetta (proprietario verificato)
Ho pianto!!! Forse sono troppo emotiva… Oppure una dalla lacrima facile…
Può essere…
Ma questo libro capita proprio nel momento giusto!
Da un po’ di tempo ho maturato l’idea che la giovane età è la più bella per le forti emozioni! Non è la parte di vita più semplice, ma quella con più batticuore, con più scoperte, con decisioni importanti.
Da bambini è tutto meraviglioso e i genitori, in linea di massima, sono gli unici supereroi.
Ma da adolesceti, tutto cambia, è tutto un turbinio di emozioni che, poi, da adulti, ci si vergogna anche a provare.
Beh, questo libro, per un pochino mi ha fatto rivivere quelle emozioni irrazionali, ma vere di una giovane età ormai lontana.
Grazie, Anna.
pakipetrosino (proprietario verificato)
Straordinariamente bello. Sorprendentemente emozionante
mike.dm75 (proprietario verificato)
Aprire gli occhi sulle cose vere della vita, Rita la protagonista ci insegna che le mancanze non sono quelle che si comprano , sensibilta’ allo stato puro con un piccolo grande colpo di scena finale.