Tutt’a un tratto il vento cominciò a soffiare e il cielo si coprì di nuvole. Succedeva spesso in quella stagione dell’anno, anche se il sole del mattino aveva lasciato sperare che il tempo non si sarebbe guastato. Per Alex non faceva nessuna differenza. In quel momento la sua testa era in orbita su Marte, dentro una sonda spaziale a milioni di chilometri da lì.
Quando iniziò a piovere, indossò la felpa che teneva sulle spalle e sollevò il cappuccio. Elisabeth, che camminava al suo fianco, aprì l’ombrello tascabile. «Tutto sommato è stato un bel funerale» gli disse, prendendolo sotto il braccio. Alex la guardò stupito. «Un bel funerale, mamma? Non mi sembra l’espressione più adatta.» Era stata una cerimonia molto semplice: due corone di fiori, un’omelia striminzita e una ventina di persone disseminate qua e là tra i banchi. Anche se Alex lo conosceva appena, non gli sembrava che Thomas Walsh avesse lasciato al mondo grandi rimpianti. «Già,» gli rispose Elisabeth riflettendo tra sé «povero signor Walsh.» Alex si chiese a cosa stesse pensando. Perché se ne era uscita con quell’osservazione bislacca? Lei alzò il bavero dell’impermeabile e annodò la sciarpa intorno al collo. Sospirò, stringendosi Alex al braccio. Più suo figlio cresceva, più le sembrava difficile trovare un modo per conversare con lui. Ripresero a camminare in silenzio, l’uno accanto all’altra, fino a che non giunsero in prossimità del ponte. Stavano per attraversare, quando il cellulare della donna squillò. Elisabeth passò l’ombrello ad Alex e prese il telefono dalla borsetta. «D’accordo…» disse, chiudendo in fretta la chiamata e guardando l’orologio. «Oddio, ma che ore si sono fatte? Scusami Alex, me ne ero completamente scordata. Prendo un taxi, sono già in ritardo.» «In ritardo per cosa?» «Una transazione.» Alex alzò la voce, sopra il rumore del vento. «Non dirai sul serio! E la conferenza?» Non ci poteva credere. Erano mesi che gli aveva fatto quella promessa! «Hai ragione, mi dispiace caro, mi dispiace davvero. Sarà per la prossima volta.» «Cioè al prossimo funerale!» «Che sciocco sei,» lo rimproverò Elisabeth «non sono cose su cui scherzare.» Nell’ultimo tratto di strada non si dissero neppure una parola, ciascuno immerso nei propri pensieri. Quindi la donna fermò un taxi agitando una mano e lo salutò baciandolo frettolosamente sulla guancia. Lui restò fermo sotto il portone di casa mentre lei si infilava sul sedile posteriore. Quando il taxi si avviò, Elisabeth richiamò la sua attenzione picchiettando sul vetro del finestrino e gli disse qualcosa, muovendo appena le labbra. «Ricordati di chiamare papà.» Alex le rispose con un cenno del capo e rimase a guardare l’auto allontanarsi nel traffico caotico di Dublino. Nell’appartamento, Linda aveva lasciato il tavolo già apparecchiato per la cena. C’erano una torta salata e una zuppa di granchi da scaldare sui fornelli. Anche se erano solo le tre del pomeriggio, ad Alex venne fame. Aprì la dispensa e tirò fuori un grosso pezzo di pane nero che spalmò di burro salato e divorò all’istante. Quindi ne preparò una seconda fetta, riempì un bicchiere di latte fresco e mise il tutto sopra a un vassoio. Solo a questo punto si accorse che aveva gli abiti bagnati. Fece un salto in bagno, gettò la felpa e i pantaloni nella vasca, si infilò un paio di calzoncini ed entrò nello studio di sua madre con il vassoio in mano. Il computer ci mise un paio di minuti prima di avviarsi. Al termine degli aggiornamenti, quando le icone apparvero sul desktop, Alex attivò la videocamera e aprì l’applicazione: c’erano almeno una decina di chiamate senza risposta. Cliccò sulla scritta Lorenzo Moretti e, dopo un paio di squilli, il viso raggiante di suo padre riempì la schermata. «Alex! Finalmente!» «Immagino che il pulcino abbia rotto l’uovo…» «Ah ah ah! Esatto! È nata due ore fa.» «Hai una figlia nuova adesso.» «Vuoi sapere quanto pesa?» «Sentiamo.» «Tre