“La volete smettere per favore!” Strillò piuttosto spazientita.
“Mamma, Tommy mi fa i dispetti”, si lamentò Patty, con il suo solito vocino frignante.
“Non l’ho fatto apposta; volevo soltanto vedere un po’ meglio anche io”, mi giustificai, senza per la verità molte scusanti a mio favore.
“Smettetela, altrimenti torniamo subito indietro”, aggiunse.
Ci placammo immediatamente. Sapevamo, per esperienze pregresse, che la mamma non scherzava affatto quando affermava certe cose: sarebbe stata davvero capace di far fare dietro front, seduta stante.
Arrivati nello spazio di parcheggio, mio padre accostò con molta cautela la sua auto, in un angolo parzialmente ombreggiato, e si arrestò inserendo ruvidamente il freno a mano. Dopo qualche secondo di silenziosa indecisione, cominciammo a scendere ordinatamente dalla nostra vecchia cinquecento gialla. Sembrava essere, adesso, ancora più vecchia, ricoperta com’era di uno spesso strato di polvere finissima ed uniforme che la faceva apparire sbiadita. Per primo scese mio padre, poi uno alla volta gli altri componenti della spedizione: mia nonna Antonietta, poi la mamma, mia sorella Gisella, mia sorella Patrizia, – per tutti Patty- poi mio fratello Daniel ed infine io, che ero il maggiore dei quattro.
Stentavo a crederci. Non avevo mai visto nulla di simile. Così, dopo essermi ripreso dallo stupore, cominciai a contare lentamente i piani, cercando di farmi ombra con le mani, per ripararmi dalla luce accecante del sole, alto nel cielo. Dovetti riprovare più e più volte, perché arrivati al terzo, quarto, quinto… perdevo di continuo il conto e dovevo riniziare da capo.
-Questa è quella buona-, mi dissi.
“Uno due, tre… nove, dieci, undici. Undici piani!”
In quel momento, pensavo fosse impossibile che esistessero fabbricati più alti. Si trattava di un complesso di case popolari, edificate nella periferia della città; in seguito semplicemente conosciute come: “le palazzine”.
Erano nate come funghi nel deserto, nel giro di pochi anni, in prossimità dello stadio, in un posto decisamente isolato e desolato. Poche case intorno, di uno o due piani, sparse in modo disordinato, facevano da cornice a quel quadro scompaginato e un po’ malinconico. Sull’altro lato della strada, spuntava sonnacchioso un piccolo bar, piuttosto dismesso e malandato, posizionato proprio di fronte alla mia palazzina. Per quanto si presentava malridotto, più che “bar degli amici” si sarebbe dovuto chiamare “bar-collante!”; sarebbe stato di sicuro più appropriato. Lamiere ondulate e deformate facevano da tettoia ad una piccola veranda esterna, tutta sgangherata, formata da vetrate di diversa forma e colore, ma tutte ugualmente appannate e sudice. Una pensilina di cannette ricopriva uno spazio attiguo all’aperto, di battuto di cemento rosso; due anziani giocavano a carte al suo interno, tenendo stretto, in un angolo della bocca, un mozzicone di sigaretta, con il fumo che, salendo sinuoso, bruciava continuamente agli occhi, procurando strane smorfie sul viso. La brocca di vino rosso, poggiata su quel tavolino tutto lercio, era quasi vuota.
Era il maggio del 1974. A quel tempo avevo da poco compiuto 10 anni, e frequentavo la quarta classe della scuola elementare .
Salimmo velocemente per le scale, perché l’ascensore non era stato ancora attivato. Arrivati al sesto piano, ci fermammo davanti alla porta d’ingresso, col cuore in gola, ansimanti e sfiniti per lo sforzo profuso. Rimanemmo così, immobili, ancora per qualche istante, quasi a voler assaporare fino in fondo quegli ultimi momenti di attesa. Poi papà finalmente si decise. In religioso silenzio, iniziò a girare la chiave nella toppa e ad aprire lentamente la porta; e con voce tremante, rotta dall’emozione, proclamò con solennità:
“Questa è la nostra nuova casa”.
