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Quando Scoppiano le Bolle

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In una spiaggia affollata, con uno Spritz in mano e tra risate che riecheggiano attorno a lei, Chiara si distingue: frizzante, irrequieta, incapace di contenersi. A Torino, invece, tra le afose e silenziose vie estive, Anna cammina accanto a Vittorio, il suo migliore amico, condividendo riflessioni su libri e canzoni degli anni Ottanta. Le loro vite, apparentemente così distanti, vengono sconvolte quando il commissario Grill inizia a indagare su un caso inquietante: il corpo di un giovane trovato in una stanza d’ospedale, ricoperto di un sangue che non gli appartiene. “Quando scoppiano le bolle” unisce il mondo giovane e frivolo, fatto di bar, chiacchiere e avventure amorose, e le atmosfere cupe e truci, che inghiottono Anna e Chiara, costrette a rivelare gradualmente un misterioso passato.

I.
Stanza 1012

«Dov’è Selleri?»

«Non lo so, dottore, dovrebbe essere in saletta» rispose Franchi osservando il ragazzino disteso sul letto. Era pallido, la fronte imperlata di sudore, gli occhi socchiusi lo guardavano attraverso un velo di lacrime.

«Chiamalo subito» sentenziò Arillo avvicinandosi al ragazzino.

Franchi si allontanò dalla stanza senza togliersi i guanti. Corse verso la saletta, schivando velocemente delle barelle spinte dai colleghi che si affrettavano a raggiungere i vari reparti. Era notte fonda, le fredde luci dei corridoi erano più tenui rispetto al giorno. I colleghi sussurravano, camminavano cercando di non fare rumore. Franchi non aveva tempo per curarsi del suono provocato dai propri passi: quel ragazzino aveva bisogno di Selleri, e lui doveva trovarlo subito. Spalancò la porta della saletta, lasciandola sbattere rumorosamente contro il muro. Accese di scatto la luce, illuminando la stanza vuota. Il bollitore era caldo, sul tavolo c’erano le due tazze di caffè che lui e Selleri avevano lasciato lì prima di cominciare il turno, ma lui non c’era. Prese il telefono dalla taschina del camice e lo chiamò a ripetizione, pigiando sull’icona rossa ogni volta che sentiva partire la segreteria telefonica. Continuando a chiamarlo corse a controllare in cortile, avvolto nel buio e nel silenzio. Corse di nuovo all’interno dell’ospedale, ispezionando ogni reparto. Arillo l’aveva già chiamato tre volte, chiedendogli notizie di Selleri, quando, poggiato accanto all’ascensore cercò di visualizzare i luoghi in cui non l’aveva ancora cercato. Entrò in ascensore dominato dal panico, confuso dalla ricerca. Guardò di fretta i pulsanti, cercando di ricordare quale piano mancasse, quando pigiò l’ultimo tasto. Mentre l’ascensore saliva si fissò allo specchio. Un moto d’ira lo pervase: Arillo voleva Selleri a tutti i costi, mentre aveva lui proprio lì accanto. Appena le porte dell’ascensore si aprirono, gli venne spontaneo il gesto di pigiare il tasto di pediatria, andare da Arillo e dirgli che non aveva trovato Selleri da nessuna parte, ma che lui poteva fare sicuramente meglio di quello stupido raccomandato. Le porte si aprirono, e, invece di schiacciare immediatamente il tasto tre, mosse un passo all’esterno dell’ascensore. Nemmeno lui sapeva come mai avesse pigiato il tasto dieci: non c’era nessuno. Le luci del corridoio erano spente. L’intero piano era immerso nell’oscurità. Era tutto buio, a parte una luce che filtrava da una porta verso il fondo del corridoio. Franchi guardò le porte dell’ascensore chiudersi, eliminando l’unica fonte di luce oltre la porta socchiusa verso il fondo del corridoio. Il desiderio di tornare subito da Arillo si stracciò: cominciò a camminare lentamente nel buio verso il luogo che lasciava trapelare una luce calda. Sentiva i suoi passi rimbombare lentamente nel buio. Prese il telefono dalla taschina del camice e attivò la torcia. Guardava i suoi piedi incedere lentamente verso la porta socchiusa e chiamò: «Selleri, sei qui?».

Come i passi, anche la sua voce si ritrovò a rimbombare nel buio. Lo chiamò ancora una volta, sentendo in risposta l’eco della propria voce. Poggiò la mano guantata sulla maniglia e aprì la porta. La luce accesa disturbò i suoi occhi, obbligandoli a socchiudersi. Immediatamente li spalancò, il telefono con la torcia attivata gli cadde di mano. Rimase immobile, incapace di chiudere la bocca o di sbattere gli occhi. Selleri era là. Probabilmente era Selleri. Una persona che gli somigliava e che poteva essere lui giaceva sull’unico letto presente al centro della stanza, costellata da armadi contenenti sangue per le trasfusioni, ma non erano più gli armadi a caratterizzare quella stanza. Su quel corpo, sul pavimento, sugli armadi, sulla porta c’era sangue. Franchi osservava lo spettacolo che gli si poneva davanti, facendo rimbalzare gli occhi dal pavimento, totalmente ricoperto di sangue, al corpo nudo, coperto da una enorme quantità di sangue, che gocciolava lentamente verso il basso, aggiungendo altro sangue a quello già presente per terra.

