Annalisa ha origini argentine e frequenta l’ultimo anno di Belle arti a Firenze. È determinata a diventare una pittrice, nonostante la contrarietà dei genitori, almeno fino a quando la pandemia non fa vacillare le sue certezze e le insinua un dubbio pietrificante: a cosa serve l’arte in un mondo che va a rotoli?
Francesca, invece, è un’anziana signora senza figli né marito, che si è trasferita di propria iniziativa in una casa di riposo.
Le loro storie si intrecciano quando le due donne cominciano a scriversi delle lettere tramite un sito pensato per tenere compagnia agli ospiti delle residenze per anziani, impossibilitati a ricevere visite durante l’emergenza sanitaria. Rapidamente si instaura fra loro un legame speciale, in cui entrambe si sentono libere di confessarsi sogni, paure e rimpianti. Ma il virus, che in un primo momento resta sullo sfondo, irromperà nelle loro vite.
Capitolo uno
Io i nonni non li avevo e nemmeno li avevo conosciuti. Forse per questo, quello che stava accadendo mi turbava più che ad altri. Gli anziani che continuavano a “morire come mosche”, per usare un’espressione che si sentiva spesso in quei giorni, e senza che nessuno potesse salvarli, avrebbero potuto essere i miei nonni.
In ogni volto che appariva in televisione io intravedevo qualche somiglianza, anche in quelli che oggettivamente poco c’entravano con i miei tratti.
Per dire, se gli occhi erano neri, allora era la forma a goccia che mi ricordava i miei, che sono invece celesti. Se la bocca era larga e sottile, era il sorriso che plasmava e le pieghette agli angoli delle labbra che mi portavano a fantasticare su una qualche improbabile parentela con me, che ce l’ho invece piccola e tonda. Le dimensioni delle narici, lo spessore delle sopracciglia, la pendenza dei lobi delle orecchie, la spaziosità della fronte.
Ogni dettaglio che mi affannavo a scoprire accorciava la distanza fra me e quegli sconosciuti che avrebbero avuto bisogno di una nipote quanto io di un nonno o di una nonna. Ma anche di un figlio, un famigliare, un amico o di una persona qualsiasi che non li lasciasse da soli con la morte. Ed era questo il dramma che più mi sconvolgeva, mi sconcertava, mi indignava, che morissero nel modo più terribile che si possa immaginare; con le mani fredde e senza nessuno che gliele scaldasse. Magari altre persone, guardando le loro immagini avrebbero potuto pensare che era tragico, indicibilmente triste, ma poi si sarebbero consolate sapendo i loro nonni al sicuro, nel presente oppure fra i ricordi in cui li avevano eternizzati. Io però sentivo quasi un legame diretto con loro e provavo una fitta al cuore ogni volta che ci pensavo.
Perché la natura si fosse accanita con loro, non riuscivo a capirlo. Specie con quelli a cui non era rimasto quasi niente e che avevano dovuto abbandonare la propria casa, la propria indipendenza, a volte anche la stessa dignità. Quelli dentro alle residenze, che spesso ci erano arrivati portati di peso dalle loro famiglie, convinte che in quel posto avrebbero trovato tutte le cure necessarie. Purtroppo, non avevano fatto i conti con quello che nessuno poteva prevedere, e cioè che quelle cure sarebbero venute a mancargli nel momento in cui più ne avevano bisogno.
Io però che potevo farci? Certo, come credente, potevo mettermi a pregare seguendo l’esempio del pontefice. Come privata cittadina, potevo rispettare le regole che ci erano state imposte per vegliare sul bene comune e impedire il proliferare della malattia. Non uscire eccetto che per andare al lavoro, a fare la spesa o in farmacia, fino a nuovo avviso o almeno per altre due settimane. Come dipendente di un supermercato, potevo disinfettarmi le mani e i guanti sia prima che dopo aver passato i prodotti sul nastro e usato la cassa. Come studentessa universitaria, potevo mettercela tutta per non permettere che le nuove modalità in linea ritardassero la data della mia laurea. Anche se non mi era chiaro a che cosa avrebbe potuto servirmi una laurea in Belle arti, in quel mondo allo sfascio. Non ero mica un futuro camice bianco. Non avrei di certo risolto tutto con una pennellata. Forse, avrei potuto lasciare una traccia indelebile di quello che stava accadendo su una tela capace di trascendere il tempo, così come lo avevano fatto Schiele, Munch e Otto Dix durante la Seconda guerra mondiale. Un monito per le future generazioni. Ma io non ero nessuno dei tre e anche il loro stile, per quanto mi sembrasse crudo e coraggioso, non assomigliava affatto al mio, più sobrio, più discreto e probabilmente ancora acerbo. I miei bozzetti non erano tormentati, non erano intrisi d’angoscia, disperazione e paura, emozioni che mi guardavo bene dall’esprimere attraverso la pittura. E se anche la mia pittura fosse stato un canale appropriato per certe emozioni, dubitavo che sarebbe stata in grado di trascendere il tempo.
