Il suo sorriso sardonico, quelle zampe di gallina attorno agli occhi divertiti e pur sempre tristi. Si sporse leggermente verso di me, con un breve aggiustamento del busto:
«Sentiamo: perché vuoi scrivere un romanzo su di me?»
«Per fissarti in qualcosa»
Non rispose e io mi morsi le labbra.
Scrivere un libro: da dove cominciare? Quante volte avevo cominciato e mai finito.
I libri…per scriverne ci vogliono bugie. Si deve poter mentire per dar voce alle proprie storie, perché la realtà non è mai abbastanza romantica per i romanzi. Dopotutto, ciò che rende romantica la sua immagine è il sentimento che suscita in me, e non certo la sola immagine di lui seduto ad un bar. Mai un semplice caffè: a chi legge devo saper comunicare il sentimento che mi suscita quest’uomo, qui, seduto di fronte a me. Per farlo devo saper raccontare anche il contesto in cui ci troviamo, ma un semplice bar di periferia non si presta affatto a ciò che provo.
Mentire?
Potrei dover mentire per raccontare davvero tutto, per far sì che una parvenza del mio sentimento risuoni anche in voi.
Io odio mentire.
Quest’uomo lo sa, e sa che ogni libro iniziato mi è poi scivolato dalle mani, quando mi rendevo conto che era necessario inventare per proseguire.
Un esempio? Il nome. Che nome dovrei dargli per parlare di lui senza che la sua essenza scompaia? Potrei chiamarlo Gennaro, o Enrico, ma il solo associare questi nomi alla sua figura mi disgusta. Mi disorienta ed allontana da voi che mi costringete a sottrargli esistenza. Allora va bene, non lo chiamerò con alcun nome. Pur tuttavia dovrò mentire sul mio, sui gran fatti che ci sono successi, mascherandoli per non mettere completamente a nudo le nostre vite. Potrei riuscire a fare tutto questo?
Lui sorride placido, che bello sguardo che ha.
Io sono fatta per scrivere poesie, non romanzi. Pezzi di parole che vengono acciuffati e costretti all’obbedienza, ma solo per poco, e poi eccoli, sono liberi di nuovo di svolazzarsene nell’immaginario del lettore.
Ora che questa cosa del nome tra noi è chiara, come posso chiamare i vari “Lui” che troveranno spazio qui dentro? Certo non posso confondere voi e loro chiamandoli “lui, lui, lui”. Ma che fare?
Mi dovrò piegare a scegliere un nome, sia pure fittizio, ma almeno mi pare che possa conservare un che di formale che meriti il vostro rispetto e interesse. La scelta sarà buffa e bizzarra, e per questo non priva di dolore da parte mia, come ogni bugia che questo romanzo mi costringerà a dire per permettervi di leggere. In virtù di questo sacrificio fatto da me e dai miei personaggi, affezionatevi a loro, non tanto a me, perché è di loro che ha fame la mia fantasia ed è con essi che si sfama.
L’altura
Avevo sedici anni quando girovagavo per gli scogli di V.
La scogliera è sempre stata frastagliata e sconnessa, ma i miei genitori non ne hanno mai avuto paura e, a differenza del resto del paese, lasciavano me e mio fratello liberi di spaccarci la testa e lasciarla sugli scogli inzaccherati. Il mio rapporto con essi è sempre stato pacifico, come con tutte le cose e persone che avrebbero potuto facilmente uccidermi. Ma questo si vedrà poi.
Per la scogliera quindi ho sempre nutrito un amore abbagliato e necessario e non mi sono mai domandata se potesse essere altrimenti. Mio fratello, di cinque anni più piccolo di me, mi era praticamente indifferente. Saltellava dietro di me con una fiducia che allora io non avevo mai provato. Nelle lunghe passeggiate in bilico sui sassi sconnessi, sembrava convinto che mi sarei fermata ad aspettarlo qualora fosse rimasto indietro. Non mi sono mai chiesta, e forse neppure lui, se lo avrei davvero fatto. Pur di restarmi accanto, si affannava a tal punto che la sua animuccia semplice aveva probabilmente intuito che non avrei affatto notato la sua assenza. Tuttavia, non lo odiavo. Anzi, talvolta, se il mio sguardo gli si posava su, mi fermavo ad osservarlo. Quando lo si guardava la sua espressione si addolciva talmente da sembrare il volto di un neonato o di un ebete tanto era la mancanza di un pensiero sottostante. Aveva un visetto ovale, minuto e sempre pallido, con lentiggini chiare attorno al nasino ben fatto. I capelli erano morbidi e ondulati dietro la nuca e finivano in riccioletti attorno alla fronte e alle orecchie. Il colore era meraviglioso: un mogano chiaro che al sole pareva oro rosso. Dentro si distinguevano alla luce fili più dorati, e mi incantavo a vederne le sfumature quando gli chiedevo, imperiosa, di muovere la testa ancora, e ancora. Gli occhietti erano aperti, con piccole ciglia arcuate di un bel nero liquido, a tratti più duro e opaco, come le pietre nere del mare lasciate ad asciugarsi al sole. La bocca era morbida e seppur io non sappia descriverne i bordi e il colore, lascio che sia la vostra immaginazione a riempire questo ritratto di un mucchietto di ossa rampicante, quale era mio fratello.
