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Quello che sabbia e neve non dicono

Quello che sabbia e neve non dicono
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Consegna prevista Novembre 2025
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2023. Nicolò è un giornalista pessimista, con l’ecoansia e un’idea in testa: raccogliere più informazioni possibili a Vallevò per arricchire di dettagli realistici il romanzo nel cassetto. In ogni luogo visitato testa la teoria di Gordon Hempton, ossia cinque minuti in cui non si odono rumori artificiali. Puntualmente fallisce. Ma più gira quel lembo di terra, conosce le persone del luogo, assimila i suoi profumi, panorami, odori e sapori, più percepisce un fil rouge invisibile che lo metterà in conflitto con la sua visione del mondo.

1960. Celeste è un’adolescente ribelle appartenente all’alta società, restia al bon ton imposto dalla famiglia e a tornare ogni estate nella Costa dei Trabocchi chietina. Qui un’inaspettata, quanto proibita, amicizia con un povero pescatore attempato, le ribalterà completamente lo status quo. Due storie apparentemente agli antipodi, ma unite da un unico ineluttabile denominatore comune.

Perché ho scritto questo libro? 

In realtà, le motivazioni iniziali erano differenti da quelle finali. Mi sono fatto catturare dall’idea di un’amica. Parlava dell’incontro tra una donna benestante e un povero pescatore. Nel tempo, la donna è diventata un’adolescente e l’idea un racconto. Poi ho conosciuto la Costa dei Trabocchi e me ne sono innamorato, tanto da realizzarci un reportage narrativo. Con le due storie in mano ho pensato: “Ok, vanno per forza unite. Ci metto dentro me stesso e la mia visione del mondo.”

 

 

Chi pre-ordina la versione ebook avrà subito in omaggio un ebook che comprende i primi due volumi della nostra saga best seller “The Drunk Fury”.

ANTEPRIMA NON EDITATA

Terra e vermi. Ignazio raccontò a Celeste che la morte, un tempo, pensava si potesse riassumere così. Finché non si rese conto che l’unica boa a cui si aggrappava, oltre all’incolumità di suo figlio, era quel mantello azzurro che gli dava riparo per pochi mesi l’anno. Il mare era la sua tomba, e la morte, almeno spirituale, era non poterlo più vivere.

Fu la prima volta che Celeste salì sul trabocco. Tutto le sembrava fragile e provvisorio. Tuttavia, l’incrocio dei pali era sorprendentemente geometrico. La tavolata, poi, era spaziosa. Qua e là, leghe metalliche tappezzavano il legno di pino d’Aleppo. Il trabocco, una volta entrati, non sembrava più un titano dalle fauci prosperose e intrecciate in reti. Somigliava, piuttosto, a una nave spogliata delle vele e ancorata per sempre alla terra ferma. In mezzo, c’era una catapecchia tre volte il letto di Celeste a Chieti. Attraverso una minuta finestra inzaccherata, si intravedevano un letto stretto per una persona e, a fianco, un fornello portatile con un principio di ruggine alla base.

«Hai mai pescato?» chiese Ignazio, sistemando la lenza sulla prua della paranza. Celeste fece di no con la testa. «Figuriamoci, a te arriva già pronto».

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Ignazio appoggiò gli stoppi dei remi agli scalmi e, sporgendosi in avanti a spingere le pale nell’acqua, incominciò a remare per uscire dalla spiaggia. Il pescatore intendeva portare Celeste a largo, lasciarsi l’odore della terra alle spalle e abbracciare il profumo del vero mare. Videro la luminescenza delle alghe, mentre si avviavano in quella parte dell’Adriatico che i pescatori del borgo chiamavano Grande Blu, ove correnti lontane e pesci esotici a cadenza annuale solevano incontrarsi. Dove comuni pesci azzurri, spigole, astici, scampi, pesci da esca e una gran dovizia di calamari e polipi si incontravano come una grande famiglia, raccontò Ignazio.

«Può sembrare strano, ma io rispetto i pesci. Mi hanno dato da vivere. Hanno tutti le loro caratteristiche. Ecco perché pesco con rispetto, a differenza..»

«Di mio padre».

«Guarda ti mostro una cosa. Però anche qui…» Ignazio le fece segno di chiudere la bocca

come una zip.

Presero il largo, in una direzione apparentemente ben nota a Ignazio. La costa, ormai, passava dall’essere una linea verde davanti alle colline teatine grigio-azzurre, all’ essere unicamente una silhouette sbiadita di quei promontori. L’acqua, invece, era di un azzurro scuro, così scuro che in alcuni tratti tendeva al nero. Ad un certo punto, come se vi fosse una segnaletica orizzontale a precisare l’area esatta, o come se avesse prima consultato un astrolabio marittimo, il pescatore sembrava fosse giunto esattamente nel punto designato. Disarmò i remi, prese la canna e lanciò l’esca. Guardò fino all’ultimo scendere le lenze a perdita d’occhio.

«Ci sta molto plancton. Ben».