Allora io, come Annalisa Minello, che non ero e mai sarei stata un’infermiera, una dottoressa, un’operatrice sanitaria, che ero una semplice cassiera e aspirante pittrice, che cosa potevo fare? Non lo sapevo, ma sapevo di non star facendo abbastanza.
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Mentre i media continuavano a mettere in evidenza ciò che non andava fatto, il mio senso di impotenza cresceva. Alcuni dicevano che salvare il mondo non era mai stato così semplice. Non dovevamo fare assolutamente niente. Anzi, più stavamo fermi e meglio era. Mai nessuno era diventato un eroe restando a casa, spaparanzato comodamente sul divano, eppure questo era stato chiesto alla popolazione, di cogliere quest’opportunità unica se non irripetibile nella Storia.
Non ci chiedevano mica di imbracciare il fucile e andare a morire in un campo di battaglia. Quella, però, al di là di essere un’efficace strategia di comunicazione – Salvate il mondo dal vostro divano! Restate a casa! –, non corrispondeva alla verità. I media sbagliavano. Rimanere immobili nel bel mezzo di una tempesta non è affatto semplice. Restare a guardare le fiamme che divorano pian piano il cornicione, le mura e infine le fondamenta della tua casa senza muovere un dito non è semplice. La paura può immobilizzare ma solo per un breve momento, poi sorge l’istinto naturale di scappare, chiedere aiuto, lottare. Insomma, di agire. Ed è per questo che anch’io avevo un bisogno disperato di fare qualcosa.
Era passato un mese ormai da quando avevano chiuso le università e le lezioni erano passate in modalità online. Un paio di settimane dopo, era ormai chiaro che la situazione non sarebbe ritornata tanto presto alla normalità e le mie due coinquiline avevano preferito tornarsene a casa dei genitori. Sia per risparmiare sulle spese dell’affitto e delle bollette, sia perché tutti sentivano l’impellenza di stringersi attorno ai propri cari. Nei momenti di forte incertezza si tende sempre a tenersi strette le poche certezze che si hanno. Io, d’altra parte, dovevo pagarmi gli studi da sola, e non potevo lasciare il mio lavoro, specialmente avendo la fortuna di lavorare in un supermercato il quale, fornendo beni di prima necessità, non era fra le attività che erano state obbligate alla chiusura.
Il patto con i miei genitori era stato chiaro. Loro mi avrebbero pagato l’università solo a condizione che avessi scelto degli studi che mi garantissero un lavoro non appena conseguito il titolo. Professioni richieste dal mercato del lavoro, quindi, e meglio ancora se ben remunerate. Avevano provato a lungo a farmi cambiare idea.
«Che cosa ci fai con Belle arti, me lo spieghi?» aveva chiesto mio padre il giorno che mi ero fatta coraggio e gli avevo confessato il mio piano per i seguenti tre anni.
«Se ho fortuna posso diventare una pittrice e vivere di quel che guadagno vendendo i miei quadri, o esponendoli alle mostre… se mi va male invece posso sempre ripiegare sull’insegnamento.»
«Se ogni tanto scendessi dalla tua nuvola, ti accorgeresti che fare l’insegnante non è per niente facile in questo Paese. Gli insegnanti sono dei precari. Per una cattedra devi aspettare i quaranta o anche i cinquant’anni. Per non parlare dei loro stipendi, che sono da miseria. Guadagno più io facendo l’elettricista! La cultura non paga, Annalisa…»
«Ormai ho deciso. So che tu non mi hai mai incoraggiata, hai visto qualche mio disegno ultimamente? Non pretendo che tu capisca né ti sto chiedendo di aiutarmi. Mi manterrò da sola.»
«Ah, vediamo quanto duri. Da me non avrai un soldo.»
Mamma invece, abituata a fare da paciere, aveva provato a trovare un compromesso. Si era a lungo informata su Internet e aveva letto che quella del disegnatore grafico era una professione che permetteva di sviluppare la propria creatività e allo stesso tempo era spendibile sul mercato del lavoro. Era riuscita anche a convincere mio padre, che in un primo momento aveva scartato tutto ciò che riguardava l’arte e il disegno. Ma facendo leva sul fatto che era una professione del futuro, che si lavorava al computer e non con fogli e matite, e che non era poi così diverso dall’informatico, l’unico riferimento più vicino alla realtà di mio padre, lui alla fine aveva ceduto. Mamma, però, che conosceva soprattutto il mio lato docile e che non aveva mai dato problemi, ignorava la testardaggine di cui potevo essere capace.
