La musica giungeva flebile alle sue orecchie, ma l’intensità sembrava aumentare lentamente. Nella piccola orchestra riusciva a distinguere un pianoforte, sicuramente degli archi, forse dei fiati e una chitarra. Poi una voce maschile, bassa e caldissima, iniziò a cantare, quasi recitando, dei versi in inglese.
coro femminile rispondeva e accompagnava l’interprete al termine di ogni strofa, cullando il brano, per introdurre e lasciare spazio al ritornello. Nessun cambio di ritmo: tre quarti. Un tempo anomalo per un pezzo pop, per quanto l’impostazione classica degli strumenti scelti rendesse difficile inserire la canzone in una categoria così precisa. Un valzer. La parola waltz, ripetuta più volte da quella voce incalzante, rese vana tutta l’istintiva analisi fatta fino a quel momento.
Solo allora cominciarono ad arrivare le immagini.
La sala non appariva così grande, nonostante il suono si diffondesse con un’eco vagamente fastidiosa, e il bianco splendente delle pareti costringeva Marco a socchiudere le palpebre. Si rese presto conto di non aver bisogno di voltare lo sguardo in tutte le direzioni: stava già girando su se stesso, scivolando sui blocchi di marmo quadrati che componevano il patchwork della pavimentazione. Di fronte a lui volteggiava una donna di cui ancora non riusciva a distinguere l’identità, avvolta in un lungo abito rosso. La mano sinistra di lei era stretta alla sua, distante dal corpo, mentre la destra premeva sull’avambraccio e la vibrazione delle dita, a ogni passo, gli provocava un piacevole solletico. Marco tratteneva la donna a sé con una ferma carezza sulla schiena nuda che le luci accese e il caldo estivo rendevano appena madida di sudore. Una leggera perla liquida scivolò seguendo il suo inevitabile percorso dal collo lungo la dorsale, e si infilò tra l’indice e il medio, destandolo dalla concentrazione del ballo.
Ormai assuefatto al bagliore emanato dai riflessi circostanti, fu in grado di allungare la focale, superando quel volto ancora ignoto. Il salone, che in principio Marco aveva giudicato quadrato, si presentava con una forma più complessa: gli angoli in effetti non si chiudevano a novanta gradi, ma erano smussati da una parete diagonale, formando nell’insieme un ottagono, costituito da quattro lati lunghi e quattro corti, due dei quali quasi interamente occupati da gigantesche finestre ad arco. La parete lunga che univa i segmenti diagonali proseguiva con due finestre identiche, poste simmetricamente al fianco del portale centrale, anch’esso arcuato e vetrato. Tutti gli infissi erano aperti e all’esterno due lunghe file di fiaccole a terra illuminavano un giardino che sembrava potesse distendersi all’infinito.
La parete opposta era speculare alla prima, con alcune differenze: sulle diagonali corte, gli archi a tutto sesto formavano due piccole cappelle, mentre le tre arcate centrali separavano l’ambiente da uno spazio decisamente più angusto. In questo corridoio – non avrebbe saputo come definirlo altrimenti –, Marco individuò finalmente l’orchestra. Alle spalle dei musicisti, una scalinata conduceva verso un misterioso piano superiore.
La coppia roteava su se stessa seguendo un complicato percorso, dettato da un’invisibile linea curva che improvvisamente si stringeva per permettere ai ballerini di compiere un giro completo intorno a uno dei quattro pilastri disposti al centro della sala, per poi gonfiarsi di nuovo verso l’esterno e comprimersi nuovamente in prossimità del pilastro successivo.
Il soffitto, ricchissimo di stucchi, era suddiviso in nove magnifiche volte a vela, ma ciò che colpì maggiormente l’interesse di quell’uomo danzante – in un impeccabile smoking nero – fu proprio la forma dei pilastri che sostenevano la copertura: quattro impressionanti statue di Atlante, in uno sforzo sovrumano, sembravano sorreggere non solo quel solaio o l’intero edificio, ma addirittura un impero.
Marco posò nuovamente gli occhi sul volto della sua compagna scoprendone dei tratti familiari, senza ancora riuscire ad assegnarle un nome. Sfuggì al sorriso malizioso di lei, facendo slittare le pupille verso il basso, perdendosi prima nella scollatura del vestito, per poi fermarsi sulla piccola opera astratta che le minuscole venuzze bluastre le disegnavano sulla caviglia nuda, lasciata scoperta dallo spacco sull’ampia gonna e costretta da un laccetto del sandalo nero. Conosceva quelle scarpe, anche se non ricordava dove le avesse già viste. Notò però quanto fossero simili a quelle indossate dalla donna della coppia che seguiva, alla loro destra, l’itinerario di quell’assurda danza.
Fu la prima volta in cui si rese conto che non erano gli unici a ballare in quella sala. Continuando a girare meccanicamente, contò dieci paia di piedi femminili, tutti coperti da scarpe identiche. Quando gli occhi iniziarono il percorso inverso, un brivido d’inquietudine vibrò lungo la sua schiena: il candore iniziale della sala era ora invaso dal turbinio rosso creato dagli abiti, che si aprivano a ruota senza mai sfiorarsi. Giunti di fronte al portale, la musica cessò di colpo. Tutti rimasero immobili nell’attesa di qualcosa. Non riusciva a vedere il volto di nessuno degli uomini, voltati di spalle, mentre il viso della stessa donna, ripetuto circolarmente per dieci volte, lo osservava da ogni angolazione possibile. Marco tentò di muoversi, senza riuscirci. Non sentiva più le mani, né il sudore, né altro. Il capo della ragazza con cui aveva ballato fino a quel momento si inclinò lentamente verso l’alto contemporaneamente a quello delle altre, le labbra si schiusero ed esplosero in una violenta, sincronica risata.