Un piccolo suono ruppe il silenzio glaciale di quella stanza, illuminata da un rosso acceso: era un telefono che squillava, ma non era il suo. C’era un telefono in quella stanza, da qualche parte, probabilmente immerso nel sangue come tutto il resto. Franchi si riebbe grazie a quel suono, e con la mano guantata raccolse il proprio telefono da terra: era insanguinato. Lo pulì con la manica del camice e chiamò Arillo, correndo nel buio verso l’ascensore.


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II.
Un soffio alla volta

L’acqua della doccia scorreva dolcemente sulla pelle liscia e olivastra di Beatrice. Chiuse gli occhi, si lasciò cullare dal suono delle goccioline che le tremolavano sulla testa, e rimbalzavano ticchettando sulle unghie dei piedi colorate di rosa. Appoggiò le mani sulle fresche mattonelle per sentire l’acqua scorrere sulla schiena indolenzita e lasciarla scendere dalla testa alla fronte, sulle ciglia. Erano ore che sognava quella doccia. Aveva ancora nel naso quell’odore di scarpe e scatole che avevano governato tutta la sua giornata. Tutto ciò che desiderava in quel momento era rimanere sotto il getto dolce e caldo della doccia, ascoltando la musica che usciva dal suo telefono. Per un attimo, la hit dell’estate si interruppe perché le era arrivato un messaggio, e in quel momento tornò sulla terra: era venerdì, di lì a poco sarebbe arrivata Chiara. Un moto di gioia le pervase tutto il corpo, si insaponò velocemente e, in un attimo, indossò il vestitino che aveva poggiato sul letto mentre era ancora stanca e puzzolente. Di fronte alla porta d’ingresso controllò di avere telefono, tabacco, portafoglio e chiavi di casa. C’era tutto, perfetto. Con un piede sullo zerbino e la mano sulla porta, decise di prendere il golf piegato con cura sul tavolino dell’ingresso per infilarselo in borsa, non si sa mai. Uscì di casa e si immerse nel profumo della sua piccola città. Camminava lentamente, osservando le famigliole di ritorno dalla spiaggia, spingendo passeggini carichi di giocattoli insabbiati, ombrelloni, borse traboccanti di asciugamani umidi e altri giocattoli ancora. Ascoltava il cinguettio degli uccellini, il cigolare di biciclette guidate da gang di ragazzini agguerriti, il lento passo di anziani che incedevano tenendosi per mano. Si fermò qualche minuto al bar dei vecchi, a pochi isolati da casa sua. Salutò suo padre e il solito gruppetto di bavosi che si sparavano un bianchetto dopo l’altro, a oltranza. Trovava in loro qualcosa di malinconico e allo stesso tempo terribilmente gioioso e pieno di vita. Gli amici di suo padre non facevano che chiederle quanti anni avesse, cosa facesse nella vita, se desiderasse un bianchetto anche lei. Ogni giorno, tutte le volte che decideva di capitare lì per salutare suo padre. Uscì dal bar dei vecchi sorridendo, dirigendosi verso il mare, seguendo il profumo di salsedine sempre più insistente. Appena i suoi occhi si immersero nel mare, si spostarono immediatamente sul Nebula, il locale in cui andava sempre. Quello era l’appuntamento fisso nella sua vita, il punto fermo in cui capitare per chiacchierare, bere e ridere con gli amici. E quella sera non sarebbe stato il solito luogo in cui chiudere la giornata, quella sera era venerdì, il giorno più bello di tutti, il giorno in cui ogni settimana Chiara arrivava da Torino.

Bea varcò la soglia salutando un po’ di amici, ordinò uno Spritz e si sedette al solito tavolo accanto ai soliti amici. Rimase qualche minuto a chiacchierare, senza parlare di niente, ascoltando Raffo che come al solito raccontava qualche cretinata delle sue, guardando Angi con sguardo complice, ridendo a qualche scemenza di Fabri.

«Bea!» prima che lei se ne rendesse conto, si accorse di avere una persona seduta a cavalcioni su di sé, che la stringeva forte e la inondava con una cascata di capelli castani. Bea sorrise: era lei, finalmente era arrivata Chiara. La strinse forte, ignorando i commenti maliziosi che erano esplosi intorno a quell’abbraccio. Con l’arrivo di Chiara, come ogni venerdì, Bea sentì tutto il mondo trasformarsi: le persone si facevano sorridenti, le chiacchiere erano contornate da più gioia, tutto era eccitante. Chiara sedeva accanto a Bea con uno Spritz davanti, alle prese con una sigaretta da girare. Era già all’opera: ogni settimana si presentava con mille storie da raccontare. Da come ne parlava, sembrava che il lavoro di infermiera fosse in assoluto il più divertente di tutti. Bea osservava Chiara, seduta sulla sedia di plastica del Nebula, completamente appoggiata allo schienale. Ogni tanto dava una boccata alla sua sigaretta, girata orrendamente, ogni tanto prendeva in mano il bicchiere per appoggiarlo sulle labbra nude. Tutto il tavolo era concentrato su di lei: «Vedo questo signore avvicinarsi al banco delle infermiere, aveva la faccia strana, io, cretina, ho pensato che fosse sotto shock perché qualche suo amico si trovava in ospedale. Allora mi sono avvicinata a lui e gli ho chiesto se tutto andasse bene. Lui mi guarda con un paio di occhi così folli che tra un po’ rotolavano sul pavimento, mi si avvicina. Noto che indossava un giaccone un po’ lungo e pesante per essere in piena estate, ma faccio finta di niente e lascio che mi si avvicini. Poi mi sussurra all’orecchio: “Vuoi vedere la bestia?”».

