Il viaggio di Virginia Maltesi inizia senza quasi muovere un passo: sogna; intorno a sé scorge luoghi dal sapore medievale, un paesaggio che sembra estendersi all’infinito e un misterioso viandante, ma man mano che i minuti passano l’atmosfera diventa sempre più inquietante e angosciosa.
Chi è l’uomo? Cosa sta cercando, su per la montagna? E perché, in mezzo alla nuda roccia, c’è una porta?
Da semplice spettatrice, Virginia diventa sempre più protagonista, fino a scoprire che il passaggio cela un mondo che non vuole essere svelato, fatto di uomini disposti a tutto pur di rimanere nascosti.
Il vaso di Pandora
Nonostante la stanza fosse nel buio più profondo, ero riuscita a spalancare gli occhi e, avendo ancora i muscoli intorpiditi dal sonno, con non poca fatica riuscii a sollevare le braccia. Restando supina provai a passarmi le mani sul volto; non le vedevo, ma sapevo che erano a pochi centimetri dai miei occhi. Non avevo la minima idea di cosa sperassi di osservare. Percepii la fronte imperlata di sudore e, con vigorosi movimenti circolari, incominciai a massaggiarla. Al tatto era calda, umida e, fino a un istante prima, era stata anche piena di brutti e maleodoranti incubi. Poteva essere paragonata a un gigantesco muro, dietro al quale si annidasse una discarica piena di paure e ansie nascoste, che col tempo stavano rilasciando delle esalazioni.
Anche se ero circondata dall’oscurità, mi sembrava di avere la vista appannata: era come se una fetta di vapore si fosse appoggiata sulla mia pupilla, restituendomi un mondo interamente costruito da aloni.
Negli ultimi tempi continuavo a svegliarmi a intermittenza nel cuore della notte ed era ogni volta la medesima storia. Avevo le mani sulla testa, la vista offuscata e il respiro pesante come se qualcosa dovesse uscirmi dal cranio. Cercavo di spingere fuori queste strane sensazioni, come se mi trovassi in sala parto, con la differenza che queste restavano sempre dentro di me.
Non mi sentivo particolarmente in forma e questi sogni non facevano che acuire il mio malessere e le mie precarie condizioni di salute. Non ne conoscevo né il motivo né il significato. So soltanto che la notte, quando appoggiavo la testa sul cuscino e chiudevo gli occhi, qualcosa si scatenava nel mio cervello. Questo veniva attraversato da qualcosa simile a un fulmine la cui energia sembrava spalancare impetuosamente la scatola in cui riponevo tutti i miei sogni, i miei desideri, le mie conoscenze e le mie paure.
Ogni notte queste sensazioni si dimenavano nella mia mente impazzita e, come un’araba fenice, nasceva sempre e comunque qualcosa di splendidamente opprimente. È una cosa difficile da spiegare, però succedeva e non sapevo più cosa fare.
Non sono mai stata una donna religiosa, eppure da un po’ di tempo avevano fatto la loro comparsa sul mio comodino un crocifisso e un santino dell’arcangelo Raffaele, il protettore dei viandanti.
Erano di fianco al mio letto e ogni volta che sistemavo la testa sul cuscino mi voltavo a guardarli. Alle volte non li vedevo, altre li scorgevo in penombra, ma sapere che erano lì mi trasmetteva una piccola sicurezza.
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La voce incisa sull’audiocassetta trasse un lungo sospiro, emise alcune esclamazioni incomprensibili e poi sprofondò in un improvviso silenzio. In quel momento si udiva soltanto il rumore del registratore che continuava a incidere senza sosta. La pausa sembrava non finisse mai e passarono molti istanti prima che la voce ricominciasse a parlare.
Da qualche tempo non potevo fare a meno di pensare a un aforisma di Jim Morrison, di una semplicità disarmante eppure utilissimo in più di una circostanza: “Sogna, perché nel sonno puoi trovare quello che il giorno non ti può dare”.
