Noi di Marassi, quartiere popolare ma non troppo di Genova, andavamo ai giochi alla Piastra, una lastra di cemento che copriva svogliatamente il torrente Bisagno. Dico svogliatamente perché era chiaro che gli architetti e gli ingegneri incaricati del progetto non avevano usato gran senso estetico. Era tutto un grigiore che con lo smog di via Bobbio, appena al di fuori del casello dell’autostrada di Genova Est, si anneriva visibilmente di anno in anno. Eppure era il nostro piccolo territorio, aperto a tutti: dai genitori con marmocchi che scorrazzavano pericolosamente vicino alla strada, ai preadolescenti indemoniati sui pattini, agli adolescenti che crescevano furtivi tra i cespugli a suon di baci umidi e impacciati, agli anziani che mugugnavano sulle panchine lamentandosi del governo, dell’economia, dei giovani e chissà di cos’altro ancora.
C’era sicuramente mio papà quando ho imparato ad andare in bicicletta. Forse per il suo spiccato amore per l’insegnamento, è stato lui il mio supervisore per tutto ciò che riguarda la locomozione – dodici anni dopo saremmo stati nei parcheggi della Piastra a mettere la prima e ingolfare la sua vecchia e pesantissima BMW, responsabile tutt’ora del mio rapporto così sofferto con la guida.
Avevo una biciclettina bianca rigorosamente di seconda o terza mano, e avevo già superato la fase rotelle: ne avevo tolta una e giravo sbilenca ma spavalda con l’altra sul lato destro. C’era anche una bambina che non conoscevo bene, ma che era lì per caso e aveva deciso di fare da spettatrice a questo momento epocale nella vita di una sua coetanea: forse anche lei stava imparando e voleva farsi coraggio, forse aveva già imparato e voleva fare coraggio a me. Stava vicina a mio papà guardando attenta ogni mossa e strillando eccitata ogni volta che facevo un metro senza mettere giù i piedi. Non ho idea di chi fosse e stranamente non ricordo nessun adulto con lei. C’era davvero? O è una proiezione adulta della mia voce interiore che mi diceva che ce l’avrei fatta?
Poco importa. Non so come superai la soglia volatile tra paura e coraggio, mi ricordo solo che a un certo punto stavo pedalando senza nemmeno la singola rotella e non mi ero resa conto che mio padre non mi stava più tenendo la sella, correndomi dietro tutto gobbo. La voce stridula della bambina mi aveva riportato alla realtà: «Ti ha lasciato, sei da sola! Ce l’hai fatta!».
Allora avevo inchiodato e messo giù i piedi, atterrita dalla mia audacia inavvertita. Ma aveva ragione lei, ero da sola e ce l’avevo fatta.
Forse è stato questo il momento in cui inconsciamente ho deciso che nella vita, anche da sola, ce l’avrei fatta. E quindi non mi sembrava una cosa così assurda andarmene di casa a diciott’anni per studiare a Londra, pur sempre aiutata e supportata dalla mia famiglia. E nemmeno lasciare il lavoro a ventisei per andare a fare volontariato in Malawi e viaggiare. E nemmeno tornare verso casa per mettermi a scrivere a ventinove. Sotto sotto, forse sapevo che tentare era già un po’ farcela.
La bicicletta poi me la sono dimenticata per anni, fin quando a Londra ne avevo trovata una mezza scassata di fianco a un cassonetto, avevo cambiato i freni, aggiunto un cestino davanti per la borsa gonfia di libri e mi ero avventurata tra le strade della città. All’inizio la usavo solo per andare in università, un tragitto tutto dritto di nemmeno dieci minuti. Poi avevo cominciato a usarla per andare a lavoro, scendendo terrorizzata quando dovevo attraversare la rotonda di Old Street con le sue tre corsie e i semafori, che in Inghilterra passano dal rosso al giallo al verde e danno la possibilità agli autisti di sgommare a tutta velocità appena il giallo preannuncia la possibilità di ripartenza.
