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Quando Scoppiano le Bolle

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La campagna di crowdfunding è terminata, ma puoi continuare a pre-ordinare il libro per riceverlo prima che arrivi in libreria

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Consegna prevista Gennaio 2025

In spiaggia, con uno spritz in una mano, una “sigaretta borghese” nell’altra, seduta insieme a un gruppone di giovanissimi chiassosi e volgari emerge Chiara: frizzante, agitata, senza freni.
Nelle silenziose e afosissime vie di Torino, Anna passeggia chiacchierando con Vittorio, il suo amichetto del cuore, con il quale condivide l’amore per la musica rock anni ‘80 e per i libri.
Il commissario Grill ha la testa tra le nuvole e i piedi per terra, e inizia un’indagine partendo dal cadavere di un giovane totalmente ricoperto di sangue non suo, ritrovato in una stanza dell’ospedale Regina Margherita.
Quando Scoppiano le Bolle è un’altalena che oscilla tra il mondo giovane e frivolo, fatto di bar, chiacchiere e avventure amorose, e il mondo truce, in cui Grill analizza cadaveri e inghiottisce Anna e Chiara, che gradualmente riveleranno un misterioso passato, orchestrato da uno stile che segue la narrazione: cambiando in relazione al narratore e al mondo al quale appartiene.

Foto banner: Gabriele Operti

Perché ho scritto questo libro?

All’interno di queste pagine, nascosta nemmeno troppo bene, c’è la parte di me che temo di più: la tendenza a perdere totalmente interesse in qualcosa che era fortemente importante nella mia vita. Così, all’improvviso, proprio come una bolla che scoppia, che senza avvertimenti lascia il nulla. L’idea di “Quando Scoppiano le Bolle” è analizzare il nulla che resta dalla bolla scoppiata.

ANTEPRIMA NON EDITATA

II

Un soffio alla volta

L’acqua della doccia scorreva dolcemente sulla pelle liscia e olivastra di Beatrice. Chiuse gli occhi, si lasciò cullare dal suono delle goccioline che le tremolavano sulla testa e rimbalzavano ticchettando sulle unghie dei piedi colorate di rosa. Appoggiò le mani sulle fresche mattonelle per sentire l’acqua scorrere sulla schiena indolenzita e lasciarla scendere dalla testa sulla fronte, sulle ciglia. Erano ore che sognava quella doccia. Aveva ancora nel naso quell’odore di scarpe e scatole che avevano governato tutta la sua giornata. Tutto ciò che desiderava in quel momento era rimanere sotto il getto dolce e caldo della doccia, ascoltando la musica che usciva dal suo telefono.
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Per un attimo la hit dell’estate si interruppe perché le era arrivato un messaggio, e in quel momento tornò sulla terra: era venerdì, di a poco sarebbe arrivata Chiara. Un moto di gioia la pervase in tutto il corpo, si insaponò velocemente e in un attimo indossava il vestitino che aveva poggiato sul letto mentre era ancora stanca e puzzolente. Di fronte alla porta d’ingresso controllò di avere telefono, tabacco, portafoglio e chiavi di casa. C’era tutto, perfetto. Con un piede sullo zerbino e la mano sulla porta, decise di prendere il golf piegato con cura sul tavolino dell’ingresso per infilarselo in borsa, non si sa mai. Uscì di casa e si immerse nel profumo della sua piccola città. Camminava lentamente, osservando le famigliole di ritorno dalla spiaggia spingendo passeggini carichi di giocattoli insabbiati, ombrelloni, borse traboccanti di asciugamani umidi e altri giocattoli ancora. Ascoltava il cinguettio degli uccellini, il cigolare di biciclette guidate da gang di ragazzini agguerriti, il lento passo di anziani che incedevano tenendosi per mano. Si fermò qualche minuto al bar dei vecchi a pochi isolati da casa sua. Salutò suo padre e il solito gruppetto di bavosi che si sparavano un bianchetto dopo l’altro a oltranza. Trovava in loro qualcosa di malinconico e allo stesso tempo terribilmente gioioso e pieno di vita. Gli amici di suo padre non facevano che chiederle quanti anni avesse, cosa facesse nella vita, se desiderasse un bianchetto anche lei. Ogni giorno, tutte le volte che decideva di capitare per salutare suo padre. Uscì dal bar dei vecchi sorridendo, dirigendosi verso il mare, seguendo il profumo di salsedine sempre più insistente. Come i suoi occhi si immersero nel mare si spostarono immediatamente sul Nebula, il locale in cui andava sempre. Quello era l’appuntamento fisso nella sua vita, il punto fermo in cui capitare per chiacchierare, bere e ridere con gli amici. E quella sera non sarebbe stato il solito luogo in cui chiudere la giornata, quella sera era venerdì, il giorno più bello di tutti, il giorno in cui ogni settimana Chiara arrivava da Torino.

Bea varcò la soglia salutando un po’ di amici, ordinò uno Spritz e si sedette al solito tavolo accanto ai soliti amici. Rimase qualche minuto a parlare senza parlare di niente, ascoltando Raffo che come al solito raccontava qualche cretinata delle sue, guardando Angi con sguardo complice, ridendo a qualche scemenza di Fabri.

