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Quarantuno più sei

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Irene e Giacomo si incontrano in modo stravagante e iniziano una relazione piena di ostacoli e imprevisti, ma senza darsi mai per vinti. Cambiano Paesi, lavori, si scontrano con una realtà dura e terribilmente sconfortante, ma lo fanno sempre mano nella mano. Fino a quando, una notte, una discussione, la rabbia esagerata e un segreto troppo doloroso cambiano tutto. Due cuori distrutti, una lotta persa in partenza e la voglia di combattere nonostante tutto.
Quarantuno più sei: una somma senza un risultato numerico, una somma di sentimenti contrastanti e di lotte non sempre vinte. Quarantuno più sei: tre vite, due storie parallele, un grande amore, un terribile dolore.

 

17-03-2015
41+6.
Sono 41 settimane e 6 giorni che ti stiamo aspettando.
Nove lunghissimi mesi d’attesa, di impazienza, di gioia,
di felicità. Nove mesi di te. Sono le otto
del mattino e, come da una settimana a questa parte,
tuo padre e io siamo in ospedale, ma stavolta sappiamo
che siamo entrati in due e usciremo in tre. Oggi
mi ricoverano, mi inducono il parto e tra massimo tre
giorni sarai tra le mie braccia. Sento e so che sarà una
lunga giornata, ma non vedo l’ora di iniziare ad avere
queste benedette contrazioni, di iniziare a soffrire
per poterti mettere al mondo. Non ho paura. Sono
contenta e mi sento forte. Ho tuo padre al mio fianco e
ho te dentro di me. Siamo una famiglia, pronti a tutto.Continua a leggere
Continua a leggere