C’erano le volte che mi beccava la pioggia e i capelli sotto il casco si trasformavano in un’inguardabile scodella crespa. Le volte che poi dovevo uscire con gli amici e mi portavo il cambio perché non volevo vestirmi “da bicicletta” quando tutti erano perennemente così giusti e appropriati, almeno ai miei occhi. C’erano le volte in cui avevo bevuto o fumato e tornavo a casa un po’ brilla o allegrotta, usando le stradine secondarie per evitare i maledetti autobus doppi su Seven Sisters Road. E c’è stata la volta di una delle peggiori vergogne della mia vita, quando avevo pedalato per cento metri sul marciapiede vuoto, attraversato la strada e trovato una poliziotta che, guardandomi accigliata, aveva ascoltato le mie patetiche scuse balbettate sul fatto che cercavo il pub dove dovevo raggiungere gli amici per la festa di Halloween, per questo pedalavo sul marciapiede con la faccia coperta di sangue finto e un lenzuolo avvolto al collo che sarebbe diventato il mio costume da fantasma. Devo averla impietosita abbastanza, perché alla fine la multa non me l’aveva fatta.
Poi un giorno era arrivata lei, Deloris. Sempre di seconda mano, passata dalla mia amica-animagemella-coinquilina improvvisa ma tempestiva, Alice. Deloris, come l’aveva chiamata lei, era nera con dettagli rosso fiammante, col manubrio da corsa e non aveva le marce. Amavo odiarla all’inizio perché mi faceva fare una fatica immensa sui finti piani londinesi, ma con lei andavo ovunque, fino in centro, sui canali, nei parchi. Avevo levato il cestino e barattato i libri dell’università con il portatile di lavoro, e nel frattempo era arrivato anche lo smartphone, così avevo smesso di usare le cartine ricopiate a mano su pezzetti di carta o le mappe locali alle fermate dei bus, che a tutto servono fuorché darti un’idea di dove sei.
Finché poco prima di lasciare Londra nel 2017 Deloris era finita preda dei ladri di biciclette dell’East London, che tanto terrore mietono a Hackney e dintorni tra ciclisti più e meno hip, con jeans arrotolato e cappellino di lana striminzito in testa. Con Alice, eravamo andate a cercarla a Brick Lane il giorno dopo, ma senza successo: in una notte l’avevano probabilmente smontata, ridipinta e rivenduto già le parti.
Vuoi perché non avevo più la bici, vuoi per gli anni di viaggio nel frattempo, del piacere di spingere i pedali, del vento che sibila tra il casco e i capelli e del lasciarsi il traffico alle spalle con una smorfia sorniona mi ero dimenticata quasi del tutto. Fino a quando un giorno di luglio 2019, in coma postpranzo siciliano di mia mamma, ho scoperto la storia di Daniele Tatta.
Daniele era nato nel 1878 a Itri, un piccolo paesino di montagna in provincia di Latina. Da bambino la sua famiglia era andata a Roma a cercar fortuna, e lì lui aveva imparato il mestiere del sarto. Daniele amava l’opera, tanto che chiamò le sue tre figlie con nomi presi dalle Valchirie di Wagner e dall’Amleto di Shakespeare: Brunilde, Siglinda e Ofelia. Anche se era un uomo d’altri tempi, non si era mai davvero conformato alle regole, e nel 1905, all’età di ventisette anni, invece di metter su famiglia, aveva deciso di stabilire un primato ciclistico, altra sua grande passione, tra Roma e Marsiglia: andata e ritorno per un totale di duemila chilometri in undici giorni, otto ore e venti minuti.
Paolo Vallini (proprietario verificato)
per chi nella vita si è posto la domanda: quanti chilometri al giorno potrei fare con la mia bicicletta e ci potrei fare un viaggio? Arianna risponde con un Roma Marsiglia sulle tracce del diario del suo bisnonno che aveva compiuto il viaggio in tempi lontani e su altre strade. E’ per l’appunto una sorta di viaggio nel tempo, alla ricerca di sè stessi, o meglio, di un pezzetto della propria storia. In fondo se oggi siamo qui, è anche merito di chi ci ha preceduto, no? Il libro di Arianna e fresco della scoperta di un modo nuovo di viaggiare, di avventure, rischi e persone meravigliose conosciute su percorso. E’ un libro che si legge bene e come valore aggiunto, dietro ha il progetto di 88bikes, ma questa è una storia nella storia. Brava Arianna! buona la prima! aspettiamo altri racconti!