chili e quattrocento grammi. Elisabeth ti ha detto come si chiama?» «No,» rispose Alex con una punta di sarcasmo «ma immagino che tu non veda l’ora di farlo.» L’uomo pensò di aver inteso male, l’inglese non era la sua lingua madre e non sempre era in grado di cogliere le sfumature. Ma era vero, Alex non sentiva un grande trasporto per la piccola sconosciuta. «Certo che lo voglio sapere,» cercò di rimediare «è una specie di sorella per me. Giusto?» «Si chiama Giulia ed è tua sorella a tutti gli effetti. Vuoi vederla?» Il suono del computer gli annunciò che suo padre aveva già postato la foto. Era uno scatto sfocato, probabilmente il primo dopo la nascita della bambina: Clara si trovava in un letto di ospedale, il viso così provato che Alex stentò a riconoscerla. Tra le braccia stringeva una coperta dalla quale uscivano soltanto una piccola testa piena di capelli neri e una manina. «L’hai vista? Non è bellissima?» «Vedo solo un involtino…» Dal computer arrivarono a raffica altre foto. «Okay, fermati, è bellissima.» «È tua sorella, ricordalo… Devo lasciarti, mi chiamano di là. Ti voglio bene.» «Ti voglio bene anch’io. Salutami Clara.» Che giornata, pensò Alex addentando la fetta di pane: pioveva, sua madre non aveva mantenuto la promessa e suo padre era improvvisamente impazzito per quella bambina. Ah già, e c’era stato anche un bel funerale. Spense il computer e decise di farsi una doccia. In quello stesso istante Liam uscì dalla biblioteca. Ancora una volta si era lasciato prendere la mano e aveva fatto tardi senza nemmeno accorgersi che la pioggia cadeva a dirotto già da un’ora. Senza ombrello, si mise a correre sperando che il negozio di alimentari non avesse chiuso i battenti. Qualche minuto dopo, con il sacchetto fradicio tra le mani, suonò alla porta di casa. «Liam!» Briana gli fece cenno di fermarsi sulla soglia. Il ragazzo le porse la borsa, allargò le braccia e strusciò le scarpe bagnate sullo zerbino. «Che fenomeno che sei. Non conosco nessun altro che torni a casa a quest’ora da scuola. Be’, almeno questa volta ti sei ricordato di ritirare la spesa.» «Non posso farci niente se mi diverto a studiare. Non mi sembra grave.» Briana gli porse un accappatoio. «A me invece preoccupa. Dico seriamente, Liam: non hai amici, non fai sport… Tieni, asciugati.» «Gli sport non mi interessano. Sai che non mi sento a mio agio in quest’epoca storica.» «Senti, senti… Peccato che tu ci sia nato. Ne dovresti tenere conto… Che cosa hai studiato?» «Mi sono documentato.» «Su quale argomento?» Liam la guardò da sotto gli occhiali. «Davvero ti interessa? Che cosa te lo dico a fare? Non credo tu ne abbia sentito mai parlare.» «Mettimi alla prova.» «D’accordo allora. Ho fatto una ricerca sul Grand Tour per la relazione che devo presentare domani.» «Il Grand Tour, certo.» «Sai di cosa si tratta?» «Era una specie di giro turistico in voga nel passato.» «Non esattamente. Era un viaggio culturale che completava la formazione dei giovani aristocratici inglesi nel XVIII secolo.» «Sì, sì giusto, un viaggio attraverso le città più importanti per quei tempi: Parigi, Venezia…» «Firenze, Roma, Pompei…» «Non credo che sarebbe stato alla nostra portata neanche se fossimo nati nel XVIII secolo.» «Al giorno d’oggi basta andare in biblioteca o accendere un computer per vedere tutto questo. Ma un tempo non era così, viaggiare era l’unico modo per ammirare con i propri occhi quello che si poteva solo leggere descritto nei libri.» Capitolo uno Il primo quarto di luna 15 Briana osservò le lentiggini sul volto di suo figlio. Era un ragazzo intelligente e non aveva mai avuto niente da rimproverargli, ma non faceva che passare il tempo in biblioteca a pensare al passato. Non era normale per la sua età. L’edificio scolastico si affacciava sul fiume Liffey. Con la sua struttura leggera, realizzata in vetro e acciaio, era un bell’esempio di architettura moderna inserita nel contesto