Tutti scoppiarono a ridere insieme a lei, che mimava la se stessa del passato, strabuzzando gli occhi e chiamando a piena voce il suo superiore.

«Ma che schifo!» urlò Angi dall’altra parte del tavolo.

«Infatti,» rise Chiara accendendosi la sigaretta, che nella foga del racconto si era spenta «poi, in quel momento, ero divisa a metà tra il ridere e il vomitare, ma alla fine non ho fatto né uno né l’altro. Sono solo rimasta con questa faccia strabuzzata per un paio d’ore, spaventando a mia volta i poveri pazienti.»

Bea attese che Chiara finisse la sigaretta, e che la conversazione si spostasse su altro, prima di lanciarle lo sguardo “stiamo un attimo da sole”.

«Allora, come stai?» Finalmente sole, appoggiate alla ringhiera del Nebula, Chiara guardava l’amica con occhi pieni di tenerezza.

«Non lo so nemmeno io» rispose Bea sentendo un groppo in gola. Sorseggiò il secondo Spritz appoggiata alla ringhiera del Nebula, evitando lo sguardo dell’amica e fissandolo sul mare.

«Ti manca?»

«Mi manca ogni giorno» rispose Bea bevendo ancora. «Ma non ho molta voglia di parlarne stasera, vorrei non pensare a nulla.»

Chiara sorrise e poi abbracciò l’amica. «Quello possiamo farlo, ma se poi ti viene voglia di parlare tirami giù dal cubo e andiamo nel nostro vicolo.»

Bea scoppiò a ridere, scacciando il groppo in gola che nel momento dell’abbraccio stava per trasformarsi in un pianto. «Grazie, tesoro. Ah, quindi stasera si balla?»

«Mah, vedi tu. Hai detto che non vuoi pensare, è agosto, siamo al mare, fai un attimo un conto ma mi pare proprio che il risultato sia finire a ballare come due cretine fino alle cinque del mattino. Lavori domani?»

«Sì, ma solo il pomeriggio.»

«Perfetto.»

Bea si immerse negli occhi bruni dell’amica. Se toccati dalla debole luce del sole, che incedeva verso il tramonto, come in quel momento, si potevano scorgere delle piccole venature verdi. Li trovava splendidi. Come lei, emanavano una luce piena di forza. Si immerse in quell’energia così vivida, e le sembrò quasi di sentire l’agitarsi di emozioni e sentimenti che abitavano lì dentro. Chiara guardava l’amica, i suoi occhi chiari come il mare erano tristi, lei si sentiva impotente. Bea aveva perso la madre qualche mese prima, dopo una lunghissima malattia. Si sentiva incapace di aiutarla davvero, non aveva idea di cosa poter fare per restituirle la gioia di cui aveva bisogno. Avevano trascorso lunghe ore a parlare, piangere, cercare di ridere e ubriacarsi. E poi, Chiara aveva capito che l’amica aveva bisogno di tempo, di continuare la sua vita, sapendo di potersi appoggiare a lei ogni volta in cui ne sentiva la necessità.

«Il secondo giro è andato» sentenziò Chiara poggiando il bicchiere sulla ringhiera.

«Ma che fai! Non metterlo lì che poi Michi ci sgrida» disse Bea con aria divertita, togliendo subito il bicchiere da quella posizione precaria.

«Come se fosse una novità» ridacchiò Chiara riappropriandosi del bicchiere, che ormai conteneva solo un paio di cubetti di ghiaccio mezzi sciolti. Le amiche tornarono al solito tavolo, che ora era soffocato da un numero raddoppiato di sedie, riempite da persone intente a chiacchierare rumorosamente. Subito, Chiara notò un volto nuovo. Prima ancora che lei e Bea potessero tornare dentro per chiedere a Michi il terzo Spritz, Raffo disse loro: «Lui è Claudio».

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Lucia Traina
Lucia Traina, nata a Torino nel 1991, è laureata in Traduzione editoriale, una scelta che le ha permesso di esplorare modi e mondi diversi. Pratica aikidō dal 1998, disciplina che coltiva con passione quotidiana. Insegna nella scuola secondaria di primo grado, unendo dedizione, creatività e una giusta dose di entusiasmo. Grazie ai suoi figli ha scoperto il coraggio di scrivere, dando vita a nuove storie ogni giorno. Non scrive per i bambini: scrive senza dimenticare cosa significhi esserlo.
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