Quella notte la voce e il respiro della donna erano immensamente pesanti. Nonostante la paura, però, il suo tono era cristallino. Durante le pause il registratore continuava a incidere sul nastro magnetico il suo affanno. Sembrava che stesse correndo la maratona di New York, mentre si trovava in un letto di Ascoli Piceno.
Quello che diceva l’idolo del rock psichedelico era terribilmente vero. Infatti, in tutti i miei sogni ero ciò che volevo… ciò che desideravo. Insomma, quello che nella vita di tutti i giorni non potevo neanche lontanamente immaginare di essere.
Generalmente, nello svolgimento delle mie attività oniriche vi era un denominatore comune, qualcosa di ripetitivo che si sposava sempre con tante altre storie irreali.
Solo che improvvisamente la situazione mutò perché, oltre a esserci sempre lo stesso elemento comune, il sogno si era trasformato in un lunghissimo incubo e si dipanava in maniera sempre più cruenta.
Era come se nella mia testa fosse stato installato un videotape e questo puntualmente ogni notte si mettesse in play e incominciasse a irradiare dentro di me nuove e cruentissime immagini. Non ce la facevo più, volevo cercare di capire cosa ci potesse essere dietro questo lunghissimo incubo che da molto tempo mi stava tormentando.
La massima di Morrison avrebbe pur voluto dire qualcosa, eppure non riuscivo a calarlo totalmente nella mia realtà. Dietro consiglio di un amico, in qualunque momento della notte mi fossi svegliata, mi ero organizzata per incidere ogni fase del mio racconto su un nastro.
Questo avrebbe fatto sì che qualcuno, riascoltando la mia voce, avrebbe potuto aiutarmi a scovare quei due o tre elementi chiave che mi avrebbero consentito di superare una paura nascosta o un’ansia repressa.
Dunque… questa era la mia premessa. In questo momento sono seduta sul mio letto, ho le mani sulla testa, sulle ginocchia ho una coperta di pile che mi arriva fino alla vita e, concentrandomi al massimo, vorrei cercare di ricordarmi ogni dettaglio.
Ancora una volta la voce smise di parlare e altri due lunghi respiri furono l’unico suono che trapelò dal piccolo registratore. Era calato nuovamente il silenzio.
Furono uno sbadiglio e un colpo di tosse a spezzare la quiete. Il nastro riproduceva tutto fedelmente senza omettere alcun passaggio. La donna cercò di schiarirsi la voce e un attimo dopo la si sentì fischiettare il motivetto di una canzone che passava sovente per radio. Improvvisamente riprese a dialogare con il nastro magnetico.
Eppure, io sono sicura che qualcosa vorrà pur dire questo incubo. Ho la sensazione che ci sia un grande significato, ma qualcosa mi sfugge. Ci sono cose che non riesco a comprendere. In un primo momento mi era sembrato tutto chiaro, pulito, lineare… ma nello svolgimento si nascondeva qualcosa. Quelle visioni mostruose mi rimanevano ben in mente, perché erano molto ben strutturate e, come in tutti i miei sogni, da un certo momento mi sembrava di vedere tutto lo sviluppo della storia come se mi fossi trovata in un cinema.
Sono confusa, per cui vorrei incominciare dall’inizio e ripercorrere i miei pensieri, senza raccontare tutto a macchia di leopardo e senza perdermi in discorsi lunghi e articolati.
Si fermò per sessanta interminabili secondi, si sentì che mandava giù qualcosa. Probabilmente aveva anche una boccetta d’acqua sul comodino. Poi d’un tratto seguitò a parlare e senza pensarci entrò nel vivo del discorso.