urbano. Di sicuro, però, chi aveva progettato quelle grandi pareti vetrate non aveva previsto l’effetto catartico che avrebbero avuto sui ragazzi. La splendida vista che si godeva da ogni aula, il volo dei gabbiani, le bandiere sventolanti degli hotel, le scie degli aerei, qualunque cosa si muovesse là fuori era più interessante dell’ora di lezione e, quella mattina, della relazione di Liam. L’idea del Grand Tour, per quanto apprezzata dal professore, non aveva riscosso lo stesso successo tra i suoi compagni. A parte un paio di secchioni ai primi banchi, gli altri conversavano tra loro come se niente fosse. «Era costume che ogni giovane aristocratico, terminati gli studi…» Da un gruppetto in fondo all’aula provenne una risata. Il professore, che fino a quel momento aveva tollerato il cicaleccio, fece cenno a Liam di fermarsi. «Avanti ragazzi, fate ridere anche noi. Alex, per cortesia, vorresti voltarti da questa parte?» Alex si girò. I capelli divisi dalla riga nel mezzo, i baffetti disegnati sopra il labbro con il pennarello: era il ritratto del giovane rampollo che Liam stava descrivendo nella sua relazione. Un rotolino di nastro adesivo gli cadde sul banco. «Vogliate scusare,» disse il ragazzo imperterrito «ho perso il monocolo.» «Molto, molto divertente signor Moretti,» fece il professore tra le risate dei compagni «mi fa piacere che sia stato attento. Liam: ottimo lavoro, torna pure al banco. Alex, vuoi prendere il suo posto? Sono proprio curioso di conoscere la tua idea di viaggio ideale.» Alex si ripulì i segni di pennarello con il dorso della mano, scompigliò i capelli con le dita e, sventolando il foglietto sul quale era scritta la sua breve relazione, si alzò dal banco. Le ragazze lo guardarono ammirate. Era proprio un bel tipo: gli occhi chiari, i capelli castani… «Dunque…» iniziò, rigirandosi gli appunti tra le mani. «Tranquillo, non c’è bisogno di leggere, usa pure le tue parole.» «Ok, allora… ecco qua: “Qui Apollo 11… Houston, mi sentite?!”»
CAPITOLO DUE
«… settantotto, settantanove, ottanta…» La donna si appoggiò al corrimano. Si era fatta quattro piani di scale a piedi, ma non avrebbe preso l’ascensore neanche se si fosse trattato di scalare l’Himalaya. Figurarsi! Per restare bloccata come quella volta che avevano chiamato i pompieri. Anche se i vicini giuravano che quella storia fosse frutto della sua immaginazione. Non le era nemmeno passato per la mente che, sovrappeso com’era, rischiava di più a fare le scale. Quando si fu ripresa, con il cuore che le batteva ancora nel petto e il viso paonazzo, si appoggiò alla porta e suonò il campanello. «Santo cielo, signorina Walsh, non mi dica che è salita a piedi!» esclamò Linda vedendola in quello stato. «Centoventi scalini. Ci può giurare. Sono ancora in gamba, altroché. Eh, i giovani d’oggi non sanno quanto faccia bene fare le scale.» Linda trattenne una risata. Isabel Walsh non avrebbe mai confessato a nessuno il suo terrore per gli ascensori. La ragazza le indicò una poltroncina e le offrì un bicchiere d’acqua. Quando si fu rimessa ed ebbe ripreso fiato, la donna aprì la voluminosa borsetta che teneva in grembo. «Ecco, sono venuta solo per consegnare questa» disse, estraendo una busta gialla che appoggiò sul tavolino accanto al bicchiere. «No, non è per la signora. È per suo figlio Alex, da parte di mio fratello… il defunto» precisò. «Oh sì, mi spiace e mi scusi… non le ho ancora fatto le condoglianze.» A quelle parole Isabel trasse dalla borsa un fazzolettino bianco con il quale si asciugò gli occhi lucidi e si soffiò il naso. Santo cielo, pensò Linda, notando il ricamo con le iniziali, non si usa più ricamare i fazzoletti da almeno cinquant’anni! «Grazie cara» rispose la signorina Walsh, tornando subito alla questione per la quale era venuta: «Mi raccomando, deve consegnarla proprio ad Alex. Era… la sua volontà». Alex conosceva appena il defunto signor Walsh, motivo per