Tommy ha dieci anni e si trasferisce con genitori, nonna e fratelli in un complesso di case popolari nella periferia di una città del Centro Italia. Subito fa amicizia con una combriccola di coetanei, insieme ai quali combatte la noia e passa tutto il suo tempo libero. Siamo a metà degli anni Settanta: niente smartphone, niente social, niente “reel” a testimoniare le loro scorribande, ma solo gioia e spensieratezza che quasi sempre sfocia in pericolosa incoscienza.
Perché gli amici che si hanno a dieci anni non si avranno più per tutta la vita. E allora via a sfidare la sorte arrampicandosi su una gru di quindici metri, a entrare nel recinto di un cane enorme e aggressivo, a lanciarsi con un ombrello dal tetto di una fornace dismessa o a scontrarsi con bulli più grandi. Tommy e i suoi amici affronteranno questo e tanto altro, con una gran voglia di crescere, di far colpo sulle amichette e di divertirsi, stando però sempre ben attenti alla cosa più importante: non far arrabbiare la mamma.
Il principio:
le Palazzine
Maggio 1974.
Girato l’angolo, imboccammo una enorme strada bianca, non ancora asfaltata, assai polverosa. Ai suoi lati, delle brulle colline innaturali di terra dismessa facevano da frangiflutti. Tirammo su in tutta fretta i finestrini dell’auto per evitare di essere invasi da quella densa coltre bianca che si era alzata al nostro passaggio. Con la faccia spiaccicata sul vetro, sgomitavo con i miei fratelli per avere una visuale migliore. La mamma provava in qualche modo a contenere la nostra esuberanza con qualche pizzicotto assestato a dovere, mentre, in lontananza, si cominciavano a scorgere delle maestose e imponenti sagome.
«La volete smettere, per favore?!» strillò piuttosto spazientita.
«Mamma, Tommy mi fa i dispetti!» si lamentò Patty, con il suo solito vocino frignante.
«Non l’ho fatto apposta; volevo soltanto vedere un po’ meglio anche io» mi giustificai, senza per la verità molte scusanti a mio favore.
«Smettetela, altrimenti torniamo subito indietro!» intimò nostra madre.
Ci placammo immediatamente. Sapevamo, per esperienze pregresse, che lei non scherzava affatto quando diceva certe cose: sarebbe stata davvero capace di far fare a papà dietro front seduta stante.
Arrivati al parcheggio, lui accostò con molta cautela l’auto in un angolo parzialmente ombreggiato e si arrestò inserendo ruvidamente il freno a mano. Dopo qualche secondo di silenziosa indecisione, cominciammo a scendere ordinatamente dalla nostra vecchia Cinquecento gialla. Adesso sembrava essere ancora più vecchia, ricoperta com’era da uno spesso strato di polvere finissima e uniforme che la faceva apparire sbiadita.
Per primo scese mio padre, poi uno alla volta gli altri componenti della spedizione: mia nonna Antonietta con in braccio mio fratello Daniel, poi la mamma insieme a mia sorella Gisella, a seguire mia sorella Patrizia (per tutti “Patty”) e infine io, che ero il maggiore dei quattro.
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Stentavo a crederci. Non avevo mai visto nulla di simile. Così, dopo essermi ripreso dallo stupore, cominciai a contare lentamente i piani, cercando di farmi ombra con le mani per ripararmi dalla luce accecante del sole, alto nel cielo. Dovetti riprovare più e più volte perché perdevo di continuo il conto e dovevo riniziare da capo, per quanti che erano.
Questa è quella buona, mi dissi. «Uno, due, tre… nove, dieci, undici. Undici piani!» In quel momento pensavo fosse impossibile che esistessero palazzi più alti.
Si trattava di un complesso di case popolari edificate nella periferia della città; in seguito semplicemente conosciute come: le Palazzine.
Erano nate come funghi nel deserto nel giro di pochi anni, in prossimità dello stadio, in un posto decisamente isolato e desolato. Poche case intorno, di uno o due piani, sparse in modo disordinato, facevano da cornice a quel quadro scompaginato e un po’ malinconico.