Mi hanno detto che devo fare varie prove: analisi
del sangue, elettrocardiogramma e visita ginecologica
per vedere se, miracolosamente, qualcosa è cambiato.
Come mi aspettavo, la situazione è sempre la
stessa, quindi si parte con l’induzione. Alle dieci del
mattino, la ginecologa viene a visitarmi e mi inserisce
una fettuccia che rilascerà degli ormoni in grado di
stimolare il travaglio. Visti gli scarsi risultati precedenti,
mi dice di non illudermi troppo, perché ci vorrà
sicuramente molto tempo affinché faccia effetto. La
ginecologa esce e una simpaticissima ostetrica mi fa
l’ennesimo tracciato per vedere come stai: stai bene,
amore mio, ma sembra proprio che tu non abbia nessuna intenzione di uscire.
Tuo padre fino a questo momento è stato con me,
ma ora inizia la lunga attesa e lo obbligano a uscire nel
rispetto degli orari di visita o almeno finché il travaglio
non sarà iniziato. In stanza ho delle mamme molto
simpatiche che mi incoraggiano e mi dicono che al
più presto ti avrò tra le braccia, quindi di riposarmi
un po’ e stare tranquilla. Di quattro letti disponibili,
ne occupiamo tre. La ragazza di fronte a me ha fatto
un cesareo, e proprio in forma non mi sembra, anzi,
tutt’altro. Però la vedo splendente e felice nell’avere
quel batuffolo tra le sue braccia, e quindi le sorrido.
L’altra mamma è sul letto a fianco al mio: il suo bimbo
è minuscolo, ma di una dolcezza incredibile. Non
smette di raccontarmi del parto, dei dolori e di tutti
gli imprevisti: non è molto incoraggiante. Decido di
leggere una rivista di gossip e di non pensare a nulla,
ma non ho nemmeno il tempo di sbirciare le prime
due pagine che ci chiamano per mangiare. È solo
mezzogiorno, ma ammetto di avere molta fame, quindi
tutta allegra mi dirigo verso la sala mensa. Quante
mamme, quanti bimbi! L’atmosfera è bellissima e mi
sento davvero felice. Il cibo, come mi aspettavo, non
è dei migliori, ma poco mi importa. Sono lì perché tu
stai per arrivare, e nient’altro ha importanza in questo
momento. Finito il pranzo, arriva tuo padre. Ridiamo
e scherziamo, anche se i primi dolorini iniziano ad
arrivare, ma non ho paura e con un po’ di leggerezza
continuo le mie chiacchiere. L’orario di visita è finito
e inizio a sentirmi parecchio male, quindi vado dall’ostetrica,
che decide di farmi un altro tracciato. La gioia e la
felicità iniziano a sparire dal mio viso e la paura
verso l’ignoto prende il sopravvento. Quell’ambiente,
che fino a un attimo fa era così accogliente, ora mi
sembra molto ostile e grigio. Mi sento sola. Ho male.
Sbrigati a nascere, per favore.
Sono solo le cinque, ma sto sempre peggio. Mi hanno
visitata, ma la dilatazione ancora non è iniziata.
Queste contrazioni non stanno servendo. Mi sento persa,
e una lacrima scende sul mio viso. Aiuto, non sono
pronta. L’ostetrica cerca di farmi focalizzare
sull’obiettivo finale, ma tutto mi risulta troppo difficile. Non ci
riesco. Non riesco a essere felice con questi dolori lancinanti.
Chiedo che venga tuo padre e mi dicono che a
breve lo lasceranno entrare. I minuti non trascorrono,
mi sembra che il tempo si sia fermato. «Piccolina,
perché fai così? Sono la tua mamma, ti amo, nasci in
fretta per favore.» Finito il tracciato mi fanno uscire
da quella che sarà la nostra sala parto e mi dicono di
tornare a letto per riposare. Riposare? Come potrei?
Le contrazioni sono rapide e continue: non mi danno
tregua e mi stanno distruggendo. A breve dovrebbero
arrivare i tuoi nonni, ma mi sento morire. Li chiamo e
gli dico di non venire. Troppo tardi. Sono già in viaggio
e vogliono comunque salutarmi. Sto per crollare,
non so a cosa pensare, tutto mi dà fastidio. Chiamo
l’ostetrica, che mi consiglia di fare una doccia. Insieme
a tuo padre mi dirigo verso il bagno, dove fa un
freddo incredibile. Ho i brividi, ma mi devo spogliare.
Da poco ho rotto le acque e sono tutta sporca e bagnata.
Mi spoglio, lasciando le mutande con questo orrendo
assorbente che mi dà tanto fastidio, entro nella
doccia e mi siedo per terra, sulla ceramica. Mi sento