cui, quando Linda gli mise tra le mani la busta, non solo si chiese cosa potesse contenere, ma anche se la sorella del defunto non si fosse sbagliata. Il suo indirizzo era scritto a chiare lettere nello spazio riservato al destinatario. Anzi, la scrittura era così precisa che non sembrava affatto quella di un malato. Forse, pensò, la busta era stata preparata tempo prima, oppure era stata Isabel Walsh a scriverci sopra il suo nome e il suo indirizzo. L’avvicinò al naso e sentì che odorava di naftalina come un vecchio armadio. Non restava che aprirla… Dentro trovò una cartellina verde simile a quelle che si usano per conservare i disegni, all’interno della quale, protetto da due fogli di carta assorbente, c’era un manoscritto. In alto, a margine, era riportata una data: 20 luglio 1630. Fece un rapido calcolo: quel foglio aveva quasi quattrocento anni! C’era una sola persona al mondo alla quale in quel momento desiderava mostrarlo e sapeva dove trovarla. Liam stava consultando un grosso volume che il bibliotecario gli aveva consegnato di persona appoggiandolo cautamente sul banco. Anche se non era tra quelli di maggior pregio, il ragazzo si era sentito onorato. Certo, se fosse stato possibile, avrebbe preferito sfogliare una delle edizioni precedenti, ma i libri antichi potevano essere consultati solo dagli adulti. Era totalmente immerso nella lettura quando Alex, col suo passo pesante e il tintinnio delle chiavi attaccate ai pantaloni, entrò nella sala. Arrivato davanti a lui, lasciò cadere rumorosamente lo zaino. Una decina di sguardi ostili si posarono sui due ragazzi. «Ma sei scemo?» sussultò Liam. «Devo farti vedere una cosa.» «Shhhh!» sibilò uno studente attempato. «Non qui, usciamo.» Sul lato opposto rispetto all’ingresso si apriva un vasto giardino con ampi spazi verdi e aiuole di tulipani. I due si avviarono verso una vasca di sasso dentro la quale nuotavano dei grossi pesci rossi chiazzati di bianco. Un rospo prendeva il sole su una foglia di ninfea. «Cos’è questa novità?» chiese Liam sedendosi su una panchina. «Siamo amici, no?» «Ah sì, davvero?» «Ci conosciamo da una vita però.» «Dì piuttosto che sono quello che stamattina hai messo alla berlina davanti al resto della classe.» «Scusa che cos’è questa berlina?» Si conoscevano dalle elementari e a Liam Alex non stava simpatico. C’era qualcosa in lui che non sopportava. Si chiedeva come mai quel tipo piacesse a tutti anche se non faceva nulla per meritarselo: le ragazze non avevano occhi che per lui, era quasi sempre impreparato eppure rimediava ogni anno la promozione… «Non dirmi che te la sei presa per lo scherzo di stamattina. Alla fine era solo un modo per aiutarti a rendere più interessante quella storia del Grand Tour. Comunque, se ci sei rimasto male… fai conto che sono venuto da te per farmi perdonare.» «Mi stai chiedendo scusa?» «Se ci tieni… Ecco, guarda cosa ti ho portato» disse, sventolando la busta. Liam non riusciva a capire. Per un attimo pensò che si trattasse di un altro scherzo. Ma Alex sembrava serissimo. Tolse dalla busta la cartella verde, sciolse i nastri che la tenevano legata ed estrasse con cura il manoscritto. Liam sollevò gli occhiali sul naso. Non riusciva a credere ai propri occhi. Quel foglio era datato 1630! «Perbacco!» esclamò. Alex rise. «E adesso che c’è?» «No, no, è che… solo tu potevi dire perbacco! Cavoli, Liam, sei così permaloso!» Ma il compagno era troppo interessato al manoscritto per proseguire nelle schermaglie. «È molto antico» commentò Alex. «Sei un genio, mi sorprendi. Mi sai anche dire di cosa si tratta?» «Aspettavo che me lo dicessi tu. Per questo te l’ho portato.» «Innanzitutto non dovresti tenerlo tra le mani, si può rovinare. Rimettiamolo nella cartellina, sul foglio di carta assorbente.» «E allora?» «Posso escludere che sia scritto in inglese,» disse, osservando affascinato il testo senza capirci nulla, «e tutti questi svolazzi lo