Alla cartoleria dell’angolo, aveva scelto dei quaderni bellissimi, specialmente uno, con la copertina rigida e il disegno di un mappamondo, e nel pomeriggio, dopo il tramonto e i giochi in giardino con gli amichetti del quartiere, aveva fatto merenda. Nel frattempo, in compagnia della mamma, aveva passato in rassegna tutti i colori a legno del suo vecchio astuccio, controllando a quali fosse necessario fare la punta. L’estate l’aveva passata dietro casa senza andare in vacanza, per via dei molti impegni di lavoro dei suoi genitori. Sua madre era sul punto di trovare un editore per il suo romanzo, anche se Michele non sapeva bene di che cosa si trattasse. La vedeva spesso scrivere, di là, nello studio; ma erano molte di più le volte in cui scoppiava a piangere e, accendendosi una sigaretta, bruciava i fogli appena stampati, pieni di parole. Michele non capiva molto bene sua madre: sin dai primi tempi in cui aveva cominciato ad avere dei pensieri tutti suoi, se pur di bambino, gli era parsa molto strana. Del resto, suo padre non era da meno; non era mai a casa e, quando c’era, anche lui trascorreva un sacco di tempo di là, nel loro misero studio. Leggeva e studiava. Una volta gli aveva chiesto cosa facesse e lui aveva risposto che era un dottore in filosofia. Michele l’aveva guardato e poi era tornato ai suoi giochi. Per carità, era un padre buonissimo e molto simpatico: con lui si comportava come tutti i babbi del mondo. Giocavano a pallone, a nascondino e spesso facevano la lotta. Andavano al parco e ogni tanto, quando la mamma non c’era, facevano tutti quei giochi che lei aveva bandito per il poco decoro e l’elevato livello di pericolosità. Allo stesso tempo però, Michele si rendeva conto che in lui c’era qualcosa di diverso. Riflettendo sul suo mestiere poi, era rimasto perplesso. Cosa voleva dire dottore in filosofia? Curava le persone? Lavorava in ospedale? No, suo padre gli aveva detto che lavorava all’università. Allora perché diceva di essere un dottore? Michele non capiva. «Senti babbo, ma cosa significa filosofia? Cos’è che fai?» Suo padre, affettando il pane, una domenica mattina, mentre il sole splendeva e rifletteva i suoi silenzi sul piano da lavoro della cucina, lo aveva guardato e aveva sorriso. Aveva preso un respiro e con naturalezza aveva spiegato di essere sempre alla ricerca della verità. Il bambino l’aveva fissato e aveva risposto al sorriso, accogliendo fra le mani una di quelle belle fette di pane bianco. «Ah…» aveva sussurrato, come a dire che adesso era tutto più chiaro.
Invece se n’era tornato al tavolo, aspettando che qualcuno gli versasse il latte nella tazza e decise, proprio in quell’istante, che l’argomento non doveva più essere toccato. Martino, e anche altri suoi compagni, gliel’avevano chiesto più volte: «Ma cosa fa tuo babbo di lavoro?». Michele aveva divagato e alla fine aveva deciso di dire il minimo indispensabile: «Va all’università e legge molti libri». «Ma che lavoro è?» aveva replicato Felice, per niente soddisfatto della risposta. «È un lavoro speciale… c’entra la filosofia…» aveva replicato Michele, facendo cadere quella parola dall’alto come se sapesse perfettamente di cosa stesse parlando. Era stato così convincente che nessuno più aveva chiesto oltre. Quando invitava qualche amico a casa, suo padre non c’era mai, ma c’erano pile di libri, fogli e quaderni ovunque e questo bastava a dare una parvenza di verità a ciò che aveva detto Michele. Insomma, tutto questo per dire che l’estate se n’era andata tranquilla. Aveva preso il treno due volte per assistere a degli incontri in cui proprio suo padre stava davanti a un sacco di persone e parlava a un microfono. Sua madre era rimasta immobile a guardarlo adorante, mentre, in tutta onestà, Michele si era parecchio annoiato. Aveva sentito parole come “la notte”, “l’essenza della vita”, “il peso della metafisica” e molte altre ancora. Parole, che a lui non interessavano per niente. A parte quelle brevi gite, non si erano mossi di casa. Non era stato affatto male, però. Sua madre, tutta presa dal romanzo, l’aveva lasciato molto libero e lui si era divertito tantissimo con gli altri bambini del palazzo. Avevano giocato a calcio e fatto una pista per le biglie. Di