«Bea!» prima che lei se ne rendesse conto, si accorse di avere una persona seduta a cavalcioni su di sé che la stringeva forte e la inondava con una cascata di capelli castani. Bea si sentì sorridere: era lei, finalmente era arrivata Chiara. La strinse forte, ignorando i commenti maliziosi che erano esplosi intorno a quell’abbraccio. Con l’arrivo di Chiara, come ogni venerdì, Bea sentì tutto il mondo trasformarsi: le persone si facevano sorridenti, le chiacchiere erano contornate da più gioia, tutto era eccitante. Chiara sedeva accanto a Bea con uno Spritz davanti alle prese con una sigaretta da girare. Era già all’opera: ogni settimana si presentava con mille storie da raccontare. Da come ne parlava, sembrava che il lavoro di infermiera fosse in assoluto il più divertente di tutti. Bea osservava Chiara seduta sulla sedia di plastica del Nebula, completamente appoggiata allo schienale, ogni tanto dava una boccata alla sua sigaretta girata orrendamente, ogni tanto prendeva in mano il bicchiere per appoggiarselo alle labbra nude. Tutto il tavolo era concentrato su di lei: «Vedo questo signore avvicinarsi al banco delle infermiere, aveva la faccia strana, io cretina, ho pensato che fosse sotto

choc perché qualche suo amico si trovava in ospedale. Allora mi sono avvicinata a lui e gli chiedo se va tutto bene. Lui mi guarda con un paio di occhi così folli che tra un po’ rotolavano sul pavimento, mi si avvicina, noto che indossava un giaccone un po’ lungo e pesante per essere in piena estate, ma faccio finta di niente e lascio che mi si avvicini. Poi mi sussurra all’orecchio: “Vuoi vedere la bestia?”»

Tutti scoppiarono a ridere insieme a lei, che mimava la se stessa del passato strabuzzando gli occhi e chiamando a piena voce il suo superiore.

«Ma che schifo!» urlò Angi dall’altra parte del tavolo.

«Infatti,» rise Chiara accendendosi la sigaretta che nella foga del racconto si era spenta, «poi in quel momento ero divisa a metà tra il ridere e il vomitare, ma alla fine non ho fatto né questo né quello. Sono solo rimasta con questa faccia strabuzzata per un paio d’ore spaventando a mia volta i poveri pazienti.»

Bea attese che Chiara finisse la sigaretta e che la conversazione si spostasse su altro, prima di lanciarle lo sguardo “stiamo un attimo da sole”.

«Allora, come stai?» finalmente sole, appoggiate alla ringhiera del Nebula, Chiara guardava l’amica con occhi pieni di tenerezza.

«Non lo so nemmeno io» rispose Bea sentendo un groppo in gola. Sorseggiò il secondo Spritz appoggiata alla ringhiera del Nebula, evitando lo sguardo dell’amica e fissandolo sul mare.

«Ti manca?»

«Mi manca ogni giorno» rispose Bea bevendo ancora. «Ma non ho molta voglia di parlarne stasera, vorrei non pensare a nulla.»

Chiara sorrise e poi abbracciò l’amica. «Quello possiamo farlo, ma se poi ti viene voglia di parlare tirami giù dal cubo e andiamo nel nostro vicolo.»

Bea scoppiò a ridere scacciando il groppo in gola che nel momento dell’abbraccio stava per trasformarsi in un pianto. «Grazie, tesoro. Ah, quindi stasera si balla?»

«Mah, vedi tu. Hai detto che non vuoi pensare, è agosto, siamo al mare, fai un attimo un conto ma mi pare proprio che il risultato sia finire a ballare come due cretine fino alle cinque del mattino. Lavori domani?»

«Sì, ma solo il pomeriggio.»

«Perfetto.»

Bea si immerse negli occhi bruni dell’amica. Se toccati dalla debole luce del sole che incedeva verso il tramonto, come in quel momento, si potevano scorgere delle piccole venature verdi. Li trovava splendidi. Come lei, emanavano una luce piena di forza. Si immerse in quell’energia così vivida, e le sembrò quasi di sentire l’agitarsi di emozioni e sentimenti che abitavano lì dentro. Chiara guardava l’amica, i suoi occhi chiari come il mare erano tristi, lei si sentiva impotente. Bea aveva perso la madre qualche mese prima, dopo una lunghissima malattia. Si sentiva incapace di aiutarla davvero, non aveva idea di cosa poter fare per restituirle la gioia di cui aveva bisogno. Avevano trascorso lunghe ore a parlare, piangere, cercare di ridere e ubriacarsi. E poi Chiara aveva capito che l’amica aveva bisogno di tempo, di continuare la sua vita, sapendo di potersi appoggiare a lei ogni volta in cui ne sentiva la necessità.

«Il secondo giro è andato» sentenziò Chiara poggiando il bicchiere sulla ringhiera.

«Ma che fai! Non metterlo lì che poi Michi ci sgrida» disse Bea con aria divertita togliendo subito il bicchiere da quella posizione precaria.

«Come se fosse una novità» ridacchiò Chiara riappropriandosi del bicchiere che ormai conteneva solo un paio di cubetti di ghiaccio mezzi sciolti. Le amiche tornarono al solito tavolo, che ora era soffocato da un numero raddoppiato di sedie riempite da persone intente a chiacchierare rumorosamente. Subito, Chiara notò un volto nuovo. Prima ancora che lei e Bea potessero tornare dentro per chiedere a Michi il terzo Spritz, Raffo disse loro: «Lui è Claudio.»

Chiara e Bea gli si avvicinarono per presentarsi. Ogni volta che compariva un volto nuovo, Chiara si immedesimava in quel poveretto, chissà cosa pensava, chissà se si chiedeva dove diavolo fosse capitato e se forse sarebbe stato meglio se fosse rimasto a casa. Loro erano un gruppo molto unito, da molti anni, chiassosi e volgari. Parlavano di qualunque cosa, se l’argomento era sessuale era ancora meglio, e immedesimarsi in un povero diavolo che si inserisce per la prima volta nel loro contesto spingeva Chiara ogni volta a fare di tutto perché quel poveraccio si sentisse a proprio agio. Chiara si sentì sorridere in modo accogliente al poveraccio, mentre lui le stringeva la mano, aveva degli occhi azzurri scintillanti, calmi, sereni. In quel momento Chiara si sentì tornare una dodicenne, sperando con tutto il cuore di sedersi accanto a lui. Rimase in piedi dietro la sedia bianca di plastica del poveraccio, guardando Bea che si sedeva accanto a Raffo.

«Ah, vado io quindi?» disse Chiara ridendo.

«Così sembra» sorrise Bea.