Appena si svegliò, l’unica immagine che ricordava era il fermoimmagine di quella bocca distorta, coperta solo in parte da grandi A, H e punti esclamativi, come fossero disegnati in un fumetto. La splendida compagna di liceo era tornata a tormentarlo nei suoi viaggi notturni senza senso.
Spense la radio, rimasta accesa dalla sera prima. L’unico rimedio infallibile per combattere l’insonnia che non prevedesse la somministrazione di magiche pastiglie – di cui aveva fatto abbondante uso negli anni precedenti –, consisteva nel collegare il cellulare al sito di una stazione radiofonica, che aveva in archivio decine di libri letti e recitati magistralmente da attori professionisti, e lasciare che la voce e le parole lo accompagnassero verso il sonno profondo. Non era mai riuscito a superare il primo capitolo di ognuno di questi e, evidentemente, L’amante di Yehoshua non aveva fatto eccezione. La canzone di Leonard Cohen, che durante la trasmissione fungeva da sottofondo musicale al testo, nel mistero creativo dell’inconscio era diventata colonna sonora e ispirazione di quel sogno già dimenticato, trascinando il protagonista – e artefice inconsapevole – nella Sala Terrena del Belvedere di Vienna.
Marco rimase qualche istante nel letto, poi il suono della coda di Corbu, che colpiva la coperta all’incessante ritmo di 120 battute al minuto, lo costrinse ad alzarsi e ad affrontare il nuovo giorno. Come ogni mattina, il cane lo seguì nervosamente in tutti i rapidi tragitti casalinghi, dalla camera da letto alla cucina, dalla cucina al bagno, poi di nuovo in camera, quindi in salotto fino alla gioia suprema, in corridoio, dove Marco prese il guinzaglio – segnale inequivocabile dell’imminente uscita – e aprì la porta, pronto a scortare il quadrupede in direzione del primo albero su cui espletare le sue funzioni corporali.
Testaccio accolse i due flâneur sorprendendoli con un caldo primaverile. Le finestre di quasi tutti gli appartamenti erano spalancate, grate per quell’inaspettato tepore. Due anziane signore salutarono Marco e Corbu con un impercettibile movimento della testa e un abbozzo di sorriso, poi tornarono alle loro chiacchiere. Sedevano su una lunga panchina curva in cemento, sotto agli alberi al centro del grande spazio circondato dai palazzi, e indossavano la consueta divisa d’ordinanza da cortile – che in questo quartiere è considerato come un’estensione della propria abitazione: pantofole azzurre, gambaletti color carne arrotolati alla caviglia e vestaglia, una blu e l’altra vinaccia, entrambe con raffinati bordini bianchi lungo il risvolto e sulle tasche, per impreziosirne l’aspetto. Da qualche anno ormai il rione stava vivendo una trasformazione, convertendosi rapidamente in una zona radical-chic, grazie all’arrivo di numerosi stranieri – a seguito dell’inevitabile saturazione del più cool Trastevere – e all’affermazione di alcuni attori residenti nella zona, saliti alla ribalta nel modo dello star system italiano. Eppure non era difficile imbattersi in alcune sacche di resistenza popolare, degnamente rappresentate da vecchi impenitenti bestemmiatori seriali diretti al mercato, da ragazzi in tuta acetata intenti a fumare di fronte alla chiesa, dalle loro fidanzate eccessivamente truccate pronte per la confessione e dalle due attempate e inossidabili coinquiline di Marco, che mai avrebbero venduto o affittato le case in cui erano nate e cresciute. L’argomento del dibattito di questa mattina – Marco le aveva lasciate nella medesima posizione il pomeriggio precedente, mentre si lamentavano dell’infausto sorteggio della Roma in Champions League – era il conflittuale rapporto tra la badante rumena e la madre di una delle due vecchiette, la quale, evidentemente, o dimostrava molti più anni di quanti in realtà ne avesse o, più probabilmente, aveva un esemplare di Highlander in casa. Dalle poche parole che Corbu e il suo padrone riuscirono a carpire nel tragitto tra il portoncino e il cancello sulla strada, sembrava che l’ultracentenaria avesse minacciato e insultato pesantemente la donna dell’est, durante la notte. Al ragazzo tornò allora alla mente l’episodio della sera precedente, a cui aveva partecipato come spettatore, in principio preoccupato, poi divertito.
Pochi minuti prima di perdersi in quel pellegrinaggio irrazionale che dalle strade di Haifa raccontate dallo scrittore israeliano lo avrebbe condotto fino a Vienna, Marco era stato costretto ad alzarsi, richiamato dalle urla provenienti da una delle finestre ancora accese. Le richieste di aiuto e le grida di dolore avevano in pochi minuti tinto di luci gialle il cortile, fino a quel momento avvolto nell’oscurità, e sovrastavano le voci delle silhouette in ombra, affacciate sullo spazio comune, che assistevano impotenti a quello spettacolo sonoro. Alcune di queste figure notturne avevano già in mano il telefono, pronte a recapitare alle forze dell’ordine quel pianto straziante, finché l’ultima supplica della donna in difficoltà aveva chiarito cosa stesse realmente accadendo: «Ma lo volete capire o no che qui ci sta una lesbica?!».
A seguito di questa domanda retorica, una terza donna presente in quella stanza era riuscita a placare l’ira della povera vecchia, spiegando, a lei e a tutto il vicinato, come Irina – la badante sotto accusa – stesse semplicemente cercando di spogliarla per poterla lavare.
Un violento strappo del guinzaglio destò il giovane dalla ricostruzione degli eventi di quella notte, trascinandolo in direzione del primo albero degno di accogliere la prima, liberatoria minzione mattutina del cane.
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