Capitolo 1. Il viaggetto
Dal diario di Goodspeed
Ottobre 2031
«Sono le undici in punto, è ora di prepararci!»
La voce di Zecca risuonò calma e persuasiva per tutta la soffitta. Il suo mezzo ghigno, illuminato per tre quarti dalla torcia, era l’espressione della soddisfazione in quel momento.
Zecca era un imponente uomo di quarant’anni suonati, alto e spesso, con due spalle larghe come una porta. Zecca è stato un giocatore di hockey su ghiaccio di livello internazionale. Ora, con il passare degli anni, si è un po’ imbolsito, ma la sua stazza incute sempre un certo timore. I suoi occhi cerulei e la barba bionda lo fanno somigliare a un norvegese del sud.
Era il settimo giorno di un’attenta pianificazione di un viaggetto in città: un grande sforzo per effettuare un rifornimento straordinario di cibo.
Benché fosse chiaro a tutti noi che nella nostra riserva strategica non mancava quasi nulla, questa gita fuori porta era voluta anche per mantenerci allenati fisicamente e mentalmente.
D’improvviso, la luce bianca e abbagliante della torcia di Zecca si fece più intensa e colpì le mie pupille, ormai del tutto dilatate.
«Ma cavolo, fratello mio! Sono già sveglio e mi stai accecando! Ascoltami attentamente, per favore: ho solo bisogno di caffè, tanto tanto caffè!»
Il suo ghigno si fece più pronunciato, direi che ormai superava abbondantemente le sue narici.
«Zecca, mi sembri Joker!» esclamai.
Scoppiò in una risatina sottile, ma potente a tal punto da svegliare anche Lego.
Lego aveva la brutta abitudine di dormire sempre su una poltrona di pelle color marrone scuro che cigolava in ogni sua parte. La poltrona fetida, posizionata accanto alla grande finestra della soffitta di casa: nessuno aveva il permesso di spostarla, nemmeno di pochi centimetri, mai! Sollevando appena i piedi del suo giaciglio, di nascosto da Lego, si potevano vedere i buchi profondi almeno due centimetri, che si erano creati sul pavimento consumato.
Quando tornavamo alla casa-rifugio dopo i nostri viaggetti in pianura, la stanchezza stringeva in una morsa letale i nostri corpi. Le nostre gambe e braccia urlavano di dolore e gli spasmi, distribuiti ordinatamente sui nostri ammassi muscolo-scheletrici, si facevano lancinanti. Lego, appena scalate le rampe di scale e raggiunta finalmente la soffitta, si gettava a peso morto sulla sua poltrona e il tonfo, paragonabile a una deflagrazione, si sentiva in tutta la grande casa. Lego dormiva e si cibava sempre lì, nel suo caldo nido, così amava chiamare la sua poltrona. Ma non era mai solo nel suo nido: al suo fianco c’era sempre il suo fucile, non lo abbandonava mai. Era un Colt M4, sempre pulito, lustrato ed efficiente. Negli anni non ho mai assistito a un suo inceppamento, che è un’eventualità abbastanza comune in questo tipo di arma. Un fucile senza tempo, utilizzato durante la guerra del Vietnam dall’esercito degli Stati Uniti, e poi migliorato con il tempo in modelli sempre più letali.
Non uscivamo mai, e dico mai, senza le nostre armi. Tutti e tre avevamo preferenze tecniche e affinità personali con determinati modelli, e questo stabiliva anche il nostro ruolo durante le scorribande fuori porta.
Lego era addetto ai mezzi di trasporto, Zecca alle armi e io alla logistica e alla pianificazione. Ah, mi stavo dimenticando una cosa! Lego possedeva un’incredibile abilità che noi due non avevamo: era stato un pilota di elicotteri militari, una competenza estremamente preziosa in questi tempi bui, se mai avessimo trovato un elicottero in buono stato. Purtroppo, durante un viaggio in moto, Lego aveva avuto un catastrofico incidente alle gambe e per poco non ci aveva rimesso la pelle. La sua carriera militare era finita con tutti gli onori del caso e, dopo mesi in riabilitazione e tanto dolore, seppe reinventarsi al meglio delle sue possibilità. Conscio che un capitolo della sua vita si era chiuso, ne aprì un altro interessandosi sempre di più all’informatica. Lego era un uomo di altri tempi, forte e sicuro di sé, irascibile e quasi letale, contrapposti al suo altruismo che non ha mai fondo, e come la sua sottile ironia, a noi tanto cara. Lego non era molto alto ma ben piazzato, la sua barba sale e pepe, come la mia del resto, gli conferisce saggezza e lungimiranza. Gli occhiali, sempre inforcati, lo invecchiano dandogli qualche anno in più dei suoi cinquantatré anni ufficiali; i suoi occhi celesti sono sempre rassicuranti e sereni anche nei momenti di grande tensione e pericolo.