«Perché siamo qui?»

«Mai avrei pensato di parlarne proprio a te» disse sogghignando tra sé e sé. «Qui ce sta nu pesce raro che passa na volta l’anno, in chest periodo. Tipo l’alalunga, ma molto cchiù grande. Qualche corrente lo porta ccà da lontane» spiegò Ignazio con tono solenne.

«Come fa a capirlo?».

«Guardati intorno».

Celeste allungò il naso oltre la falchetta dell’imbarcazione. Non scorgeva differenze, su quel manto blu uniforme. Ignazio lo capiva dal suo silenzio, e il suo vagliare punti già osservati più volte.

«Guarda lì» corresse Ignazio, indicando un punto dove l’acqua era più chiara e spostava le onde in una direzione diversa. Celeste lo notò.

«Perché non lo pesca? Farebbe una fortuna».

«Troppe domande, cètele».

«È terminato il nostro accordo, signor Ignazio».

«Li quatrire fà damaje» borbottò Ignazio, sedendosi comodo. Poi riprese a guardare l’orizzonte. «Mi stacca un braccio, e anche se tengo tanta forza e lo porto alla falchetta, affonda la barca c’a stessa forza con cui Ugo pesta ‘na formica».

Rimasero così, immobili per un tempo indecifrabile, come se Dio, notando la loro particolarità, avesse appositamente interrotto i suoi impegni per omaggiarli di un autoritratto. E ora erano quel quadro. Il nuovo Ground Swell di Edward Hopper o la versione marittima di Dorian Gray, ma senza perdita d’animo. Al contrario: dove ogni momento assieme, conferiva loro un alito di vita in più.

Il silenzio era timidamente interrotto solo da qualche saltuario sguazzo e dal tenue gorgoglio dell’acqua sullo scafo. Si percepì il passare del tempo dall’assenza di vibrazioni nella canna. Poi Ignazio osservò qualche pesce volante roteare fuori dallo specchio d’acqua, ad una dozzina di tese da loro. Prese nuovamente in mano i remi, poi ripose lo sguardo su Celeste.

«Vuoi provare?».

«Non penso sia il caso, signor Ignazio».

Ignazio ripose i remi. Prese una piccola lenza dalla prua arpionata in un bozzello di ferro e un amo di dimensioni medio-piccole; il pescatore la innescò con un’acciuga, la gettò in acqua e poi legò la lenza a una bitta a poppa. Riprese, dunque, a remare verso quel punto di speranza.

Non c’erano più pesci volanti che rompessero lo specchio d’acqua e non si sentivano altri schiumeggi nei paraggi. Ma mentre Ignazio aspettava un segnale, un bel pesce, a qualche tesa da loro, si librò nell’aria, brillando di un cromatismo elegante dai toni blu-argentei. Subito dopo, altri pesci seguirono il primo: saltarono fuori e sfrecciarono in tutte le direzioni. La lenza a poppa si irrigidì sotto i piedi di entrambi. Ignazio lasciò i remi. Celeste gli fece spazio. Tenendo ben saldo il filo di nailon, il pescatore iniziò a issare. Celeste capì che si trattava di qualcosa di grosso dallo sforzo di Ignazio, che si acutizzava sempre più man mano che la lenza acquisiva centimetri nella barca. Si sporse cauta oltre il bordo dell’imbarcazione. L’oscurità del mare impediva di individuare i lineamenti del pesce, ma durò poco: d’un tratto una sagoma irruppe dagli abissi, schiumando all’impazzata. Scorse il dorso dell’animale con le sfumature del mare, prima che Ignazio lo sollevasse a bordo con un ultimo strattone. Celeste si irrigidì al cospetto di quell’essere agonizzante, che si contorceva in una lotta disperata.

«É ‘na bona pesc!» esclamò Ignazio. «Saranno nu sette kili!».

«Voglio vedere quello raro».

«Ti sei già risposta».

«Ma non voglio vederlo morto. Non voglio più vederli morti».

«Già vederlo sarebbe tanto. E comunque morto, per mano mia, mai».

Una volta legata la paranza alla bitta sul molo, Celeste sentì subito la mancanza del mare. Se dapprima le sembrava un paradosso, visto che ci fluttuava ancora sopra, capì ben presto cosa intendesse Ignazio. Il mare ha la sua costituzione, la sua terribile armonia, ma la si avverte appena, come il profumo di un ottimo stufato in pieno centro città, già solo vivendolo come lo fa Ignazio: cavalcandolo, a largo. Dove le leggi dell’uomo sfumano ed esiste il nulla. Ma il nulla apparente è solo nei tuoi occhi, sotto c’è un altro mondo pieno di vita e di colori nuovi, cupi, vividi, spenti, sgargianti. E ogni tanto quel mondo viene a galla per darti fede. Vedere il mare dalla spiaggia, o farsi il bagno in riva, è come pretendere di conoscere la foresta perché si sa la differenza tra quella pluviale e quella temperata o perché si è mangiato qualche frutto esotico in qualche bettola a Trinidad.