Approfittando della breve fila al bancone, Chiara si fiondò in bagno. Non ricordava quando fosse stata l’ultima volta che aveva fatto pipì, e quello sembrava il momento giusto. Osservò il suo viso truccato con una semplice passata di mascara ritoccata alla bell’e meglio in treno, salì in piedi sulla tazza del water per vedere il riflesso di come le stessero i pantaloni e uscì dal bagno, diretta al bancone. Michi stava riempiendo un boccale di birra accerchiato da sconosciuti: famigliole, gruppi di amici venuti al mare in giornata, i soliti due o tre vecchietti che frequentavano il Nebula da prima che esistesse.

«Ciao, Fiorellino.»

Michi era uno dei pochi che la chiamava ancora così. Si divertiva un mondo, a spillare birra mentre la spogliava con gli occhi. Chiara lo sapeva, e la cosa non le dava fastidio né piacere.

«Ciao Michi» gli sorrise con la sua solita faccia da cartolina. «Come va?»

«Al solito» rispose, poggiando tre boccali di birra sul vassoio che Sara si affrettò a portare ad uno dei tavoli fuori. «Tu?»

«Sono qui, quindi da dio!» rispose, poggiandosi al bancone.

Michi la guardò di nuovo con quegli occhi da porco, ma Chiara non se ne curò. «Uno Spritz speciale?»

«Due Spritz speciali, grazie caro.»

«Lo sai che mi emoziono se mi chiami caro» disse Michi afferrando due bicchieri da Spritz.

«È per questo che ti chiamo caro» sorrise Chiara camuffando la voce, sicura che lui capisse lo scherzo. In realtà non era mai chiaro se Michi capisse che lei scherzava oppure no. Ma non le importava. Prese i due bicchieri ghiacciati e arancioni e si diresse verso la porta, sentendo gli occhi di Michi sul suo sedere. Una mano le aprì la porta: era il poveraccio nuovo arrivato con una birra media in mano.

«Grazie» disse Chiara piantandogli un sorriso negli occhi.

«Come mai ti chiamano Fiorellino?» chiese il poveraccio nuovo arrivato sedendosi accanto a lei. Sentendo la domanda, Raffo e Fabri scoppiarono in una fragorosa risata.

«Dai, dai, adesso racconti!» urlò Fabri come un matto, neanche fosse stato dall’altra parte della terrazza. Sedendosi, Chiara si portò i lunghi capelli dietro le spalle.

«Perché non lo racconti tu? È tutta colpa tua, dopotutto» disse Chiara facendogli una boccaccia.

«Ma io lo voglio sentire da te» disse il poveraccio di nuovo arrivato. Chiara lo guardò piena di stupore: come osava quello lì farle il verso e parlarle in quel modo?

«Ah, allora sei antipatico.»

Subito Raffo le fece il verso del gatto che soffia, e Chiara alzò gli occhi al cielo. Tutti quanti sapevano che scherzava, anche quello sfacciato del nuovo arrivato. Così si arrese ai suoi fan acclamanti e si mise a raccontare, non prima di aver assaggiato lo Spritz speciale di Michi e aver cominciato a girare l’ennesima sigaretta. «Ero molto giovane e ubriaca.»

«Tutte le grandi storie cominciano così» la interruppe Bea ridendo.

«Ha, ha, che ridere. Dopo tocca a te e alla vomitata nel mare, allora.»

«Non c’è problema, anche è andata male a te» disse Bea scoppiando a ridere.

«Già, che schifo.»

«Allora, questo Fiorellino?» il nuovo arrivato non era un poveraccio per niente, anzi, sembrava totalmente a proprio agio, come se fosse stato sempre lì con loro, tutti quegli anni.

«Oh, insomma, che insistenza!» disse Chiara con falsa irritazione.

«La stai tirando piuttosto lunga» continuò quello sfacciato. Chiara si sentì perdere per un attimo nei suoi occhi azzurri, poi tornò in sé: «E va bene, va bene. Allora: ero giovane e ubriaca, e proprio qui fuori, a tarda notte, dico di aver fame. Quel cretino laggiù mi esorta ad assaggiare i fiorellini piantati nel vaso che stava sul davanzale accanto all’entrata e io l’ho fatto. Sfortunatamente avevo di fronte un vasto pubblico, che non si sa come ha ricordato per tutto il resto di tutta la sua vita questo incredibile avvenimento, e per questo, per anni e anni, io sono stata Fiorellino. Man mano la moda è passata, e ho ripreso possesso del mio vero nome, ma alcuni, tipo il simpaticone che sta al bar, persistono, nonostante lungo tempo sia passato, a chiamarmi così. Ecco. Fine della storia.»

«Certo che le racconti proprio da schifo, le storie.»

«Scusa, ma tu, da dove sei spuntato, esattamente?»

Il nuovo arrivato, con prontezza, rispose usando un tono ironico e divertito: «Sai, quando una mamma e un papà si vogliono tanto tanto bene, certe volte, chiudono gli occhi e succede una magia.»

Tutti quanti scoppiarono in una fragorosa risata, compresa Chiara, rimasta stupita e stranamente attirata da quel tipo che sembrava così a proprio agio in un gruppone di sconosciuti volgari e chiassosi. Fabri cominciò a raccontare della sua escursione traboccante di disavventure, mentre il nuovo arrivato avvicinò la propria sedia a quella di Chiara.

«Vuoi metterti in braccio a me?» disse lei accendendosi la sigaretta che teneva in mano da tempo immemorabile.

«Se lo dici di nuovo lo faccio davvero» rispose lui. Quegli occhi azzurri non le davano tregua, si piantavano dentro il suo sguardo e non si spostavano da lì.

«Che c’è?» chiese Chiara fingendo indifferenza.

«Non vorrei essere uno dei tanti idioti che ti chiama Fiorellino.»

«Questo ti farebbe onore.»

Lui sorrise: «Grazie. E allora qual è il tuo nome, di cui ti sei riappropriata con tanto tempo e fatica?»

«Chiara. Ma non lo so se è un piacere» disse lei tendendogli la mano.

«Secondo me lo è, e lo sarà» lui le strinse la mano accarezzandola dolcemente, senza staccarle lo sguardo da dentro gli occhi.