Una strana ruota colorata girava come se fosse una trottola e sembrava una specie di vortice. Questo era il preludio della mia insolita situazione e l’avvio del mio sogno avveniva per gradi. Le immagini diventavano sempre più nitide e veritiere. Era come per lo zoom di una cinepresa: a mano a mano che si avvicinava l’obiettivo, tutto risultava essere più chiaro. Inizialmente la situazione era abbastanza surreale e nulla faceva presagire quello che sarebbe stato il seguito. La mia testa era appoggiata sul lettino da spiaggia e intravedevo alle mie spalle il riflesso dei raggi solari. Avevo steso le gambe e mi compiacevo della tonicità dei miei polpacci. Non avendo nulla da fare, mi venne voglia di mettermi seduta, così mi tirai su e osservai lo smalto che avevo steso sulle unghie alla ricerca di una qualche imperfezione.
A dispetto delle mie aspettative, non percepii l’odore di salsedine, né udii il fragore delle onde o le urla dei bambini in spiaggia. Quello che captai fu il profumo delicato dei frutti di bosco, essenza che aveva il potere di infondermi una certa dose di buon umore.
Meccanicamente virai l’attenzione verso l’orizzonte e quello che vidi mi lasciò basita: una collina. Il mio lettino si trovava su una collina coperta da un manto d’erba fresca, compatta e tagliata di recente. La mia sorpresa si acuì nell’apprezzare il paesaggio circostante. Dalla mia postazione vedevo una valle tutta verde, delle mucche che pascolavano liberamente, un pozzo e in lontananza qualche contadino che lavorava la terra. Era un’immagine surreale e antica. I contadini, che erano molto lontani da me, erano bardati al solo scopo di ripararsi dai raggi solari. Potevo scorgere i loro fazzoletti legati sopra la testa e le loro vesti rovinate e scolorite, mentre guardando me stessa apparivo come il loro esatto contrario. In quel momento sembravamo veramente venire da mondi differenti. Con il mio moderno bikini ai loro occhi sarei potuta passare per una strega o anche peggio.
Indossavo gli occhiali da sole a specchio e mi ero spalmata una crema solare ad alta protezione.
Tutto quello che era intorno a me pareva rifarsi a un passato distante nel tempo. A nord avevo una bella vallata luminosa e verde, mentre a sud vi era una strada di montagna che dopo tre tornanti conduceva all’entrata di un castello medievale. Intorno a quella salita vi erano tanti appezzamenti di terra coltivati in vario modo. Potevo scorgere le merlature, le torri difensive e delle imponenti mura di protezione di una lunghezza che si perdeva a vista d’occhio.
Non riuscivo a vedere distintamente il mastio, che era la residenza fortificata e quindi la reale abitazione della famiglia feudale, ma potevo immaginarlo e collocarlo mentalmente.
Nell’osservare con vivo interesse tutto quello che mi circondava e in particolare l’architettura di quelle mura altissime, mi spalmai ancora un po’ di crema solare perché temevo di scottarmi. Quella visione mi riportò alla mente il mio vivo interesse per l’archeologia e mi fece venire un po’ di nostalgia, perché a quella passione avevo anteposto gli studi e una laurea in economia e commercio. Non mi ero mai pentita di quella scelta, ma non potevo fare a meno di domandarmi come sarebbe stata la mia vita se avessi scelto una cosa che mi fosse piaciuta davvero come lavoro. Mentre seguivo questo filo di pensieri mi massaggiavo le gambe con molto vigore fino al totale assorbimento della protezione solare. Ero molto indecisa su dove orientare il mio lettino, le vedute che avevo intorno erano tutte abbastanza omogenee e il sole mi baciava da ogni lato, quindi avrei solo dovuto decidermi.
Mi guardai scrupolosamente intorno, ma non vi era nulla che potesse catturare più di tanto la mia attenzione. Il cielo era sgombro da qualsiasi nuvola e attorno a me era proprio tutto fermo.
All’improvviso mi accorsi che in lontananza una persona si accingeva ad affrontare a piedi la salita che conduceva al portone del castello medievale. A quel punto mi tolsi gli occhiali da sole e diedi un’occhiata all’orologio, erano le undici e venticinque, ma quello che mi lasciò sorpresa fu la data: il mio orologio segnava che stavo vivendo nel 13 giugno del 1237.
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