Quello che subito mi colpì fu l’abbagliante luce che ci investì al momento di entrare, proveniente dalle ampie finestre con le tapparelle completamente alzate. Le pareti bianchissime e i lucidi pavimenti in marmo amplificavano ancora di più questa sensazione. Nell’aria, un forte e pungente odore di vernice fresca mi inebriava. Cercavo di respirare a pieni polmoni, quasi a volermene creare una cospicua scorta in corpo, per quando quel buon profumo si sarebbe dileguato. Iniziammo così, tutti entusiasti, a fare il giro dell’appartamento. Cominciammo dal salone. Aveva un bel affaccio su un ampio balcone, da cui si godeva di uno stupendo panorama. Si distingueva, come in una cartolina, il delicato profilo della città, adagiata sorniona sulla prima collina, con al centro l’inconfondibile e possente sagoma del campanile della cattedrale. Spostando lo sguardo sulla destra, si era in grado di scorgere un susseguirsi di verdi e docili alture, che si rincorrevano indolenti senza soluzione di continuità; piccoli e remoti paesini parevano incastonati sulla loro sommità come gemme preziose. Ancora più in lontananza, facevano da sfondo delle splendide montagne, che si stagliavano imponenti con le loro aspre cime ancora innevate. Passammo poi in cucina, dove c’era un altro terrazzino. Da qui riuscii a scorgere, attraverso le ringhiere, un gruppetto di bambini, che si rincorrevano schiamazzanti nel cortile tra i palazzi. Nel mezzo del piazzale, si notava un camioncino celeste, con il cassonetto scoperto, stracolmo di roba di ogni genere: sedie, tavolini, poltroncine in vimini, letti e materassi, lampadari e scatoloni di varie dimensioni, bloccati da grosse molle elastiche colorate, che tenevano compresso l’intero carico. Qualcuno già si stava trasferendo nelle nuove case. A seguire la camera di mamma e papà, poi la cameretta di Patty e Gisella e subito dopo finalmente la nostra: la mia e di Daniel, che avremmo purtroppo dovuto condividere -causa forza maggiore- con l’attività di sarta di mamma; per cui, mi ritrovai da tanto, a non avere, praticamente, quasi più niente. Poi, ancora, la stanza da letto della nonna, ed infine i due bagni; un vero lusso per noi. Quello più grande aveva una bella vasca, posizionata proprio sotto la finestra; l’altro una comoda e gigantesca doccia.
Noi non avevamo mai avuto la doccia prima. L’unico bagno esistente nella vecchia casa era piccolissimo; ci stavano a malapena i sanitari: lavabo, water e bidè, messi tutti di fila sullo stesso lato. La vasca, invece, era incassata all’interno di una rinsacca nella parete di fronte. Più che una vasca era una mezza tinozza; ci si entrava a malapena stando seduti. Lì, la mamma, una volta a settimana -generalmente il sabato pomeriggio- si preoccupava di riportarci a nuovo, di ridarci le “sembianze di cristiani”, come diceva lei. Dopo averci insaponato, ci teneva volutamente in ammollo per una mezz’ora abbondante, per facilitare la fase successiva della pulizia profonda, eseguita con un rasposo spazzolone che, grazie all’energia profusa, mi procurava ogni volta evidenti graffi ed arrossamenti sulle braccia e sulle gambe.
“Ahia, mamma mi fai male… fai più piano!” Mi lamentavo.
“Zitto e fermo. Devo strofinare forte, perché altrimenti non viene via tutto lo sporco. Guarda un po’ che luridume!” Mi rispondeva tutta affannata, indicando con gli occhi in direzione dell’acqua.
Una ciocca fuoriuscita dalla fascia, che le teneva insieme i folti capelli neri, le ballonzolava ribelle sulla fronte.
Notando bene, l’acqua aveva effettivamente cambiato tonalità, scurendosi notevolmente rispetto a prima: era diventata color marrone castoro, e, sulla superficie, si era formata una specie di patina bianca e schiumosa che, una volta svuotata la vasca, lasciava sempre un evidente alone di sporco e di sudicio sui bordi. Si faceva una grande fatica perfino a rimuoverlo. Seguiva poi la doccia finale. Utilizzava una bacinella in plastica, color giallo paglierino, riempita di acqua tiepida fino all’orlo, che poi ci svuotava pian piano addosso per risciacquarci. La teneva poggiata sempre lì di fianco, a portata di mano.
Ci mettemmo a correre e a rincorrerci in modo sfrenato, entrando e uscendo dalle varie stanze come schegge impazzite.
Era talmente tanta l’euforia, che perfino la mamma -di solito molto intransigente- ebbe il coraggio di dirci niente; rimasero entrambi in totale silenzio, inteneriti forse da quel genuino ed inatteso entusiasmo, ci osservavano emozionati con un dolce e appena accennato sorriso.
Era veramente un gran bell’appartamento.
Una volta terminata la scuola, di lì a poche settimane, ci saremmo trasferiti nella nuova abitazione.
Non vissi personalmente il disagio del trasloco. Mio padre ci venne a prendere, solo quando era già tutto bello che sistemato.
Non feci neanche in tempo a finire di mettere a posto le mie cose, che subito chiesi alla mamma di poter scendere in cortile. Avevo incrociato poco prima, giù nell’androne, un paio di ragazzetti che gironzolavano sotto il palazzo. Avevo una gran voglia di conoscerli e di fare nuove amicizie.
Salvatore Virdis (proprietario verificato)
Sono SV abitavo al piano superiore rispetto a quello dove abitava Tommy, quindi siamo cresciuti nello stesso quartiere. La lettura del libro è stata molto piacevole perché mi ha riportato indietro nel tempo risvegliando bellissimi ricordi vissuti da bambino insieme a tutti gli amici. Posso dire che il sogno dell’autore, cioè quello di tornare bambino, a momenti avviene in modo naturale man mano che si scorrono le pagine. La cosa che mi è piaciuta di più è il racconto della famiglia di Tommy perché rispecchia fedelmente le caratteristiche delle tipiche famiglie che abitavano alle PALAZZINE: numerose, unite e che affrontavano la vita onestamente facendo tanti sacrifici senza arrendersi mai neanche davanti ai problemi più devastanti. Consiglio a tutti, sia a chi ha vissuto nelle PALAZZINE sia a chi no, di leggere il libro.