«Sei sempre così sfacciato?» chiese lei, facendo la sua voce da scema, ricordandosi poi che lui non la conosceva affatto, e non poteva sapere che giocava a fare le voci. Inspiegabilmente, lui scoppiò a ridere.

«Che c’è?»

«C’è che mi fai ridere. Non va bene, forse?»

«No, no, va bene. Non ero sicura che capissi che stavo facendo la cretina.»

«Si capiva, si capiva» disse lui scolandosi gli ultimi sorsi di birra.

Da lontano, Chiara sentì una voce. Qualcuno, fuori da quella bolla che includeva lei e il nuovo arrivato, con i suoi occhi azzurri, aveva lanciato loro un segnale. Chiara si scosse un momento e alzò gli occhi verso il fondo del tavolo: «Eh?»

«Ho detto: mangiamo da me?» disse Angi, dall’altra parte del mondo, seduta accanto a Raffo e Fabri.

«Sì, sì, certo. Vuoi che vada a comprare qualcosa?» chiese Chiara fingendo di non essere appena tornata da una vacanza intorno al mondo.

«No, non ti preoccupare» sorrise Angi infilandosi in bocca una manciata di noccioline.

«Hai del cibo?» chiese Bea accendendosi una sigaretta borghese.

«Certo che ho del cibo, che cazzo sono tutte queste domande?»

«Solo prevenzione» disse Fabri sorridendo.

«Che vuoi dire, scemo?» chiese Angi scoppiando a ridere, «ti riferisci forse all’altro giorno?»

Fabri si lanciò in una perfetta imitazione di Angi: «Certo, amici, venite tutti da me, ho cibo e vino a volontà! Risultato: pastina in bianco e birra calda del bangla perché in casa avevi solo l’acqua marrone del lavandino.»

Tutti scoppiarono a ridere, Chiara si voltò verso il nuovo arrivato, che rideva, anche senza conoscere i personaggi, come gli altri.

«Oh, insomma, è successo una volta» rise Angi con gli occhi al cielo.

«E speriamo tutti che non succeda mai più. Soprattutto il povero Raffo, che quella sera ha mangiato solo l’uva.»

«È vero» disse Angi scoppiando di nuovo a ridere. «Povero Raffo, mi dispiace tanto. Non preoccuparti, tesoro, oggi ho fatto la spesa e stasera cuciniamo un buonissimo risotto, eh? Che ne pensi, amore della mamma?»

«Va bene» disse Raffo stando al gioco, «ma niente robe verdi che non mi piace scartare le cose dal risotto.»

«Ma certo, amore, tutto quello che vuoi. E dopo, con papà ti portiamo alle giostre, ti va?»

«Mi va, però voglio lo zucchero filato!»

Angi e Raffo andarono avanti per un bel po’ con la scenetta della mamma permissiva e del figlio capriccioso, poi, quando tutti i bicchieri contenevano solo acquetta tiepida colorata, cominciarono ad andare a pagare.

«Mettilo via» disse Michi a Chiara.

«Perché?»

«I tuoi Spritz li ha pagati l’amico di Raffo.»

«Ah» sospirò Chiara guardandolo fuori dalla porta vetrata mentre chiedeva l’accendino ad Angi. «Ok, allora vado. Grazie, Michi, ci vediamo!»

«Ciao, Fiorellino.»

Chiara chiuse la porta dietro di sé, e si avvicinò al nuovo arrivato: «Grazie, eh.»

«Di cosa?»

«Degli Spritz» disse lei cercando i suoi occhi azzurri.

«Ma figurati, era il minimo, dopo aver insultato la tua storia. In realtà non è vero che le racconti da schifo, le storie.»

«Grazie» disse lei con la sua voce scema, che lui ormai aveva già sentito, e quindi avrebbe potuto capire. Anche se aveva capito già la prima volta che quella era la voce che lei usava per fare la scema. Quel tipo era proprio strano.

Si incamminarono a piedi verso casa di Angi, era la più vicina al Nebula, poco più avanti percorrendo il lungo mare. Il cielo arancione illuminava il viso del nuovo arrivato, che camminava accanto a Chiara. In quel momento lei sentì qualcosa di molto simile al vulcano che aveva da ragazzina quando le si avvicinava il tipo che le piaceva, e lei perdeva totalmente la lingua, si sentiva sudare dappertutto, non era in grado di spiccicare parola e faceva sempre la figura dell’idiota. Ora era diverso, ora era sicura di e si sentiva bella. Eppure, appena lui allungò il passo per avvicinarsi a Raffo, qualcosa la riportò esattamente dentro la se stessa di dodici anni: timida, imbranata, piena di brufoli e con le mani sudate.

«Tutto bene?» Bea era comparsa alla sua sinistra, dalla parte opposta del mare, dove prima camminava il nuovo arrivato.

«Quando sei spuntata?»

«Adesso» sorrise lei. «Ma che hai?»

«Ma che ne so.»

«Ti ha dato fastidio il tipo nuovo?»

«No, no, nessun fastidio» rispose Chiara guardandolo a pochi passi davanti a mentre chiacchierava con Raffo.

«Ah, allora ti piace» disse Bea alzando e abbassando le sopracciglia con fare malizioso.

«Non lo so, vediamo.»

«Ok, vediamo» ripeté Bea sorridendo.

Angi aveva dimenticato le chiavi di casa, per cui aspettarono tutti che lei scavalcasse il cancello per aprirlo dall’interno, sicura che avrebbe trovato le chiavi in cucina. Quando finalmente ricomparve dall’altra parte delle sbarre in ferro battuto, Fabri, che si era appoggiato con la faccia tra una sbarra e l’altra le disse: «Non erano in cucina, vero?»

«Certo che no» rispose lei ridacchiando. «Levati da lì, o ti fai male, deboluccio e pieno di malanni come sei.»

«Uh, siamo nervosette, eh? Dove le avevi lasciate? Nel freezer?»

«È successo solo una volta» rispose lei cercando di far girare la chiave mezza arrugginita nella toppa.