male, la pancia è dura come una pietra, non riesco a
respirare. Tuo padre cerca la temperatura migliore e
inizia a farmi scorrere l’acqua bollente sul corpo. A
tratti, mi sembra di sentirmi un po’ meglio. Fisso un
punto, non so quale, ma lo fisso. Non muovo nessuna
parte del corpo, gli occhi semichiusi e la respirazione
profonda. Mi isolo, cerco di non pensare a nulla, di
rilassarmi. Qualcuno bussa. È mia mamma. Vuole sapere
come sto. Non rispondo, non riesco. Al posto mio
le risponde tuo padre. Mi chiede se voglio vederla. Le
dico che non voglio nessuno attorno a me. I tuoi nonni
tornano nella mia stanza e attendono. Arriva l’ostetrica,
poco delicata e molto sorda, che mi dice di lavarmi
da sola, perché così stiamo bagnando tutto. Ma che
me ne frega. Io sto morendo e lei pensa al bagno. Non
ci posso credere. Provo a farmi la doccia da sola, ma
non ci riesco. Esco da quel posto che mi ha dato un
po’ di sollievo. Perdo sangue, sono sporca, infreddolita
e persa. Completamente persa. Provo a vestirmi e
torno in camera. Mia mamma mi attende e mi aiuta a
tornare a letto. Capisce la situazione e con tuo nonno
se ne vanno. Forse non sopportano di vedermi così,
forse anche loro sono spaventati, forse non sta andando
tutto come pensavamo. Provo a sdraiarmi sul letto,
ma non ci riesco. Ho troppo male. Mi siedo con il viso
piegato in avanti, gli occhi chiusi e le mani sulla pancia.
Non ce la faccio più. Torna l’ostetrica molto sorda
e poco delicata. Ti controlla. Stai bene. Tu stai bene,
io penso che non ce la farò. L’ostetrica ha finito il suo
turno e mi lascia nelle mani di un’altra. Meno male.
Questa non la sopportavo proprio. Guardo tuo padre.
Sta scrivendo. Beato lui. Io sto male.
Passa mezz’ora e avverto che qualcosa sta cambiando.
I dolori sono lancinanti, davvero sento che non
può essere tutto stabile e statico. Dico a tuo padre che
chiami la nuova ostetrica: viene. È dolce, adorabile e
mi dice di andare in sala parto per fare l’ennesimo controllo.
Non riesco nemmeno a camminare. Mi accascio
a terra. Vorrei gridare, ma non ho la forza di farlo. Tuo
padre dice che esagero. Non è così. I dolori sono troppo
forti, coltelli che mi attraversano l’addome senza pietà.
Arrivo alla sala parto. L’ostetrica mi visita. Sto malissimo.
Mentre infila la mano nella mia vagina, ho una
contrazione. Mi contorco, grido e piango. Niente. Dilatazione
di zero centimetri. «Ma com’è possibile? Tutti
questi dolori allora?» Non ci posso credere. Ennesimo
tracciato. Lasciano entrare tuo padre. Quando arriva
sono seduta senza forze e completamente distrutta.
Non capisco perché questo dolore non serva a niente.
«Allora quando le contrazioni saranno quelle utili
come starò?» Espongo questo pensiero all’ostetrica,
che mi dice di non demordere. Mi dà dello zucchero.
Non ho cenato, ho i conati di vomito e la mia pressione è
troppo bassa, per cui potrebbe creare problemi. Ci
lascia un momento. A ogni contrazione inizio a spingere.
Non capisco perché. È una sensazione orribile. La
pancia durissima, il coltello che l’attraversa e questo
impulso di natura sconosciuta. Dopo poco torna l’ostetrica.
Guarda il tracciato. Se ne va. Torna con due ginecologhe.
Mi fanno sdraiare sul letto e continuano a
fissarmi. Sono quasi le ventuno. Tuo padre mi guarda,
spaventato. Non ce la fa più nemmeno lui. Di colpo si
rendono conto che sto spingendo. Mi chiedono perché
lo faccia. Dico che non sono io che lo decido ma che è
un impulso. Mi continuano a guardare. Mi chiedono
se lo stimolo che ho sia simile a quando si fa la cacca.
Dico che non lo so, perché arrivati a questo punto non
so più nulla. Aiutatemi e smettete di farmi domande.
Continuano a guardare il tracciato. Qualcosa non va,
ma nessuno dice niente. L’ostetrica decide di togliermi
le mutande – che avevo rimesso per non perdere la
fettuccia – per controllare. L’assorbente è pieno del tuo
liquido, il liquido amniotico che ti ha accompagnato
in questi nove mesi. La fettuccia è finalmente uscita.