rendono difficile da decifrare.» Mentre Liam parlava, un biglietto scivolò fuori dalla busta che Alex teneva capovolta tra le mani. «E quello cos’è?» «Non ne ho idea, pensavo che qui dentro ci fosse solo la cartellina.» Liam lo raccolse e iniziò a leggerlo a voce alta: «Caro Alex, in questa busta troverai un manoscritto che non mi appartiene. Ti chiedo per cortesia di riconsegnarlo alla Biblioteca Nazionale di Firenze, alla quale l’ho sottratto quasi mezzo secolo fa. Non ho mai trovato il coraggio di farlo di persona. Ti prego di restituirlo senza fare il mio nome e di non dire a nessuno in quali circostanze ne sei entrato in possesso. Conservalo con cura fino a quando non sarai in Italia. So che sei un bravo ragazzo, – Liam alzò gli occhi al cielo – mi auguro perciò che farai il possibile per esaudire queste mie ultime volontà. Thomas Walsh. E questo è tutto» fece Liam consegnando il biglietto nelle mani di Alex. «Sappi che, chiunque sia questo Thomas Walsh, sei già riuscito a deludere le sue aspettative.» «In che senso?» «Nel senso che lui ti ha chiesto di non dirlo a nessuno e invece… insomma, io l’ho letto e quindi so tutto quello che non dovrei sapere: del furto, della restituzione, della Biblioteca Nazionale di Firenze…» si interruppe improvvisamente e si batté una mano sulla fronte. «Che ti prende?» chiese Alex. «Non capisci? Quella lingua incomprensibile… Il manoscritto è in italiano!» «Italiano? Ne sei sicuro? Io parlo italiano eppure non ci capisco niente.» «Non riesci a leggerlo perché è stato scritto quattrocento anni fa e non mi sembra che tu sia all’altezza della traduzione.» «Mi sa che hai ragione,» rifletté Alex, rimettendo il manoscritto insieme alla lettera nella cartellina verde «cioè, riguardo al fatto che è in italiano… Vedi qui sotto? C’è scritto 20 luglio 1630 e la parola luglio sono riuscito a leggerla. Poco fa devo averla tradotta senza rendermene conto. Vieni, dobbiamo andare a trovare la signorina Walsh.» Liam non fece nessuna obiezione: avrebbe seguito quel manoscritto in capo al mondo e non gli importava se adesso si trovava nelle mani di Alex. Ogni questione tra loro poteva essere rimandata a data da destinarsi. Isabel Walsh stava sistemando l’orlo di un paio di pantaloni. Faceva la sarta da molti anni, ma la seta era ancora la sua disperazione. Era più forte di lei: la stoffa blu che le scivolava tra le dita la faceva diventare pazza. Nonostante portasse gli occhiali, ci vedeva sempre meno. Quando sentì suonare il campanello, anziché irritarsi fu sollevata. Lasciò cadere il cucito dentro un grande cesto di vimini e, appoggiato un braccio al tavolo, si alzò faticosamente per andare ad aprire. Sulla soglia c’erano Alex Moretti e un ragazzo col viso coperto di efelidi che non aveva mai visto prima. Era passata poco più di un’ora da quando aveva lasciato la busta nelle mani di Linda, ma non sembrò affatto sorpresa di quella visita. Intanto, lungo il tragitto, Liam aveva cercato di capire quale legame ci fosse tra il defunto Thomas Walsh e il suo compagno di classe: perché quell’uomo aveva scelto di affidare proprio a lui il prezioso manoscritto? Lo stesso Alex non riusciva a spiegarselo. La donna si mise subito a trafficare con un bollitore elettrico. I ragazzi si scambiarono un’occhiata: non avevano l’abitudine di bere il tè a quell’ora. «Mi scusi, signorina Walsh, ma preferirei qualcosa di fresco» disse Alex. «Ma certo, che sciocca» rispose Isabel aprendo un frigorifero ben rifornito. «Quella va benissimo.» «E a te cosa posso offrire?» «Io bevo volentieri il tè» rispose rassegnato Liam, indicando il bollitore e le tazze già pronte sul tavolo. Isabel accomodò la sua imponente mole su una piccola sedia di legno bianco sulla quale sembrava sentirsi perfettamente a suo agio. Aggiunse al suo tè del latte fresco e tre abbondanti cucchiaini di zucchero che prese a girare vorticosamente facendo tintinnare la porcellana.