«Nel freezer?» ripeté il nuovo arrivato.

«Sì» gli rispose Raffo: «Angi ogni tanto è un po’…»

«Un po’ cosa? Sono molto curiosa di sentire la frase» disse Angi faticando a far giare la chiave.

«Perfetta! Volevo dire perfetta.»

«Ah, ecco, mi sembrava» disse lei con un sorriso inquietante, lo faceva apposta, era il corrispettivo del sorriso da cartolina di Chiara. Appena finì la frase, finalmente la chiave girò, Fabri abbassò la pesante maniglia del cancello e tutti entrarono nel giardino.

C’era la solita arietta fresca che, per ragioni lontane dall’umana comprensione, anche nelle giornate più afose non se ne andava. Era un vero paradiso: alberi ovunque, quasi non c’era posto per il tavolo bianco di plastica piazzato in mezzo al giardino. Amache, fiori, un forno a legna. C’era una piccola porta di legno che dava dentro casa, dove loro non andavano mai, se non per cucinare o usare il gabinetto.

«Prendete pure le sedie, io comincio a cucinare» disse Angi guidando il gruppo all’interno del giardino. «Chi mi aiuta?»

Fabri si offrì subito, e Angi lo bloccò: «Non se ne parla, caro. Ogni volta righi le padelle.»

Fabri alzò gli occhi al cielo: «Posso apparecchiare allora, o hai paura che righi i piatti di plastica?» Lei sorrise: «No, quelli puoi rigarli.»

«Ti aiuto io, Angi» disse Chiara seguendola in cucina.

«Grazie, cuore»

Chiara e Angi cominciarono frugare nei sacchetti della spesa buttati sul tavolo della cucina.

«Ho preso le verdure vere per il risotto, così Raffo non rompe.» Chiara ridacchiò, mettendo in freezer il vino bianco bello caldo.

«Avete bisogno di aiuto?» chiese Raffo in piedi accanto alla porticina di legno. Chiara si voltò immediatamente: dietro di lui c’era il nuovo arrivato.

«Sì, grazie, potete lavare le verdure e tagliarle grosse così mettiamo su il brodino.»

«E io che faccio?» chiese Chiara continuando a tirare fuori cose dai sacchetti della spesa.

«Tu puoi tagliare la cipolla, così vado a vedere cosa sta combinando quell’altro.» Ridendo, Chiara continuò la sua ricerca tra i sacchetti della spesa.

«Cerchi questa?» disse il nuovo arrivato brandendo una cipolla.

«Oh, bene! Sì, grazie» Chiara cercò di non guardarlo negli occhi: non voleva che anche Raffo si accorgesse che si stava sciogliendo come la Chiara dodicenne. In quel momento rientrò Angi:

«Raffo vieni ad aiutarmi che quello ha fatto un casino» sentenziò Angi mettendogli nelle mani una pila di piatti di plastica. Chiara guardò i due sparire dietro la porticina di legno e poi spostò lo sguardo sull’amico sperduto, che non sembrava affatto sperduto. Lavava zucchine e carote e poi le appoggiò sul tagliere accanto al lavandino.

«Vuoi far qualcosa o stare lì a guardarmi?» disse lui con aria divertita.

«Ma chi ti guarda» rise Chiara prendendo la cipolla e poggiandola sulle verdure che lui tagliava per il brodo.

«Allora, come ci sei capitato qui?»

«Sono secoli che Raffo mi chiede di venirlo a trovare» cominciò l’amico sperduto riempiendo d’acqua una pentola. «Ho un lavoro che mi prende molto e fino a poco tempo fa anche una ragazza, quindi non sono mai riuscito a venire,» continuò buttando le verdure nella pentola, «questo weekend non dovevo andare da nessuna parte e quindi eccomi qui» concluse accendendo il gas.

«Ho capito» disse Chiara sminuzzando la cipolla, cominciando a sentire gli occhi bruciare.

«Tu abiti qui?» chiese l’amico sperduto aprendo tutti gli sportelli che trovava.

«Il riso sarà in uno di quei sacchetti» disse Chiara con un sorriso, sentendo gli occhi che lacrimavano. L’amico sperduto se ne accorse e ridacchiò.

«Facciamo cambio, va’» e scostò Chiara dandole un colpetto col fianco.

«Che modi!» scherzò lei passandogli il coltello. «Comunque no, abito a Torino. Tu?»

«Anch’io» rispose l’amico sperduto sminuzzando velocemente la cipolla. Chiara trovò subito il riso in fondo al primo sacchetto buttato sul tavolo.

«Dov’è il vino?» chiese Angi piombando in cucina.

«L’ho messo in freezer, ma sarà ancora caldo» ripose Chiara strappando la confezione di riso e spargendone una generosa manciata sul gas e sul pavimento. Angi e Claudio scoppiarono a ridere.

«Quelle spugne si accontenteranno.»

Il gruppo di amici sedeva in giardino mangiando velocemente il risotto cucinato da Chiara e dall’amico sperduto. Si sentivano voci divertite e profumo di erba appena tagliata. Chiara cercò lo sguardo di Bea, che la guardava dall’altro capo del tavolo con un sorriso. L’amico sperduto sedeva accanto a lei, e non poteva fare a meno di inebriarsi nel suo profumo: sapeva di novità, di shampoo, di sabbia.

Venerdì 11 agosto 2017

III

Le luci in ospedale

Il commissario Riccardo Grill giaceva nel letto, nudo, sdraiato sopra il lenzuolo inumidito di sudore. La stanza era immersa in un’oscurità rischiarata dalla finestra spalancata, che lasciava entrare l’ombra argentea della luna accompagnata da una fresca brezza estiva. Grill si mosse nel sonno: un suono si protraeva in un tempo e in uno spazio molto lontano da dove si trovava. Si rigirò, lasciando che quel suono conciliasse il suo riposo quanto la leggera brezza che ora gli accarezzava la schiena. Quella melodia si impose prepotentemente: Grill spalancò gli occhi tenendo la faccia premuta sul cuscino. Anche in uno stato di veglia quel suono esisteva, facendosi sempre più insistente, sempre più vicino. Era il telefono. Allungò la mano verso il comodino, cercando di afferrare quell’oggetto infernale che vibrava e squillava, ma era troppo lontano. Fece forza con le braccia per sollevarsi, e con i piedi nudi a contatto con il pavimento fresco prese in mano il telefono illuminato, che squillava e gli vibrava tra le dita. Dopo tre tentativi, finalmente riuscì a far scorrere l’indice sul pallino verde che rimbalzava sullo schermo e si sentì rispondere con voce roca: «Grill.»