Spingendo devo averla espulsa. Decide di visitarmi di
nuovo. Basta. Non toccatemi più. Mi infila nuovamente la
mano, e guardando le ginecologhe dice: «È pronta.
Completamente dilatata. Dieci centimetri in dieci minuti.
Preparate la sala operatoria». Finalmente, penso
io. Mi visita una seconda volta per essere sicura. Che
dolore lancinante. Basta.
Sono tutti increduli. Più di tutti, tuo padre. Inciampa,
fa cadere un macchinario, abbozza un sorriso. Mi devo
alzare e andare in un’altra sala. Purtroppo
non nascerai dove sono ora: qui, in un letto comodo
o nell’acqua, con immagini di palme e un’atmosfera
rilassante. No. Nascerai in una stanza fredda, bianca,
con le luci forti, strumenti e il necessario per qualsiasi
imprevisto. In una sala operatoria. Perché non stai
bene. Questa dilatazione improvvisa ti ha creato sofferenza
e il tuo cuoricino va un po’ più lento del previsto.
Non me lo dicono chiaramente, ma dalle loro
facce capisco o almeno intuisco che qualcosa non va.
A fatica arrivo sul lettino: orizzontale, metallico, orribile.
Mi sdraio. Punto i piedi come mi dicono loro e
tuo padre mi sostiene la testa. Ci sono due ginecologhe e
quattro ostetriche. Sono quasi le ventidue. Fisso
l’orologio. Non vedo l’ora che tutto finisca. Mi spiegano
che a ogni contrazione devo spingere più forte che
posso. Ho due maniglie a cui mi posso attaccare per
fare ulteriore forza. Devi uscire, in fretta, non possiamo
perdere tempo. L’ostetrica decide di farmi l’episiotomia
da un lato della vagina, per farti uscire più facilmente.
Mi fa una piccola anestesia locale e zac. Taglio
fatto.
Arriva la prima contrazione e spingo, spingo con
tutta la mia forza. Nel frattempo l’ostetrica inserisce
la mano e fa delle manovre. Non sento dolore, nulla mi
dà fastidio, penso solo a spingere. Ti voglio, ti voglio
follemente tra le mie braccia, sana e felice, sorridente
e adorabile, così come ti ho sempre immaginata. Mi
dicono che devo spingere di più, con maggiore convin-
zione, ma le mie forze sono quel che sono. Mi fanno
una flebo e introducono dell’ossigeno dal naso. Sono
debole, forse troppo per affrontare questa situazione,
ma non ho più paura. Ora tutto dipende da te. Tuo padre
da dietro mi aiuta, mi sostiene la testa, mi dice di
spingere, spingere forte. Per la prima volta in tutta la
giornata lo ascolto. La sua voce ora mi è amica, alleata
e lo amo. Spingo nuovamente, con tutta la forza che
ho, grido, mi sfogo, non ce la faccio più. Quanto manca?
La ginecologa mi spiega che alla prossima spinta
mi aiuterà. Non so cosa intenda. Vedo solo che prende
un lenzuolo, lo piega a metà, lo appoggia sulla parte
superiore della mia pancia, che è ancora molto alta, e
quando spingo preme la pancia verso il basso, il lenzuolo
l’aiuta a non perdere la presa. Inizi a scendere.
Ti sento più in basso. Sei lì. Lo so. Ulteriore spinta:
questa volta è l’altra ginecologa a premere con il gomito,
con forza, e ti sento scendere ulteriormente.
Continuo a gridare, non di dolore, ma per sfogare tutta
la paura accumulata, tutto il dolore sofferto nelle
ore passate. Do ulteriori spinte e mi sembra che tu
non ti stia più muovendo. Dove sei, amore mio? L’ostetrica
dice che vede la tua testolina, che hai tanti
capelli e ammicca un sorriso. Un’altra ostetrica mi
aiuta, mi indica come comportarmi, mi consiglia di
fissare l’addome e tirare su la testa a ogni spinta.
L’ascolto. Per la prima volta in vita mia ascolto tutto ciò
che mi viene detto, e osservo. Osservo lo sguardo preoccupato
delle ginecologhe, la mano dell’ostetrica che
entra ed esce, lo sguardo amichevole della sua collega,
ascolto la voce di tuo padre. Inizio a sentire bruciare.
Ci siamo. Sei quasi fuori. L’ostetrica mi dice di dare la
spinta più forte di cui sono capace. Mi dice di mettercela tutta,
che sto facendo tutto molto bene e che questo potrebbe essere
lo sforzo finale. Sento che manca
poco a quella contrazione che potrebbe essere la fine
di tanta sofferenza e l’inizio di una nuova vita. Arriva.