Fabrizio Ligi Barboni (proprietario verificato)
Bello e profondo… “Prima del giro” di Arianna Meschia non è un semplice memoir e nemmeno l’ennesimo diario di viaggio che finisce per assomigliare a una lista di bed & breakfast e crampi. No. È un atto di resistenza poetica con le gambe dure e il cuore aperto, un pellegrinaggio laico su due ruote, un lento ma muscoloso inno alla memoria, al corpo e alla poesia, quella vera, fatta di pedali, fiatone e storie mai del tutto perdute.
C’è chi racconta un viaggio… e poi c’è chi è il viaggio. Arianna appartiene senza dubbio alla seconda categoria: non descrive semplicemente il tragitto, lo assorbe, lo fatica, lo mastica, e ce lo restituisce come una geografia intima fatta di sudore, ironia, dolore, dialetti, paesi e riti quotidiani (pedalata, musica e cibo in testa) che diventano visione del mondo.
Il punto di partenza è la figura del bisnonno Daniele, che nel 1905 attraversò l’Italia e la Francia da Roma a Marsiglia. Ma l’approdo, oggi, non è solo una città: è una persona. È Arianna stessa, che pedala verso la riscoperta di sé, del proprio corpo, del proprio posto nel tempo. La fatica diventa una lente d’ingrandimento sull’identità, la lentezza una forma di ribellione, la fragilità una verità da abbracciare invece che negare.
Il libro sembra essere attraversato dallo spirito di Fabrizio De André, che aleggia sopra le pagine come un santo laico in sandali e chitarra. In particolare, penso a “Smisurata preghiera”, che parla proprio di quelli che viaggiano “in direzione ostinata e contraria”: gli stessi che Arianna sembra voler ascoltare, raccontare, e a cui somiglia. Il viaggio, qui, non è evasione, ma fedeltà a una visione del mondo più lenta, più gentile, più umana. Meno performance, più respiro.
In un mondo che corre e spesso non sa nemmeno dove, Arianna rallenta. In un tempo che dimentica per contratto, lei ricorda. In una società che trasforma tutto in show, lei si mette in ascolto. Con uno sguardo affettuoso, ironico, dubbioso al punto giusto, mai paternalistico. Lei non guarda dall’alto: cammina (anzi, pedala) accanto. Non giudica, ma accoglie. E lo fa con una scrittura che è insieme lama e carezza.
Sì, alcune immagini e riflessioni ritornano nel testo più volte. Ma non per noia o ripetizione. È struttura. È ritmo. Come la corona della bicicletta che gira, e collega tutto: muscoli, catena, cuore, pensieri. Ogni ritorno è una nuova partenza. Ogni salita è una domanda. Ogni crampo una possibilità di comprensione. E anche un po’ di parolacce, perché la spiritualità, quando è vera, sa anche essere colorita.
La memoria, in questo libro, non è nostalgia. È un atto di disobbedienza poetica. È resistenza contro un presente che ci vuole veloci, efficienti, e smemorati. Arianna va a cercare dove nessuno cerca più: le storie che stanno ai margini, le briciole di passato che non fanno curriculum. E mentre pedala, scrive. E mentre scrive, resiste. Con la fatica come scelta, non come condanna.
Prima del giro non vuole intrattenere, ma accompagnare. Non semplifica, ma complica con cura. Non corre, ma trattiene. È un libro per chi sa, o sospetta, che il proprio ritmo interiore non coincida con quello imposto. Per chi ha bisogno di tornare indietro per andare avanti. Per chi non ha paura di sentire la fatica nei muscoli, nel cuore, o nelle parole. Per chi, magari senza saperlo, vive già in “direzione ostinata e contraria”.
Il suo stile è intimo e ironico, semplice ma mai banale. Non cerca effetti speciali: cerca effetti duraturi. Ogni tappa è un incontro con la Storia, con la gente, con sé stessa. Il cibo è ponte tra continenti, epoche e famiglie. La musica dà ritmo ai pensieri. Il silenzio, finalmente, parla.