Si alzò dal letto di scatto, per uscire dal torpore del sonno e ascoltare davvero la voce di Cannarsa dentro il telefono: «Hanno chiamato dal Regina Margherita, dovete andare lì.»

Grill annuì e buttò il telefono sul letto sfatto e vuoto. In un attimo indossò gli abiti che ore prima aveva appallottolato sulla cassettiera e si lanciò in macchina.

Rotella e Vitti lo aspettavano accanto alle scale che portavano all’entrata dell’ospedale. Le luci fredde lo accecarono per un attimo: i suoi occhi erano abituati all’oscurità della notte, sparita subito dopo aver attraversato la porta automatica. Sembrava un luogo in cui non esiste differenza tra giorno e notte: era gremito di persone vestite di bianco che camminavano rumorosamente, che parlavano ad alta voce. Grill, Vitti e Rotella si avvicinarono alla prima persona che riuscirono a fermare: una donna che indossava un camice bianco e inforcava un paio di occhiali dalla montatura spessa. Disse loro di aspettare lì: davanti alle porte scorrevoli che si aprivano incessantemente per far entrare e uscire persone sdraiate, sedute su sedie a rotelle o vestite di bianco. Grill posò un attimo gli occhi sulla porta: ogni volta che si apriva lasciava trapelare il buio che quasi si nascondeva lì fuori, soffocato poi da quelle luci fredde che gli affaticavano la vista. Immaginò Sirio Cralpo entrare da quella porta:

«Cosa avrebbe fatto? Come avrebbe mosso i passi uno dietro l’altro?» Grill permise alla sua mente di tartassarlo di domande, per poi immaginarsi quel ragazzo con i capelli neri ondulati e gli occhi verdi, con un casco da moto infilato nell’avambraccio, oltrepassare quelle porte scorrevoli.

«Non è più un ragazzo.»

La voce nella sua mente aveva ragione. Ormai Sirio Cralpo doveva essere un uomo, ma continuava ad immaginarselo con i capelli neri ondulati e quegli occhi verdi scintillanti, come figurava nelle foto.

«Commissario» la voce di Rotella lo riportò al presente, un presente in cui nessun Sirio Cralpo gli camminava davanti, un presente terribilmente noioso, nonostante l’allarme di una persona trovata morta, probabilmente vittima di un omicidio, all’interno di quell’ospedale.

«Che c’è?» si sentì chiedere Grill con la stessa voce gracchiante che aveva usato per rispondere a Cannarsa. Rotella gli indicò con lo sguardo un giovane uomo che indossava un camice bianco come tutti gli altri, ma su di lui troneggiava uno sguardo vuoto, camminava senza distogliere gli occhi dalle divise di Rotella e Vitti.

«Buona sera» disse quell’uomo una volta raggiunta una distanza di mezzo metro tra e Grill.

«Buonasera» dissero Vitti e Rotella all’unisono.

«È stato lei a chiamarci?» chiese Grill distrattamente. La sua attenzione era catturata in modo minimo solo da quello sguardo vuoto, provocato di sicuro dal terrore per aver visto qualcosa che il suo proprietario non immaginava minimamente.

«Sì» rispose l’uomo immergendo quello sguardo vuoto dentro gli occhi del commissario. «Sono il dottor Franchi» disse, emergendo dagli occhi di Grill dopo una piccola pausa.

«Io sono il commissario Grill. Loro sono gli ispettori Vitti e Rotella.»

«Piacere» disse l’uomo stringendo tutte le mani che gli capitavano a tiro. Aveva una stretta umida e tremolante. A Grill fu chiaro più che mai che quell’uomo aveva trovato il cadavere, e probabilmente non ne aveva mai visto uno se non durante gli studi di medicina.

«Cos’è successo?» chiese Grill appoggiandosi la mano destra sui pantaloni, cercando di non dare troppo a vedere che si stesse asciugando dal sudore di quell’uomo.

«Stavamo cercando il mio collega, e io… io l’ho trovato» disse l’uomo con voce tentennante.

«Ci porti dove l’ha trovato» disse Grill per zittirlo.

L’uomo li condusse verso l’ascensore più vicino, in silenzio. Le luci dell’ascensore erano ancora più fredde e forti di quelle nel corridoio. Una volta giunti al piano, le porte si aprirono, mostrando un corridoio pienamente illuminato, vuoto. In silenzio, Franchi li precedette camminando a passi incerti lungo il corridoio vuoto, tempestato da porte chiuse. L’uomo si fermò accanto all’unica porta spalancata, all’interno della quale le luci erano accese. Luci diverse rispetto al corridoio: erano calde, tenui.

«Qui dentro» disse Franchi scostandosi dalla porta. Grill si avvicinò a lui, fece per entrare nella stanza ma si bloccò. La stanza era completamente ricoperta di sangue. Era il sangue il protagonista di quella scena, molto di più del corpo morto disteso sul letto. C’era sangue sul pavimento, sulle pareti, qualche schizzo addirittura sul soffitto. Grill sentì Vitti e Rotella bloccarsi accanto a lui.

«Non possiamo entrare» sussurrò Vitti indicando il pavimento.

«E come lo analizziamo il cadavere?» disse Grill con voce aggressiva, senza staccare gli occhi dal pavimento. Nonostante la sua risposta secca, Vitti aveva ragione: non c’era modo di entrare in quella stanza senza compromettere nulla, il pavimento era totalmente ricoperto di sangue. Grill fece rimbalzare gli occhi su ogni angolo della stanza, ma il sangue ne ricopriva ogni centimetro.