Spingo, spingo fortissimo, con tutta la forza che mi rimane,
e grido, come non ho mai gridato in vita mia. È
un momento, un secondo. Sei lì, tra le braccia dell’ostetrica.
Ti guardo, hai tantissimi capelli, sei grande,
sei bella. Non piangi.
Sono le ventidue e diciannove minuti, sei nata e
non piangi.
Mi si ferma il cuore. Qualcosa non va. Vedo che
tagliano immediatamente il cordone e ti posano tra
le braccia della pediatra. Ho perso molto sangue e te
lo sei bevuto tutto. I tuoi polmoni ne sono pieni. Non
puoi respirare. Ti fanno una manovra, pochissimi secondi
e io e tuo padre ascoltiamo il tuo urlo. L’urlo più
bello del mondo, l’urlo di una nuova vita, l’urlo che
dice che stai bene.
Continuo a perdere molto sangue. Questo parto così
rapido e violento ha causato un’emorragia. Non riescono a
individuarla, né a capirne l’entità, e nel frattempo
espello anche la placenta. Orribile. Tuo padre è lì, vede
tutto e non dice nulla. Mi stringe la mano, mi bacia e mi
dice che finalmente ce l’abbiamo fatta. Ti mettono tra le
sue braccia ed entrambi uscite dalla sala, insieme alla
pediatra e a due ostetriche. Tuo padre chiede il perché di
questo allontanamento e gli rispondono di non preoccu-
parsi e che a breve mi vedrà. Sono di nuovo sola. Sei appena
nata e sono sola, sola con l’ostetrica rimasta e con
le due ginecologhe. Hanno una sacca in mano, piena del
mio gruppo sanguigno. Non sanno da dove provenga l’emorragia,
ma la devono fermare il prima possibile. Vedo
che prendono ago e filo e aprono, controllano, toccano.
Non sento nulla. Ormai non sento più nulla, possono
farmi ciò che vogliono. Iniziano a cucire, da una parte e
dall’altra, frugano come nel fondo di una borsa, mi iniettano
ancora un po’ di anestesia, controllano, dubitano e
continuano a toccare.
Hanno finito. Sei uscita così in fretta che mi sono
completamente squarciata, tanto fuori quanto dentro.
Dopo una quantità di punti assurda, mi mettono un
pannolone con del ghiaccio, mi dicono che per il momento
devo stare sdraiata e che al massimo tra quattro
ore devo aver fatto la pipì. Mi fanno sdraiare sul letto
e mi portano in un’altra stanza. Lì ci sei tu amore mio,
tutta coperta, con i capelli arruffati, gli occhietti vispi,
tra le braccia di tuo padre, profondamente orgoglioso e
felice. Sono in paradiso. Per la prima volta eccoci tutti
e tre insieme, siamo una famiglia: io, te e papà. Sono
ancora incredula, dolorante, sporca di sangue e sfinita,
ma non sono mai stata così felice. È stata davvero dura,
ma a poche ore dalla fine di questa lunghissima giornata
hai fatto capolino nella nostra vita. A 41 settimane e
6 giorni sei arrivata, angelo mio. Ti ho finalmente
sul petto e già stai cercando il mio seno. Non ho idea
di come tenerti e come metterti, sono proprio buffa e
completamente inutile, in questo momento. Un’ostetrica
si avvicina, ti sistema su di me e trovi in automa-
tico il mio capezzolo. La tua prima volta come figlia, la
mia prima volta come mamma. Papà ci osserva innamorato. Il
nostro primo contatto, amore, la prima volta
che ti nutro, ti accarezzo e ti ammiro. Tremo, piango e
sorrido. Sei davvero qui, sei davvero qui con me, è amore,
amore puro, vero e infinito. Un momento che vorrei
non passasse mai, un momento intimo, forte, emozionante.
Ti amo angelo mio, tutto il resto è già dimenticato.
Soffrirei di nuovo allo stesso modo o ancora di più
per averti qui, come adesso, tra le mie braccia, mentre
con la tua boccuccia ciucci quel poco di colostro che ho
ma che ti darà le prime vitamine di cui hai bisogno. È
la prima volta che mangi senza il tuo cordone. Ti nutro
io, ma stavolta in modo diverso. Ciucci in modo dolce,
inesperto, sembri un piccolo gattino, spaurito e insicuro.
Entrambe dobbiamo conoscerci. Ci conosciamo da
nove mesi, ma tu mi hai vista solo da dentro. Ora dovrai
abituarti alle mie mani, alle mie braccia, alla mia bocca,
ai miei occhi e alla mia voce. Dovrai abituarti alla
persona che ti ama di più al mondo, alla tua mamma.
Con questi pensieri in testa, decido di chiamare la mia