CAPITOLO TRE
Firenze, novembre 1966 Helena tirò indietro la frangia e una ditata le restò impressa sulla fronte. Si girò verso Greta e lasciò che la ragazza le posasse sulle braccia una pila di volumi fradici di fango, quindi si voltò di nuovo e adagiò il suo carico sulle braccia robuste di Tom. Lui esitò un attimo, restando incantato a guardarla: aveva dei bellissimi capelli neri, il viso ovale, l’espressione sbarazzina, accentuata dal nastro annodato dietro la testa. Si muoveva con la grazia di una farfalla, nonostante gli stivali di gomma troppo grandi. Helena rise e si girò di nuovo verso la compagna che aspettava con le braccia tese. Anche quel giorno non si erano certo risparmiati. Nei sotterranei della Biblioteca Nazionale decine di ragazzi, poco più che ventenni, erano immersi da ore nel fango, le unghie spezzate, i maglioni incrostati, il freddo e l’umidità che penetravano nelle ossa. Helena era una che non mollava mai: avrebbe lavorato ventiquattr’ore di fila se glielo avessero chiesto. Ogni sera, però, il buio e la stanchezza costringevano l’intera squadra a fermarsi. Lei rientrava nel piccolo appartamento che condivideva con le compagne, Tom invece alla stazione di Campo di Marte, nei vagoni privi di elettricità e riscaldamento che erano stati allestiti per ospitare i volontari. Tutto era iniziato il 4 novembre 1966, quando a Firenze la piena dell’Arno aveva rotto la spalletta di piazza Cavalleggeri e l’intero quartiere di Santa Croce era stato sommerso da un’onda di acqua, nafta e fango alta sei metri; un mostro giallo e nero che avanzava impetuosamente, distruggendo ogni cosa. Per tre giorni il centro storico era rimasto sommerso, insieme a gran parte del suo patrimonio artistico e culturale. Da subito migliaia di volontari si erano mobilitati, accorrendo spontaneamente da ogni parte del mondo, per aiutare la città e salvare i suoi capolavori. Firenze era in ginocchio. Nonostante gli sforzi, molte opere d’arte erano andate perdute insieme a centinaia di negozi e di botteghe. Le carcasse delle automobili giacevano ovunque, nelle strade invase da montagne di detriti. Nelle stanze della Biblioteca Nazionale oltre tremila tonnellate di opere, tra cui migliaia di preziosi volumi e antichi manoscritti, dovevano essere estratte a una a una dal fango. Ciò che si poteva ancora recuperare andava ripulito, lavato e asciugato, pagina per pagina. Non era facile coordinare i volontari in quella torre di Babele. Per far comprendere in ogni lingua ciò che bisognava fare, erano stati usati i simboli dei segnali stradali: stop, pericolo, per di qua, per di là. I cartelli erano affissi in ogni angolo. In quel momento non c’era bisogno di sapere altro, bisognava solo orientarsi e imitare i compagni. Nessuno adesso li chiamava più “capelloni”, ma “angeli del fango”; erano ragazzi che ascoltavano musica rumorosa ma lavoravano sodo accontentandosi di dormire in un sacco a pelo senza pretendere nulla in cambio. Tom aveva incontrato Helena subito dopo il suo arrivo alla stazione di Santa Maria Novella, quando si era presentato al centro di coordinamento ed era stato destinato insieme a lei alla Biblioteca Nazionale. In quei primi giorni la marea d’acqua, che aveva costretto i soccorritori a utilizzare le barche per spostarsi da un quartiere all’altro, si era ritirata; ma molte zone erano ancora raggiungibili soltanto con gli stivali. Lui e Helena avevano lavorato sempre insieme facendo il passamano per portare in salvo i volumi più preziosi. Parlavano la stessa lingua, cosa che a Tom, in quella confusione, pareva un miracolo. Helena, pur essendo americana, studiava architettura a Firenze da quasi un anno ed era stata tra i primi ad accorrere alla Biblioteca Nazionale. Si era stupita che quel ragazzo irlandese fosse arrivato così in fretta da Dublino; avrebbe