Avevo dunque sedici anni quando mi inerpicavo come tutti i giorni lungo i fianchi scivolosi e umidi della scogliera. All’epoca V. era un paesino modesto e poco frequentato anche nella stagione estiva. Tale era la giornata di luglio nella quale, a parte me e il mio seguito, il mare era l’unico pubblico che avevamo. Di mio fratello non vi serve sapere il nome, benché mi sentirete nominarlo spesso.
Quando raggiungemmo l’altura era all’incirca mezzogiorno. Era più o meno un’ora che ci arrampicavamo e oggi ammiro la forza di quel bimbetto che non si lamentava né scivolava. Saliva seguendo il mio passo, senza emettere un suono. Quanto a me, ero egoista. Di quel bambino non mi ero mai occupata, né mi era stato insegnato a farlo. Talvolta, raggiunta l’altura, mi sorprendevo a trovarmelo a fianco e ne registravo la presenza come fosse un’ape o una farfallina, o un gabbiano. Un compagno cordiale e di passaggio, di quelli che non li vedi un attimo dopo averli visti.
L’altura era a circa quattro, cinque metri dal mare e tutt’intorno verdeggiava la macchia mediterranea, di cui il mio sguardo non pareva mai sazio. Ginestre, oleandri, fichi d’india si stagliavano dalla terra, tra le insenature degli scogli e si affacciavano sull’acqua cristallina. Il mare mi incantava ogni volta. A sedici anni ancora non sapevo nuotare ed ero l’unica dei miei. Se nella mia famiglia ci si fosse presi in giro credo che il fatto che non sapessi nuotare sarebbe stato lo scherzo più spassoso per tutti.
Non che non ci avessi provato e riprovato.
Tuttavia il metodo di mio padre su di me non aveva sortito effetto e l’essere abbandonata a largo con un «adesso torna a riva da sola», non aveva ottenuto il risultato sperato. L’ultima volta che ci provò, si vergognò molto a riportarmi a riva mezza annegata e piangente, dichiarando che la figlia di un pescatore l’acqua salata «ce l’avesse nel sangue». All’epoca mi colpì molto quell’affermazione e quando tornammo a casa mi chiusi in bagno. Con un ago da cucito mi punsi il polpastrello. Quando ne vidi uscire sangue rosso e neppure un po’ di acqua di mare pensai di essere perduta. Caddi nel terrore che mio padre potesse pungermi ancora per decretare, una volta e per tutte, cosa avessi davvero nel sangue. Tuttavia, nonostante il panico, decisi di assaggiarlo, e fui certa che fosse un po’ salato. Questo mi gonfiò di speranza, rincuorò la mia testolina ingenua e mi convinse ad avere fiducia: avrei potuto presto scolorire il mio sangue e ripulirlo.
In ogni caso, mio padre smise quasi subito di provare a insegnarmi a nuotare, e quando arrivò mio fratello, come vedremo, gli si dedicò completamente. Io ben presto smisi di provarci da sola. Non appena lasciavo andare i piedi, la sensazione di galleggiare mi opprimeva, mi sembrava di perdere il centro del mondo e finire risucchiata all’origine della terra, annegata e incapace di chiedere aiuto. La cosa che più mi terrorizzava era non avere voce sott’acqua. Essere ridotta al completo silenzio, in agonia.
Tuttavia, il mare mi incantava e nonostante lo temessi mi intestardii di poter andare sugli scogli. Così, da sola e senza guida, presi ad arrampicarmi pian piano, finché, verso i dieci anni, non fui in grado di raggiungere per la prima volta l’altura. Ogni volta consideravo quella scalata come un risarcimento per il mare che non ero in grado di affrontare. E ogni volta vederlo dall’alto mi dava l’impressione di poterne meritare il rispetto. D’altronde ero l’unica ragazzina capace di salire quell’altura.
Questo, certo, escludendo mio fratello.
Non mi aveva turbato che lui, fin dai tre anni circa, fosse stato capace di tornare a riva da solo, riempendo mio padre di orgoglio e cancellandogli dalla faccia la paura che gli aveva invece lasciato il mio fallimento. Non mi aveva neppure infastidito che lui, seguendomi nelle mie scalate, fosse riuscito già a sette anni a raggiungere l’altura, battendo il mio record. La figura di mio fratello era talmente minuta e garbata da non suscitare in me la benché minima competizione. Talvolta mi chiedo se lo vedessi come un animaluccio, un uccellino, i cui meriti e conquiste concorrono su scale diverse da quelle umane, e così se un uccellino canta meglio di voi non potete farne una colpa né a lui né a voi.