di mamma, tua nonna.
È andata via verso le venti e trenta perché le avevano
detto che l’attesa sarebbe stata ancora lunga e
che non aveva senso che aspettasse. Sarebbe invece
stato meglio che fosse andata a dormire, visto che prima
di diverse ore non c’era possibilità che nascessi. Il
telefono squilla, una volta, due, tre…
«Mamma, è nata. È già nata.» Dall’altra parte non
sento nessuna voce, solo le lacrime, lacrime di gioia e
incredulità.
«Come “è già nata”? Com’è possibile?»
«Sì mamma.» Poche parole tra di noi. Ti vedranno
domani, ora è troppo tardi, non gli permetterebbero
di entrare.
Nel frattempo un’ostetrica mi ha portato del tè e
dei biscotti. Non ho fame, non ho sonno, voglio solo te.
Bevo, bevo in fretta, ho tanta sete. È normale… in questi giorni
il mio corpo si attiverà per produrre il latte
e mi chiederà tantissima acqua. Ma purtroppo, dopo
pochi attimi trascorsi tutti e tre insieme è arrivato il
momento di salutarti nuovamente. Andrai con papà a
fare il primo bagnetto, e io ti aspetterò nella stanza.
Infatti non mi posso alzare, non me lo permettono, e
in ogni caso non ce la farei proprio. Non capisco, io ti
amo così: sporca, con i capelli appiccicati dal liquido
rimasto, gli occhietti semichiusi, le gambette ancora
rannicchiate. Non mi interessa che ti lavino. Sei la
bimba più bella del mondo già così. Non te ne andare.
Non mi lasciare sola.
In vostra assenza, dalla sistemazione accanto
alla sala operatoria mi riportano nella mia stanza. La
mia compagna di letto è sveglia. Le dico qualcosa, ma
non ho voglia di parlare. Voglio solo stare con te e tuo
padre. Attimi che sono interminabili. Ma dove siete?
Mamma è qui. Venite.
Sento un rumore: delle piccole rotelline si avvicinano
alla mia stanza. Siete voi. Vi riconosco. Fremo,
fremo dalla voglia di vederti con la tutina che abbiamo
scelto io e tuo padre qualche giorno fa. È tutto
buio, è notte fonda, ma io non ho intenzione di dormire.
Eccovi. Tuo padre è sorridente, e tu? Amore mio,
sei qui, mezza addormentata, probabilmente più stremata di me,
ma serena. Per la prima volta vedo bene il
tuo viso. Hai degli occhi allungati davvero particolari
e quasi orientali, data la loro grandezza, profondità e
intensità, tanto marcate che sembra che già parlino.
Sono di una forma davvero speciale, che non avevo
mai visto prima. Le tue sopracciglia sembrano dipinte come
una piccola riga perfetta sopra gli occhietti e
le tue ciglia sono talmente corte e piccole che a malapena
si intravedono. Il nasino è un capolavoro: così
piccino e all’insù che davvero non so da dove sia venuto
fuori. La tua boccuccia è un cuore: il labbro superiore
è sottile, rosa e delicato, così come l’inferiore. Ti
guardo, anzi, ti ammiro. Ancora non ci posso credere:
sei qui, di fianco a me, addormentata come un angelo,
dolce e felice, serena, senza pensieri perché sei piccola,
sei appena nata e nulla può turbarti. Non voglio
dormire, non ne ho voglia. Ho paura che sia solo un
sogno, che svegliandomi tu non esista più, quindi ti
stringo la piccola manina e ti osservo. Osservo come
respiri in modo molto irregolare: a volte velocissimo
e altre sembra che il tuo addome nemmeno si muova.
La luce del sole inizia a filtrare dalle serrande, un
raggio ti accarezza il corpo e sei ancora più bella.
Per essere sicura di non addormentarmi ho deciso
che ti racconterò una storia, la più bella che conosco.
Una storia che conosco solo io, che non si trova in
nessun libro. Una storia dove non ci sono né principi
né principesse, né draghi né mostri, né vincitori né
perdenti, né guerre né pace. Una storia d’amore, d’amore vero.
Una storia che ti accompagnerà in questi primi attimi di
vita e che spero ti dia la voglia di affrontare ogni
giorno nel migliore dei modi. Non la chiamerei una storia,
ma la storia.
Chiudi gli occhietti se vuoi, amore mio, sono sicura che
ascolterai ugualmente la mia voce, un po’
stanca ma colma di felicità e gioia. Accarezzo quei capelli
bellissimi che hai, ti do un bacino sulla manina
e inizio…