voluto conoscere la sua storia, ma durante il lavoro c’era poco tempo per conversare. Così, una sera, lo aveva invitato nell’appartamento che condivideva con le amiche sull’altra sponda dell’Arno. C’erano una decina di ragazzi e ragazze, e Tom, che suonava la chitarra, aveva improvvisato una ballata. «Sei simpatico,» gli aveva detto lei quando erano rimasti soli «mi farebbe piacere rivederti.» Perché aspettare? Si erano dati appuntamento il mattino successivo in un caffè del centro dove avevano chiacchierato a lungo e piacevolmente. Prima di uscire Tom le aveva dedicato delle rime, scrivendole di getto su un tovagliolo di carta. Da quel loro incontro si erano ritrovati ogni giorno, prima di recarsi al lavoro, e quei pochi versi erano diventati una canzone. Adesso Helena lo prendeva allegramente sotto il braccio, lo considerava il suo migliore amico e lo chiamava “il mio poeta”. Ma i sentimenti che Tom provava per lei erano diventati qualcosa di più importante. Avrebbe voluto parlargliene, prima che le loro strade tornassero a dividersi, ma non trovava il coraggio. Una sera, mentre il sole era ancora basso all’orizzonte, la riaccompagnò a casa. Faceva talmente freddo che Helena tremava sotto il poncho di lana. Stavano camminando lungo il fiume e l’acqua cominciò a tingersi di un rosso vermiglio contornato da riflessi di nuvole viola. Tom la cinse con un braccio per scaldarla. Sarebbe stato il momento perfetto per esprimerle ciò che provava, ma nemmeno davanti a quel tramonto ci riuscì. Quando si salutarono, stavano già calando le ombre della notte. Tom decise che le avrebbe parlato l’indomani mattina, guardandola negli occhi. Ma il giorno seguente Helena non c’era. Capitolo tre Il primo quarto di luna 29 L’aspettò invano sulla porta del caffè. Durante il lavoro cercò di pensare ad altro. A pranzo mangiò un panino, seduto sopra un mucchio di segatura che era stata utilizzata per asciugare i libri. Forse non si era sentita bene? Quando finalmente andò a cercarla a casa trovò solo Greta, la coinquilina che parlava tedesco. Così dovette aspettare l’arrivo di Susan per sapere che Helena era partita quella mattina e non sarebbe più tornata. «Ma come? Così all’improvviso?» La ragazza gli disse che in realtà Helena aveva prolungato la sua permanenza a Firenze di un mese, a causa dell’alluvione, ma aveva le valigie già pronte. Non glielo aveva detto? I suoi genitori si trovavano in Europa. Helena li aspettava per raggiungere insieme la Francia e far ritorno negli Stati Uniti da Parigi. Suo padre le aveva fatto una sorpresa quella mattina presentandosi prima del previsto. Tom era incredulo: ripensò al tramonto del giorno precedente e si convinse di aver perso l’occasione della sua vita. Firenze non aveva più senso senza Helena. Nelle settimane che seguirono non provò nemmeno per un momento l’entusiasmo che aveva quando era arrivato. Chiese e ottenne di cambiare mansioni. Fu trasferito ai piani superiori, dove i volumi venivano ripuliti dal fango. Il suo compito adesso era di togliere le incrostazioni con l’aiuto di un coltellino, una spugnetta e una scodella d’acqua. Era un lavoro noioso e certosino, ma almeno gli veniva risparmiato il passamano senza Helena. Un giorno, mentre teneva tra le mani un breviario, si accorse di un manoscritto che spuntava dal piatto posteriore della vecchia copertina. Osservò stupito quello strano nascondiglio e sfilò piano il foglio dal risvolto nel quale era stato infilato. E a questo punto fece una cosa veramente strana, sulla quale si sarebbe interrogato per il resto della vita: lo infilò in una tasca e se ne dimenticò. Isabel si soffiò rumorosamente il naso nel fazzoletto ricamato. «Scusatemi ragazzi» disse. «Ci scusi lei,» rispose Liam «ci spiace per la perdita di suo fratello.» «Come sei sensibile… Come hai