solito si riduceva in casa al tramonto, tutto sudato e sporco, fin dentro agli orecchi e all’ombelico, ma la mamma non l’aveva mai sgridato. Lo spogliava, con la sigaretta in bocca, e lo accompagnava in bagno, invitandolo a entrare nella vasca. «Mamma, perché piangi?» «Non piango» diceva lei, tirando su con il naso. Ma Michele sapeva che era per via delle parole. Le parole che le uscivano dal ventre e che non sapeva ancora controllare. A parte questo, tutto era filato liscio come l’olio. Michele, d’altra parte conosceva ormai bene sia suo padre che sua madre; sapeva che erano fatti un po’ a modo loro, ma si era abituato in fretta. Proprio per la loro stranezza, lui non amava particolarmente i libri e nemmeno le parole. Se ne stava molto in silenzio e con i suoi amichetti preferiva ascoltare piuttosto che parlare, o impegnarsi nelle cose pratiche. Per esempio: era stato lui a scavare con paletta e mani il sentiero della pista per le biglie. Era lui, con il gesso, a rifare i limiti del campo da calcio, ogni volta che la pioggia e il vento li cancellavano. A Michele piaceva usare le mani, fare le cose. E non aveva alcuna intenzione, da grande, di chiudersi dentro una stanza a scrivere al computer o leggere tutti quei libri. Sognava di fare il camionista e girare il mondo, oppure gli sarebbe tanto piaciuto diventare un fornaio. Lui non voleva essere strano e ogni volta che suo padre e sua madre si mettevano a discutere di stelle e poesia, si prometteva che sarebbe diventato un uomo “normale”. Il tempo passava e il tepore dentro al letto si faceva sempre più intenso. Michele, però, non riusciva a prendere ancora sonno. Continuava a fissare il soffitto e ogni tanto volgeva lo sguardo alla finestra. Nella sua innocenza di bambino non si chiedeva perché non dormisse: piuttosto si mise a ripensare a tutta quella giornata, forse per trovare dal nulla un motivo. A dire la verità, qualcosa di particolare c’era stato; all’ora di cena, i suoi genitori erano stati un po’ in silenzio. La mamma aveva cucinato il pollo con le patate e poi aveva tirato fuori il gelato. Durante la preparazione della tavola, dalla sala, li aveva sentiti bisbigliare fra loro, come se dovessero svelare un segreto.
Di solito, se il babbo era a casa, accendevano lo stereo e si mettevano a ballare, ma quella sera c’era un silenzio assordante e Michele era riuscito a seguire il suo cartone preferito alla perfezione. Una volta seduti, tutti e tre, al tavolino del cucinotto, il silenzio era stato interrotto solo dal rumore delle forchette e lo scricchiolio che si crea quando mangi il pollo con le mani e sgranocchi le patate che hanno fatto la crosticina. Sua mamma, a un certo punto, l’aveva guardato e aveva sorriso. Aveva preso un respiro, un po’ come faceva suo padre e Michele si era fatto attento, dopo aver bevuto un bel sorso d’acqua. «Sai, Michele, la tua maestra Rossella ha avuto un brutto incidente…» dicendolo, si era versata un bicchiere di vino e l’aveva assaggiato con un po’ di nervosismo, anche se continuava a fare quei suoi occhi di mamma innamorata, che tanto piacevano sia al babbo che a lui. Michele l’aveva guardata e in tutta onestà, gli era proprio sembrata bella. Senza dare peso alle parole, la donna aggiunse che ora la maestra stava bene. Non era cambiato niente; ripeté quella frase un’altra volta, ma con la voce rotta: «Non cambierà niente». Michele aveva reclamato la coscia di pollo rimasta nel vassoio e suo padre gliel’aveva prontamente spellata. «Ma si è fatta molto male?» aveva chiesto, più per curiosità che per preoccupazione. Non poteva dire di volere bene alle sue maestre. La scuola non è che gli piacesse molto, però, la maestra Rossella era abbastanza simpatica e non gridava mai. Aveva una faccia larga e i capelli che profumavano di fiore; gli occhi erano azzurri e le labbra rosse. Gli aveva insegnato l’alfabeto. Non sapeva spiegarsi perché, ma aveva capito da subito che forse quello era il dono più grande, oltre ai numeri, che una maestra potesse fare a un bambino.
Orietta Sivieri (proprietario verificato)
Coinvolgente ed emozionante. Scrittura semplice e scorrevole, ma che esprime bene le emozioni ed i pensieri dei protagonisti, nei quali si riesce ad immedesimarsi.