«Vado solo io» sentenziò Grill indossando i copriscarpe blu di plastica.

Grill entrò nella stanza cercando di toccare al minimo il pavimento: camminava in punta di piedi, sentendo i polpacci sollevarsi verso le cosce. Si muoveva lentamente, cercando di compromettere al minimo la situazione, lasciando che i suoi occhi rimbalzassero dal pavimento al soffitto, seguendo gli schizzi di sangue che si estendevano su ogni superficie di quella stanza, fino a posarsi sul corpo. Lentamente, anche i suoi piedi si avvicinarono al morto, fino a poterlo toccare. Gli occhi erano ancora spalancati, coperti e un po’ nascosti dal sangue, che lentamente scorreva lungo le guance. Grill si concentrò sul viso: aveva dei lineamenti delicati, coperti da una leggera barba castana ben curata. L’uomo era nudo, coperto unicamente da un fiume di sangue che lentamente gocciolava sul pavimento. Grill osservò quella carne trafitta sullo stomaco, sul petto, sulle cosce, con piccole e profonde ferite che ancora sanguinavano copiosamente. Il corpo era come il viso: ben curato, coperto da una leggera peluria castana, muscoloso, lievemente abbronzato sul tronco e sui polpacci: gli ultimi lasciti di qualche settimana di ferie al mare. Grill alzò la testa dal corpo e sentì una scossa elettrica percorrergli la schiena. Era strana, e familiare al tempo stesso. La scossa gli aveva provocato una cascatella di brividi che gli percorrevano la schiena, poi il collo, le braccia. Si sentì come se avesse incontrato per caso un vecchio amico. Un sorriso gli si posò sulle guance, contornando la barba che scricchiolò debolmente.

«Non ha preso questi.»

La voce di Rotella accanto a sé lo fece tornare lì dove si trovava: non all’interno delle proprie sensazioni, ma accanto al corpo e all’interno della stanza insanguinata che gliele avevano provocate. Grill osservò Rotella: lo guardava con il suo solito viso, i suoi soliti occhi. Anche lui era in punta di piedi all’interno di un paio di copriscarpe blu di plastica e brandiva un paio di guanti in lattice, come quelli che indossava.

«Commissario, sta sorridendo, la prego» sussurrò Rotella appoggiandogli in mano i guanti.

«Cosa?» chiese Grill fingendo di non capire a cosa si stesse riferendo.

«Si controlli» sussurrò ancora Rotella.

«Non ho fatto nulla» protestò Grill come un bambino colto di fronte ad un rotolo di carta igienica pucciato nel water. Rotella sbuffò nascondendo un sorriso e Grill cercò di indossare i guanti infilando tutte le dita al primo colpo.

Il commissario riprese a camminare in punta di piedi: c’erano vestiti appallottolati sparsi qua e là attorno al perimetro del letto, imbevuti di sangue. Rotella seguì Grill ed entrambi si accovacciarono accanto al mucchio più grosso, ai piedi del letto, ed esaminarono gli indumenti macchiando di rosso i guanti di lattice. Un paio di jeans scuri, dentro ai quali c’erano un paio di slip neri con un elastico che esibiva la scritta, qualche ora prima bianca, navigare.

«Mutande dentro i pantaloni» pensò Grill, «la cintura ancora inserita nei passanti, lei gli ha slacciato la cintura e… no. No, prima il camice.»

«Come, commissario?» chiese Rotella con un paio di calzini un tempo neri in mano, che gocciolavano sul pavimento. Grill si alzò in piedi e camminò intorno al letto. Lanciò un’occhiata al corpo e sentì un’altra scossa alla schiena. Si sentiva quasi euforico, quel corpo gli chiedeva di capire cosa gli fosse capitato, e lui voleva scoprirlo. Alla destra del morto c’era un altro mucchietto di vestiti: anzi, era solo un indumento, un camice da dottore. Si distingueva da un grembiule da macellaio solo per una tessera plastificata pinzata alla taschina sul petto. Col dorso della mano guantata, Grill la pulì: era un tesserino di riconoscimento con la foto del morto che sorrideva fiero e felice.

Marco Selleri Pediatra

Ospedale Regina Margherita

Grill porse il tesserino a Rotella e si diresse verso la parte opposta del letto: c’era un altro mucchietto di vestiti, il commissario prese in mano quell’unico cumulo e cercò di sbrogliarlo. Un maglioncino di cotone un tempo blu conteneva una maglietta con un logo sopra, Grill lanciò un’occhiata a Rotella:

«È il logo dei Ramones, un gruppo punk.»

«C’è anche scritto» aggiunse Vitti appoggiato allo stipite della porta.

Grill finse di non aver ascoltato estrasse da quella maglietta in parte salva dal sangue una canottiera quasi interamente bianca.

«Ciao Grill» disse una voce comparsa appena sopra di lui. Il commissario non ebbe bisogno di alzare la testa per sapere a chi appartenesse.

«Cerchi, ciao. Dimmi un po’ cosa gli è successo.»

Il medico legale si avvicinò al corpo: «Di primo acchito sembra che la morte sia stata causata da questa ferita» cominciò, indicando la carne sanguinante alla base del collo. «Ce ne sono molte altre, tutte procurate dallo stesso arnese, oppure con più oggetti della stessa misura, ovvero molto piccoli. Un oggetto piccolo e affilato, come un…»

«Come un bisturi» concluse Grill per lui alzandosi in piedi.

«Come un bisturi» ripeté Cerchi. «Non ci sono segni di lotta sul corpo, come se non si fosse ribellato. Comunque ti saprò dire bene tutto dopo l’autopsia, come…»

«Come al solito» disse Grill.

«Come al solito» ripeté ancora Cerchi.

«Da quanto è morto più o meno?» chiese Rotella.

«Meno di tre ore» rispose subito Cerchi. «Vi dirò tutto nei prossimi giorni.»