detto ti chiami? In realtà non sto piangendo per Tom… cioè sì, intendo dire… è che questa storia è così romantica! Non trovate?» Alex trattenne una risatina. Secondo lui la storia d’amore tra Thomas Walsh e questa Helena – se storia d’amore si poteva chiamare – era una cosa un po’ da sfigati. Pensò che il fratello le avesse raccontato tutti quei particolari solo per giustificarsi di ciò che aveva fatto. Isabel bevve un sorso di tè e indicò a Liam che la sua tazza era ancora piena, come a dire: non fare complimenti che si fredda. Liam sorseggiò a sua volta. «Grazie per il racconto Isabel, ora mi è tutto chiaro» disse Alex, facendo cenno di alzarsi dopo aver scolato il fondo dell’aranciata. «Aspetta un attimo» gli disse Liam posando la tazza. Aveva ancora una domanda da fare a Isabel. «Non capisco perché suo fratello abbia scelto di consegnare il manoscritto proprio ad Alex.» «Ah già, dimenticavo… Dovete sapere che dopo quella delusione d’amore Tom non fece più ritorno in Irlanda. Per alcuni anni girò il mondo suonando la chitarra e componendo canzoni. Poi si stabilì definitivamente in Australia dove divenne abbastanza famoso. Ma non mise mai su famiglia. Credo che quella storia con Helena lo abbia segnato profondamente.» La donna tirò un sospiro, Liam la guardò impaziente. «Ovunque andasse, mio fratello portava quella cartellina sempre con sé. Ogni tanto l’apriva e controllava che il contenuto fosse ancora intatto, ma non lo mostrò mai a nessuno e non ebbe mai il coraggio di raccontare ciò che aveva fatto. Io stessa ne sono venuta a conoscenza solo poco tempo prima che morisse. Insomma quel… foglio non gli è mai servito a niente. Era un peso che portava sulla coscienza dal momento in cui lo aveva rubato. Tom usava proprio questa parola, rubato, anche se io credo che non lo avesse messo in tasca di proposito e che in quei giorni non fosse più lui, capite? Cioè, era lui, ma allo stesso tempo non era lui.» «Ma perché ha scelto proprio Alex per restituirlo?» «Ti ricordi, Alex? Quando mio fratello si ammalò, venne a vivere in questa casa. Circa un anno fa, quando tua madre mi portò quel meraviglioso abito rosso da sistemare… è così che vi siete conosciuti. Un giorno trovasti una banconota sulle scale. Avresti potuto tenerla, non si poteva risalire a chi l’aveva perduta, ma tu volevi a tutti i costi restituirla. Ecco, credo sia stato per questo. Oltre al fatto, naturalmente, che tuo padre vive a Firenze…» Liam guardò Alex con gli occhi sgranati. «Tuo padre vive a Firenze? E perché non me lo hai detto?»
Anna Danielon (proprietario verificato)
La ringrazio per aver letto il libro e per il prezioso commento. In effetti “Il primo quarto di luna” è un libro della collana Bookabook per i ragazzi, particolarmente indicato come lettura per le scuole medie.
asiapaglino
I protagonisti della storia sono Alex e Liam, due amici d’infanzia a cui viene data una busta legata alla sola richiesta di portare il suo contenuto alla Biblioteca Nazionale di Firenze.
Serve poco ai due ragazzi per capire che quel “semplice” foglio da recapitare in realtà potrebbe nascondere o significare ben altro e quindi, spinti dalla curiosità mista all’eccitazione per la nuova avventura, iniziano a fare ricerche per capire quali siano le origini di quel manoscritto.
Credo che chiunque da bambino abbia sognato almeno una volta di trovare un tesoro inaspettato e scoprire magari che fosse legato a qualche personaggio importante del passato o alla propria famiglia e alla propria storia; è proprio questa cosa che più mi ha incuriosita e mi ha spinta ad iniziare il libro.
Lo stile di scrittura del romanzo è sicuramente scorrevole, l’unica cosa è che in alcuni momenti si ha quasi l’impressione che il libro sia stato scritto per un pubblico di ragazzi e non di adulti; per il resto libro carino.