Mi sono affezionato a Lego quando, molti anni fa, insieme a Zecca abbiamo pranzato per la prima volta al McDonald’s. Allora, davanti a esuberanti vassoi di hamburger e patatine, ebbi la sensazione che noi tre eravamo destinati a un futuro comune. Non conoscevo ancora quale fosse il destino scritto, ma ero sicuro che le nostre semirette stavano per collidere in un unico punto.
La nostra riserva strategica di cibo e medicinali non stava raggiungendo il punto di allarme rosso, ma avevamo deciso con fermezza di non intaccarla mai, sempre nel limite del possibile.
Così, quando le provviste si riducevano a soli quattro mesi di sopravvivenza, aggiungendo i due mesi di riserva, scoccava il tempo di darsi da fare e quindi di andare in pianura e fare la spesa.
Erano cinquantaquattro chilometri di viaggio di sola andata, sperando nel ritorno, che pianificammo dettagliatamente. Con l’aiuto del GPS, ancora perfettamente funzionante, foto satellitari ancora online e grazie al lavoro di Lego, che era un drago con il computer, io ero in grado di identificare le strade migliori, gli edifici adatti ai nostri scopi e ipotizzare anche delle previsioni meteo affidabili. Quel pomeriggio stesso, dopo averci lavorato un paio d’ore, arrivai alla conclusione che il meteo del giorno prestabilito per la spesa sarebbe stato perfetto: sereno e senza vento.
Zecca, mentre io e Lego elucubravamo come sciamani indiani, aveva preparato tutta l’attrezzatura necessaria in modo impeccabile, come era solito fare: due mezzi di trasporto – il Mostro, un vecchio mezzo da trasporto militare, su quattro ruote motrici, un bevitore spropositato di gasolio (Lego lo aveva acquistato prima ancora della crisi energetica, lo avevamo chiamato il “Mostro”) e il quad –, armi di riserva, taniche di carburante supplementari, torce di riserva, munizioni, cibo e acqua. Lego si occupava delle comunicazioni radio personali, radio trasmittenti su ogni mezzo e del computer per le mappe satellitari. Io mi occupavo della sorveglianza aerea con un paio di droni con telecamera.
Eravamo una bella squadra, ben organizzata.
«È il momento di andare, fratelli miei, la notte nera e calma ci aspetta. L’ora migliore è scoccata, finalmente» dissi con voce perentoria dopo aver sorseggiato con calma zen il mio caffè.
«Che ore sono?» mi chiese Lego, chiaramente per prendermi in giro.
«È ora che metti il tuo culone sul Mostro» gli rispose a mezzo giro Zecca.
La superstrada era buia e silenziosa. Non mi ero ancora abituato a vedere tutto quello che mi circondava. Ovunque girassi lo sguardo, vedevo come tutto era cambiato nel corso degli anni: la natura aveva preso il sopravvento in poco tempo, quando l’inattività umana era cessata del tutto. Nel vicino passato i lampioni gialli illuminavano il tragitto, le auto sfrecciavano senza sosta di giorno e di notte. Mi ricordai che c’erano due zone di rifornimento sempre ben illuminate, erano una di fronte all’altra; i cartelli dei prezzi del carburante spiccavano ben chiari sulla strada e le auto ferme in coda aspettavano il loro turno.
Ora la vegetazione era straripante, gran parte della carreggiata in direzione sud era occupata da arbusti e rami secchi. L’asfalto era tutto crepato a causa della mancanza di manutenzione stradale. L’illuminazione era fuori uso e i lampioni erano ormai dei simulacri di un tempo passato.