«Grazie, Mario» disse Grill. Poi si rivolse a Franchi, che non si era mosso dallo stipite della porta dopo averli accompagnati: «Com’è che vi siete accorti del corpo? Non avete sentito nulla di strano?»

«Questo piano dell’ospedale è chiuso, commissario. Non ci sono pazienti macchinari qui. Ultimamente stiamo usando questa stanza come magazzino per il sangue da trasfusioni. Io ero al terzo piano e non ho sentito nulla.»

«E come vi siete accorti del corpo?»

«Avevamo bisogno di Selleri per un consulto, lui era reperibile e si era messo nella saletta relax al primo piano come tutti noi quando la notte siamo reperibili.»

«L’ha visto lei entrare nella saletta relax?»

«Sì, siamo entrati insieme, io sono in servizio, e lui era reperibile. Abbiamo bevuto un caffè insieme, lui si è coricato e io sono andato a fare il giro visite.»

«E poi?»

«Poi è arrivato un caso di epilessia infantile e il primario mi ha detto di cercare Selleri.»

«Come si chiama?»

«Il primario? Arillo, sarà al terzo piano.»

Grill annuì e Rotella appuntò il nome. «E quindi come l’avete trovato?»

«L’ho trovato io. L’ho chiamato e non ha risposto, allora ho cercato un po’ ovunque e per il rotto della cuffia sono venuto pure quaggiù. Nemmeno io so perché.»

«L’ha cercato in tutte le stanze?»

«Sono arrivato nel corridoio e ho notato che solo una porta era aperta. Sono venuto diretto qui e l’ho visto… l’ho visto così.»

«A che ora siete entrati?»

«Alle dieci.»

«E l’ha trovato alle?»

«Appena prima di chiamarvi, intorno alle due e mezza, mi pare.»

Grill spostò quella conversazione dalla sua testa e guardò di nuovo il corpo. Si concentrò, vide il tempo scorrere indietro, fino al momento in cui il morto non era morto e soprattutto non era solo. Immaginò il morto appoggiare alla porta chiusa della stanza 1012 una signorina mentre la bacia accarezzandole i capelli. Poi lei apre la porta, lui la prende in braccio e la butta sul letto bianco, immacolato, profumato di pulito. Lui le sfila la maglietta, la bacia sul collo e sulla pancia, lei si sfila la gonna e lui comincia a baciarla sulle cosce e sulla vagina completamente depilata. Se la immaginava così. Poi lei lo scosta, si piega su di lui, gli sfila il camice e lo butta alla destra del letto; lui si siede e si sfila in un colpo solo maglioncino, maglietta e canotta. Lei lo bacia sul petto e lo adagia a pancia in su, i piedi di lui, con le scarpe, sul cuscino. Lei gli apre la cintura, gli abbassa pantaloni e mutande quel tanto che basta per accarezzare, leccare e succhiare il suo pene. Lui si lascia andare al piacere, la testa gli sporge giù dai piedi del letto, afferra il lenzuolo immacolato da entrambi i lati del materasso, mentre lei lo accarezza con le labbra e la lingua. Il piacere è troppo intenso, lui si alza in piedi, si sfila le scarpe usando il tallone e la punta dei piedi, poi si sfila i pantaloni e si getta su di lei. «Perché per forza una donna?»

La sua stessa voce all’interno della sua testa lo disturbava, la cacciò, tornò di nuovo indietro nel tempo.

«L’incontro amoroso è sempre più appassionante e poi… lei come fa ad ucciderlo? Come mai lo ammazza? No. Zitto, Grill, il come mai ci interessa dopo, adesso vediamo come ha fatto… come ha fatto lei, per ora lasciamo che sia una donna.»

Il commissario si avvicinò per esaminare la testiera e i piedi del letto. C’era lo spazio per mettere quelle manette dei sexy shop oppure per usare qualunque laccio per fare giochi di bondage. Polsi e caviglie non presentavano niente di strano, o almeno, così sembrava. Le lenzuola c’erano tutte.

«Forse lei ha usato i propri vestiti.»

Lui a pancia in su, lei lo lega al letto polsi e caviglie, «magari lo benda anche.»

Poi, il primo colpo di bisturi alla carotide, così non può urlare. Anche se avesse urlato, difficilmente qualcuno avrebbe sentito. Lei sta per un attimo immobile, a guardarlo soffocare nel suo stesso sangue. Poi si fa prendere dalla folle euforia dei killer psicopatici e con lo stesso bisturi lo infilza con forza su tutta la carne che ha a disposizione. Dopo averlo ridotto come un arrosto con i buchini per le teste d’aglio, finalmente si alza in piedi.

«Oppure lo era già?»

Non importa, lei si ferma e guarda il suo operato. Si riveste, infila il bisturi nella tasca della giacca e poi, il genio. Subentra la fredda razionalità.

«Oppure sapeva già prima come avrebbe fatto? Pazienza, ora non ci interessa.»

Prende dalla taschina di lui un paio di guanti in lattice, li indossa, «lei riesce sempre al primo colpo», e poi attacca le bustine del sangue da trasfusioni. Una dopo l’altra le buca sopra il corpo del morto, lo innaffia di sangue e poi lo sparge ovunque. Ma apre ogni bustina sul suo corpo.

«Magari prima gli ha pure lavato il pene.»

È sicura di aver cancellato se stessa dal corpo del morto, e poi sparisce. Tutta macchiata di sangue, con un’arma in tasca, sparisce. Nessuno la vede. E se ne va.

Grill emerse dal suo sogno ad occhi aperti e si rivolse alla squadra: «Convochiamo tutti e andiamo.»

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Lucia Traina
Lucia Traina è madre di Stella e Simone, praticante pazzerella di aikido da un paio di decenni, traduttrice nello spirito, prof d’inglese nella realtà, una sognatrice tutti i giorni della sua vita. Sogna quando cammina con il naso per aria, sogna quando dovrebbe concentrarsi. Sogna quando legge, e soprattutto sogna quando scrive.
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