D’altronde lui era il primo a non concorrere con me. Quando, nel corso degli anni, non era in grado di proseguire con la scalata, semplicemente si sedeva e aspettava. Lo trovavo seduto allo stesso posto, gentile e silenzioso come sempre, senza l’ombra alcuna di invidia o curiosità per cosa ci fosse oltre, più in alto. Mai una volta che mi abbia chiesto cosa si vedesse da lassù; mai una volta, forse, che abbia dubitato di arrivarci anche lui a suo tempo. Se i suoi progressi mi erano indifferenti, i miei li considerava suoi. Prevedeva di diventare me e questa certezza gli bastava; così non si lamentava, non si intristiva né si ingelosiva. La sua animuccia aspettava, con l’incrollabile fede del discepolo.
Tornando dunque all’altura: quando vi arrivavo su che cosa facevo?
Ebbene da lassù oltre a vedersi l’interno del paese e la costa, si riuscivano a distinguere le barchette dei pescatori che rientravano.
Da lontano distinguevo nettamente la Poseidone che si avvicinava, e la figura alta di mio padre che solcava le onde. Quell’uomo rozzo, abbronzato fino alle ossa, che sapeva di sale, era mio padre. Aveva gli occhi di un verde brillante, che mia madre diceva essersi fatti ancora più guizzanti con la vita fuori nel mare. Come se le onde gli avessero levigato, coi propri colori cangianti, la superfice dello sguardo, rendendolo sempre imprevedibile e volubile. Non so dire con oggettività se fosse bello, ma vi basti sapere che per me era l’uomo più bello di tutti. E poiché si presuppone che vi lasciate conquistare dai miei sentimenti, è bene che ve lo figuriate bello come per voi un uomo è bello. Ciò che conta, e su cui non transigo, è che gli lasciate gli occhi verdi, perché su quelli non posso scendere a patti.
Sulle mani, grosse, rozze, ma calde, salate, posso venirvi incontro, e potete sostituirle con quelle che volete, anche se per me commettete un errore. Lui aveva mani forti e al tempo stesso delicate come uccellini, e quando prendeva in braccio mio fratello sembravano farsi contenitori delle più immense gioie. In ogni caso, date loro la forma che più vi piace.
Così come il petto, ampio e scuro, con giusto un velo di peluria, ma mai che si imponesse sulla pelle liscia e tesa: voi, se preferite i petti più piccoli e chiari, dategli la forma e la carnagione che volete.
Sugli occhi, insisto, non vi do il permesso.
Pertanto, quando Poseidone si avvicinava, già incominciavo a fremere tutta, e un batticuore sempre più forte mi spingeva a tuffarmi. Nonostante l’altezza e il mare sotto, in quegli istanti sentivo l’impulso folle a gettarmi di sotto, a braccia spalancate, a schiantarmi contro quel puntino di barca.
Certo, il mio sogno più recondito, e che non confessavo mai a me stessa, ma in cui sgusciavo qualche volta di notte, era che mio padre, vedendomi saltare, subito mutasse rotta alla barca e si affrettasse a soccorrermi e ad afferrarmi tra le braccia. Ma non era un sogno che mi concedevo spesso, avendone paura e preferendo indulgerci raramente, in preda al delirio precedente al sonno o alle grandi febbri. Mi bastava dunque anche solo l’idea di schiantarmi di fronte a quegli occhi verdi e vederli soffrire. Tuttavia, quando i minuti passavano, non mi risolvevo a saltare e dovevo fare i conti con la mia vigliaccheria.
In quei momenti iniziavo a parlare da sola, dimentica della presenza di mio fratello. Non poteva esserci pudore e vergogna di fronte ai suoi occhi muti.
«Adesso conto fino a dieci e mi butto.»
E contavo.
«No, a venti»
E tornavo a contare daccapo.
«Va bene allora dico una preghiera, l’ultima e vado».
E pregavo.
«Allora vai. Che aspetti? »
Intanto sogguardavo la Poseidone sempre più vicina. Spiavo mio padre, certa che mi vedesse slanciata al di sopra di tutto quel mare piatto. Speravo avesse paura, che mi dicesse urlando di non saltare. Ah quanto avrei gioito a saltare allora!
«Se solo guardasse di qua…che devo fare? Saluto? Se mi sbraccio forse mi vedrà…»
Muovevo le braccia a destra e sinistra con tutta la forza che avevo ma la figura di mio padre cocciuta se ne restava ferma a guardare dinanzi a sé, oltre di me. Allora cominciava la frenesia.
«Che si fa? Mi butto al tre, sì»
Ma poi non mi buttavo.
«Che vigliacca che sei, ma vai!», dicevo, ma poi non saltavo.
Finché, all’apice della frenesia, decretavo: «Poseidone è qua sotto. Se ora mi guarda, mi butto».
Restavo così, immobile e col fiato sospeso, lo sguardo appeso a quello di mio padre. Un destino intero si decideva in quel fatidico istante.
Ogni giorno, però, mio padre superava l’altura, l’acqua gli si schiudeva contro con dolcezza, dandogli il bentornato a casa, lasciandolo rientrare placidamente nel porto di V., senza, tuttavia, aver rivolto un solo sguardo verso di me.
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