Sull’altro lato della strada spuntava sonnacchioso un piccolo bar piuttosto dismesso e malandato, posizionato proprio di fronte al mio palazzo. Per quanto si presentava malridotto, più che Bar degli Amici si sarebbe dovuto chiamare Bar-collante! Sarebbe stato di sicuro più appropriato. Lamiere ondulate e deformate facevano da tettoia a una piccola veranda esterna tutta sgangherata, composta da vetrate di diversa foggia e colore, ma tutte ugualmente appannate e sudice. Una pensilina di cannette ricopriva uno spazio all’aperto di battuto di cemento rosso; due anziani vi giocavano a carte tenendo stretto, in un angolo della bocca, un mozzicone di sigaretta, e il fumo che saliva sinuoso bruciava loro continuamente gli occhi, procurando strane smorfie sul viso. La brocca di vino rosso, poggiata su quel tavolino tutto lercio, era quasi vuota.
Era il maggio del 1974. A quel tempo avevo da poco compiuto dieci anni e frequentavo la quarta elementare.
Salimmo velocemente per le scale perché l’ascensore non era stato ancora attivato. Arrivati al sesto piano, ci fermammo sul pianerottolo, davanti alla porta d’ingresso col cuore in gola, ansimanti e sfiniti per lo sforzo profuso. Rimanemmo così, immobili, ancora per qualche istante, quasi a voler assaporare fino in fondo quegli ultimi momenti di attesa.
Poi papà finalmente si decise.
In religioso silenzio, iniziò a girare la chiave nella toppa e ad aprire lentamente la porta; e con voce tremante, rotta dall’emozione, proclamò con solennità: «Questa è la nostra nuova casa».
Quello che subito mi colpì fu l’abbagliante luce che ci investì al momento di entrare, proveniente dalle ampie finestre con le tapparelle completamente alzate. Le pareti bianchissime e i lucidi pavimenti in marmo amplificavano ancora di più quella sensazione. Nell’aria, un forte e pungente odore di vernice fresca mi inebriava. Cercavo di respirare a pieni polmoni, quasi a volermene creare una cospicua scorta in corpo, per quando quel buon profumo si sarebbe dileguato.
Iniziammo così, tutti entusiasti, a fare il giro dell’appartamento. Partimmo col salone. Aveva un bel affaccio su un ampio balcone, da cui si godeva uno stupendo panorama. Si distingueva, come in una cartolina, il delicato profilo della città, adagiata sorniona sulla collina, con al centro l’inconfondibile e possente sagoma del campanile della cattedrale. Spostando lo sguardo sulla destra, si scorgeva un susseguirsi di verdi e docili alture che si rincorrevano indolenti senza soluzione di continuità; piccoli e remoti paesini parevano incastonati sulla loro sommità come gemme preziose. Ancora più in lontananza, facevano da sfondo delle splendide montagne, che si stagliavano imponenti con le loro aspre cime ancora innevate.
monopoli
Il romanzo è scorrevole e di piacevole lettura. I racconti si susseguono, autonomi tra loro ma collegati da un filo conduttore temporale, in maniera da dare l’idea di un romanzo composito di che suscita ricordi in chi ha vissuto i tempi e i luoghi del racconto, e che riporta alla mente, in chi invece non li ha vissuti allora, l’idea di quella Italia che si stava ricostruendo subito dopo il boom economico, andava verso migliori condizioni di vita e nutriva quei sentimenti che evidentemente sarebbero rimasti nel cuore di chi li aveva provati. La scrittura tende vagamente ad un neorealismo senza eccessi, garbato e senza storture. È l’autobiografia dell’autore ma di tutta una generazione che probabilmente oggi pensa a quei tempi non solo con nostalgia, ma con sentimenti lucidi e razionali che senza retorica danno valore anche al presente.
Salvatore Virdis (proprietario verificato)
Sono SV abitavo al piano superiore rispetto a quello dove abitava Tommy, quindi siamo cresciuti nello stesso quartiere. La lettura del libro è stata molto piacevole perché mi ha riportato indietro nel tempo risvegliando bellissimi ricordi vissuti da bambino insieme a tutti gli amici. Posso dire che il sogno dell’autore, cioè quello di tornare bambino, a momenti avviene in modo naturale man mano che si scorrono le pagine. La cosa che mi è piaciuta di più è il racconto della famiglia di Tommy perché rispecchia fedelmente le caratteristiche delle tipiche famiglie che abitavano alle PALAZZINE: numerose, unite e che affrontavano la vita onestamente facendo tanti sacrifici senza arrendersi mai neanche davanti ai problemi più devastanti. Consiglio a tutti, sia a chi ha vissuto nelle PALAZZINE sia a chi no, di leggere il libro.