Me la annunciarono come una grande notizia. Pensavano che mi sarei messa a saltare su un piede. Mio padre inoltre credeva che fossi in combutta con mia madre e che avessi accettato quel compromesso prima ancora che lo facesse lui. Se chiudo gli occhi ancora rivedo la faccia di mia madre e la sua espressione sorpresa, smarrita, sinceramente confusa. Se solo quella carta se la fosse giocata meglio, sarebbe stata in grado di vincere la mia risolutezza. Ma quell’aspetto del mio carattere era praticamente nuovo per lei e non sapeva come gestirlo né tanto meno tenergli testa.
Per un momento tentennai. Lei era convinta che avrei detto di sì.
«Ma non capisco, così potrai continuare a disegnare. Non sei contenta? Ti pagheremo noi gli studi.»
Poi si arrese, si arrese troppo presto, ma questo non lo sa, se avesse insistito un po’ più a lungo con quegli occhi mesti e sgranati quasi sicuramente avrei detto: “Va bene, avete vinto voi!”.
Ma la presi in contropiede e così alla fine mi disse: «Ok, Annalisa. È la tua vita. Ma non aspettarti nessun aiuto economico. Lo sai come è tuo padre. Io ci ho provato, oramai ho le mani legate». Era la mia vita, aveva ragione, ed era per questo che ero stata così irremovibile. Dipingere era la mia vita, e non gli avrei mai voltato le spalle. Questa fu una delle numerose occasioni in cui avevo sentito la mancanza dei nonni. Sapevo che loro sarebbero stati comunque dalla mia parte e che mi avrebbero sostenuto, anche se questo significava andare contro i loro stessi figli.
Sara Palpacelli (proprietario verificato)
Questo libro è un viaggio emozionale all’interno di un periodo storico molto difficile,dove la solitudine e l’abbandono hanno modificato,a volte in mofo irreversibile, i rapporti umani. L’autrice ci guida attraverso il dramma del cambiamento,ma ci fornisce una potente arma per affrontarlo..la speranza. Un libro da leggere e rileggere. Consigliatissimo
Alessandra Mercia (proprietario verificato)
Una storia bellissima ..emozionante….e attuale…un libro da leggere!
Sara Ippoliti (proprietario verificato)
Due vite che si intrecciano sullo sfondo della pandemia, mostrando come si può creare un legame così profondo e intimo anche tra due persone estranee e appartenenti a due generazioni diverse, che finiscono per confidarsi sogni e sentimenti. Un libro molto emozionante e appassionante, che fa riflettere e incuriosisce il lettore fino all’ultima pagina. Ne consiglio vivamente la lettura a tutte le età.
Adrián González (proprietario verificato)
Quando conosci abbastanza bene un autore e hai letto molto su di lui, sai già in anticipo quale decisione prendere quando scopri che sta scrivendo qualcosa di nuovo. E se lei è Estefanía, (la “Campione delle cause perse”, come viene chiamata), cento miliardi di copie si possono acquistare senza aver letto, perché sa che la ricompensa sarà una prelibatezza per il palato letterario. Da quando ho scoperto questo progetto, il mio appetito è stato stuzzicato e ancora di più dopo aver letto la sinossi. Il piccolo principe diceva che l’essenziale è invisibile agli occhi, ma così è stato fino a quando Estefanía ha preso la penna tra le mani, per estrarre l’essenziale, per mostrare eroi senza mantello e bellezza dove gli occhi non la cercherebbero. A tutti i passanti che passano per questa libreria, consiglio ASSOLUTAMENTE questo libro!!!
Marsilda Xhaferi
Ho avuto il privilegio di leggere in anteprima “Quel che le mani dicono”. È stato inevitabile affezionarmi ad Annalisa e Francesca e alla loro amicizia. Questo libro emoziona, commuove e ti offre dei nuovi spunti di riflessione, aprendo ad una nuova prospettiva delle relazioni umane. Consigliatissimo!!!!!
Federica Ruzziconi (proprietario verificato)
Trama molto coinvolgente e solo leggere l’anteprima ha suscitato in me la curiosità di scoprire l’evoluzione di questa amicizia nata per corrispondenza in un periodo particolare come la pandemia.
Molto consigliato!
Carmen Cavallo (proprietario verificato)
Bellissima storia di un’amicizia tra due donne, di generazioni e vissuti completamente diversi che si uniscono sotto lo sfondo comune della pandemia.
fatima200791
Una storia originale ma sopratutto di grande impatto emotivo! Consigliatissima!