Le ultime pagine le ho lette con le lacrime, quelle che ti scendono quando capisci che qualcuno, da qualche parte, ha messo nero su bianco anche una parte di te. Perché certi racconti non si chiudono quando il libro finisce: si custodiscono. E Prima del giro è uno di quelli. Una fatica luminosa che non si arrende. Una preghiera laica per tutto ciò che vale ancora la pena trattenere. Anche se fragile. Anche se fuori moda. Anche se fuori mappa.
Paolo Vallini (proprietario verificato)
Un’impresa nata per caso, un diario, una bicicletta… Non vedo l’ora di leggere l’avventura di Arianna! Conoscendola, credo sarà una sorpresa ad ogni pagina.
Gianluca Tedaldi (proprietario verificato)
Lo zio Daniele è stato un personaggio mitico nei ricordi famigliari, non solo per la sua impresa ciclistica ma anche come romano di Trastevere che aveva tutta la semplicità e la dignità delle persone di questo popolo che è una città nella città. Arianna, genovese per ragioni anagrafiche ma cittadina del mondo, lo fa scoprire all’umanità curiosa di storie inimitabili (anche se lei ci prova a ricalcarne le tracce sull’asfalto verso Marsiglia!)
Fabrizia Ugolini (proprietario verificato)
Conosco Arianna da molto tempo. Ormai è una giovane donna che ha una grande vivacità intellettuale. Quando scrive dei suoi viaggi e delle sue imprese nel sociale ti porta con sé. Sono impaziente di seguire il viaggio del suo bisnonno tramite la lettura di “Prima del Giro”
Lucia Notorio (proprietario verificato)
Ho seguito Arianna Meschia sin dai suoi primi allenamenti per affrontare e realizzare il sogno di seguire le orme del bisnonno.
È stato appassionante vedere come la determinazione e la perseveranza siano state determinanti nella lunga pedalata.
Sempre col sorriso, mi ha coinvolta emotivamente!
Ho condiviso (virtualmente) ogni pedalata, ogni tappa, e ora l’idea di leggere tutta la storia nel suo libro rende tutto più emozionante!
Quindi invito tutti a fare come me… preordinate il libro… fatevi coinvolgere dalla vulcanica Arianna!!!
Giulio Mangili (proprietario verificato)
Già una ragazza che s’ispira ad un bisnonno è meritevole di per sé. L’ Arianna Meschia lo fa pedalando da Roma a Marsiglia in solitudine, come fosse una Soldini della bicicletta e porta a compimento l’impresa nonostante fatica e difficoltà. In più con la finalità di poter far avere una bicicletta a ragazze in posti lontani che una bici, non un’auto, o uno scooter, ma una semplice bici non possono proprio permettersela… Ho detto tutto. Acquistate il libro! Subito, pedalate!
Isabella Cama (proprietario verificato)
Seguo il progetto di Arianna da molto tempo e non vedo l’ora di leggere il suo libro per proiettarmi nelle motivazioni e scoprire la determinazione che la spinge a intraprendere iniziative tanto ambiziose. Grande Arianna!!!
Beatrice Piazza (proprietario verificato)
Una grande giovane donna che merita di vedere la sua bellissima storia pubblicata!!!
Never give up Ari!! 🦾🦾🦾
Dany DB (proprietario verificato)
Ho letto l’anteprima tutto d’un fiato…pre ordine fatto e non vedo l’ora di poter leggere tutta l’avventura completa! Brava e coraggiosa Arianna!
Roberto Poltini (proprietario verificato)
Cos’è Prima del Giro? È un viaggio in bici da Roma a Marsiglia? È un progetto concepito durante un lockdown? È un atto di beneficenza a sostegno di 88 Bikes? È un libro sulla piattaforma Bookabook? E, se lo è, di cosa parla di preciso?
Beh… io non so cosa è… nonostante io sia la sorella dell’autrice 🤪 per questo non vedo l’ora di fare chiarezza grazie alla lettura di questo libro che ho comprato in pre ordine e che spero, grazie al sostegno di tutti voi, di veder presto pubblicato ed esposto nelle librerie d’Italia 💪🏻💪🏻💪🏻