22 novembre 2018

Evento

Lo spazio che non c'è, Via Talucchi 2, 10143, Torino ❣️Giovedì 22 novembre alle h 17.30 a Lo Spazio che non c'è, presenterò il mio libro 📖 ❣️ Un libro appena pubblicato che rappresenta un regalo molto speciale, un regalo pieno di sentimento, dedicato alla mia prima figlia, che trasmette "sapore" di mamma, che sa di me. Io e Quarantuno più sei vi attendiamo per una serata di domande, confronti, sorrisi e perché no... qualcosa di goloso per accompagnare un momento di condivisione, di pura gioia, un momento tanto atteso e finalmente arrivato. Quarantuno più sei è già pronto. E voi? I bimbi potranno divertirsi con un’attività ispirata a Bruno Munari (dai 3 anni) in cui potranno realizzare il loro libro-casa. Piccoli scrittori al lavoro! EVENTO GRATUITO Prenotazione obbligatoria. 3939094259 lospaziochenonce@gmail.com Lo spazio che non c'è quarantuno più sei
26 ottobre 2018

Aggiornamento

A volte le piattaforme così definite "social" servono per far incontrare persone, magari con la stessa passione per l'arte e per iniziare un percorso insieme. Qualche mese fa, eArs mi ha contattato per sapere qualcosa di più sul mio libro. Ho avuto il piacere di chiacchierare con lo staff e abbiamo deciso di intraprendere una collaborazione. eArs ha l'obiettivo di avvicinare le persone al mondo dell'arte e della cultura. Come lo fanno? Realizzano degli audio da un minuto per fornire una chiave di lettura delle opere d'arte e allo stesso tempo audio da un minuto per recensire libri e film. Un grazie infinito a @eArs  
12 ottobre 2018

Aggiornamento

La mia prima intervista per il sito web www.iocelhofatta.com: potete leggerla a questo link.    
23 Febbraio 2018
È finalmente online la pagina Facebook di "Quarantuno più sei"! Seguitela per ricevere tutti gli aggiornamenti sul libro! https://www.facebook.com/armesto86/

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Un po’ di ‘Non ti muovere’, un po’ di O. Fallaci (…una goccia di vita scappata dal nulla…). Scrittura fluida, frasi lunghe e altre più brevi e taglienti. Ottimo ritmo. Bravissima Elisa. Sembrava di stare in travaglio con te!

  2. Ely, sei semplicemente una grande!
    Mi hai riempito il cuore di gioia e gli occhi di lacrime solo con 10 pagine di anteprima.
    Sei riuscita a riassumere e tradurre in parole la persona unica e speciale che sei.
    Ti auguro il meglio.

  3. Fantástica obra!!!
    Un relato maravilloso, comprarlo y leerlo, os lo recomiendo. Con una sutileza cautivadora, intrigante, apasionado…
    De verdad leerlo!!! Solo puedo decir, fantástico.

  4. Elisa Armesto

    (proprietario verificato)

    Grazie mille del commento Federica Tarello. Poche righe che però riassumono esattamente ciò che volevo trasmettere. Spero che il libro ti entusiasmi tanto quanto l’anteprima!

  5. (proprietario verificato)

    Ho letto l’anteprima e ne sono stata completamente travolta. Mi sembrava di essere lì, accanto a questa mamma e di vedere la sua piccola meraviglia con i suoi stessi occhi. Non vedo l’ora di leggere il resto. Sensibilità, emozione, realismo e dolcezza si intrecciano nell’autenticità della vita.

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Elisa Armesto
ELISA ARMESTO, nata a Torino, all’età di ventidue anni decide di lasciare il suo Bel Paese per vivere in diversi luoghi d’Europa: approfondisce i suoi studi in Spagna e ottiene il titolo di traduttrice alla University of Westminster a Londra. Sposata e madre di due figli, Quarantuno più sei è il suo primo romanzo.
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