Ero partito in sella al mio quad verde scuro prima dei miei fratelli. Il potente motore di fattura americana emetteva un rumore sordo ma ancora troppo udibile. Avevamo più volte tentato di silenziare l’unico scarico, ma senza riuscirci del tutto.
Mantenevo una velocità bassa, pochi chilometri orari. I fari frontali li avevamo mascherati, applicando del nastro adesivo nero su gran parte della plastica esterna, andando a creare così una piccola fessura orizzontale che permettesse un’illuminazione di profondità minima ma ancora efficace. I fanali posteriori rossi erano stati scollegati e spenti definitivamente.
Mentre guidavo, scrutavo attentamente ogni piccolo movimento che mi si potesse parare davanti, nonostante la poca luce. Gli occhi mi bruciavano tremendamente per il vento contrario e per gli insetti che non mi davano tregua, nonostante la protezione degli occhiali. Continuavo a guardare il mio orologio ossessivamente. Avevo a disposizione ancora venticinque minuti per raggiungere il luogo stabilito con i miei fratelli. Non nascondo che avevo paura, ma la paura, creata e amplificata da questo mondo nuovo e buio, ti fa tenere alte le antenne, in un’allerta perpetua. Cercavo di avere la vista notturna di un gufo, ma gufo non ero.
Non mi preoccupavano gli animali selvatici che avrei potuto incrociare lungo il percorso – e per animali selvatici intendo anche le vacche, cavalli e maiali, e pure un’altra specie di animale: la mia. La pianura brulicava di bande di predoni sempre pronti a colpire e uccidere chiunque passasse nei loro territori.
«Ma porcaccia zozza! Possibile che mi sia passata davanti agli occhi e non ho sfiorato la leva dei freni?» dissi ad alta voce, come se sentirmi mi rendesse più attento e sveglio.
Avevo appena superato una carcassa di cinghiale adagiata in mezzo alla strada. Era chiaro che fermarmi e tornare indietro per recuperare almeno cinquanta chili di carne rafferma non sarebbe stata una buona mossa. Poteva essere un’esca messa deliberatamente lì dai predoni. Queste persone disperate e pericolose erano sempre a caccia, giorno e notte, Natale e Ferragosto. Storia decisamente triste!
Macinavo strada lentamente, metro dopo metro, quando finalmente la superstrada arrivò alla fine. La carreggiata della strada si stringeva fino a incontrare un breve tunnel, sovrastato da un grande incrocio di svincoli. Mi colpì un particolare che avevo sempre ignorato: un cartello rettangolare fissato alla volta del sottopasso, una frase di due parole: “tunnel illuminato”. Lo avevo sempre ignorato, ora vorrei il contrario, maledizione! Il lume del tunnel, che era lungo circa cinquanta metri, era chiuso quasi completamente da piante rampicanti, cespugli rigogliosi e soprattutto da carcasse di auto e piccoli furgoni, tutti mangiati dalla ruggine e depredati di ogni cosa.
Fermai il quad accanto a un furgone, o quel che ne restava; utilizzai la mia piccola accetta e recisi qualche ramo verde per ricoprire velocemente il mio mezzo. Pensai che con il buio il quad sarebbe passato inosservato, ma con un po’ di luce del sole sarebbe stato visibile a chiunque e sarebbe potuto diventare così una preda succulenta per i predoni, che non si facevano mai i propri affari!
Afferrai il mio fucile a leva, un bellissimo Winchester d’epoca, controllai di nuovo se era carico e iniziai a percorrere il tunnel con attenzione: i miei movimenti erano lenti e precisi. Decisi di non accendere la luce frontale per non attirare i brutti ceffi. Questo è un mondo dove la fretta, che è rumorosa, può portare solo brutti problemi.
Finalmente raggiunsi con fatica la fine del tunnel: le auto abbandonate erano più del previsto. Alcune dovetti superarle scavalcandole, cercando di non fare troppo baccano. Il mio timore era che fossero abitate da vaganti, pronti a saltarti addosso per rubarti tutto e, forse, lasciarti vivo. I vaganti erano uomini e donne disperati che, travolti dagli eventi catastrofici, si lasciarono andare in una vita di sussistenza ai limiti della sopravvivenza.
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