Ignazio calò alcuni attrezzi dalla barca, poi vide Celeste cogitabonda con i piedi ancorati nella sabbia e lo sguardo perso sull’orizzonte.

«Ti fermi pe du spaghetti?» domandò Ignazio. Celeste rinsavì tutto d’ un tratto e si guardò

l’orologio. «Non posso, si è fatto tardi».

«Meglio. Rimane tutto amme» esclamò Ignazio.

Celeste soppesò le due priorità: obbedienza e fame. La scelta all’obbedienza presupponeva buon cibo, seppur nulla di speciale, pessima compagnia, ma nessuna punizione. Dare voce alla fame voleva dire mangiare probabilmente da dio, buona compagnia, e l’ennesima ramanzina con probabile punizione. La scelta, per Celeste, era ardua. Ma sapeva che l’ago della bilancia l’avrebbero spostato unicamente un terzo e un quarto componente, di cui lei si rifiutava di esserne l’artefice. No. La responsabilità la lasciava al suo incrollabile magnetismo per i guai e alla sua recondita devozione alla ribellione. L’ago spostò la situazione di equilibrio. Celeste accettò.

Una volta entrata nella catapecchia, si sentì subito avviluppata da una sensazione di familiarità. Sentiva che quel grande scatolone di travi mal messe le apparteneva. Era già casa sua. Ignazio improvvisò due sedie attorno al tavolo con delle cassette per la frutta, e iniziò ad armeggiare tra fornello e una cesta piena di pesce fresco.

Appena portò alla bocca la prima attorcigliata di spaghetti inzuppati, Celeste non ebbe dubbi: si trattava della pasta allo scoglio più buona che avesse mai mangiato in vita sua. Però si diede un tono, placando la furiosa ingordigia, appoggiando solo gli avambracci al tavolo e osservando le regole.

«Bon appetito» augurò Ignazio.

«Non si dice, signor Ignazio».

«Ma vaffangul».

Sul volto di Celeste, lentamente prese vita un sorriso. Appoggiò dunque celermente i gomiti e prese un pezzo di pane con cui fece immediatamente la scarpetta con il sugo, segnandosi di rosso gli angoli della bocca. Talvolta, si rendeva conto di spingere coi talloni, come se volesse entrare in quel piatto. Contava le volte che Ignazio si abbeverava dalla solita fiaschetta metallica, pronta per protestare.

«Non hai più motivo di bere» osservò Celeste.

Ignazio fu preso in controtempo, arrestò il suo braccio prima che la prima goccia potesse lambire le sue labbra. D’istinto voleva ribattere duramente, come la natura l’ha fatto, ma capì presto che Celeste non si sbagliava e soprattutto era davvero convinta in quello che diceva. Doveva smettere, era vero. Ora era riuscito a soddisfare le richieste di partite di grano del signor Lana. Era stato pagato una cifra considerevole da dare alla famiglia. Poteva iniziare a far andare tutto per il meglio. Doveva fare la cosa giusta. Prese la fiaschetta, la chiuse, senza togliere lo sguardo da Celeste, che a sua volta non batteva ciglio, severa e dominante sul pescatore. Ignazio apprezzava il tono bizzarro di quella buffa quindicenne, di cui ne riconosceva i gesti affettuosi. Sciolse quindi lo sguardo sopra il suo crimine e lanciò la fiaschetta sotto il letto.

Celeste sentiva di essere nel posto giusto. Si chiese solo perché proprio lei. E perché proprio ora. Era tutto così perfetto, e al contempo tutto così sbagliato. Se la sua famiglia avesse scoperto il suo piccolo enorme segreto, se chiunque nel paese ci fosse riuscito, sarebbe stata la fine. Per lei, ma anche per la sua famiglia. E non voleva far ricadere il peso delle sue scelte su di loro. Doveva giostrare bene le sue mosse. Per esempio, evitando di dare nell’occhio. Capì, o meglio fece suo, il principio normalmente imposto per cui ogni azione porta ad una conseguenza. Ad esempio, reputò astuto portarsi sempre con sé dei vestiti consunti, lisi, che la rendessero anonima. Non ne aveva, ma sapeva dove comprarli. Per esempio all’ Emporio Casalinghi Tessuti Abbigliamento, a San Vito, in via D’Annunzio, aveva visto qualcosa che poteva fare al caso suo. Prediligere i colori neutri ai colori sgargianti, la seta al cotone, la moda alla sostanza. Perché attualmente lei e il pescatore creavano troppo contrasto uno accanto all’altra: ci avrebbe scommesso che prima o poi sarebbe stata notata anche a distanza di chilometri. D’altronde, in un luogo dove riuscivano a comunicarsi dal Colle alla riva, non sembrava la più scellerata delle utopie.

«Iniziamo con l’uva?» chiese Ignazio. Celeste annuì.

La seconda partita sarebbe iniziata a breve. Celeste trepidava dalla gioia, era sempre stata stuzzicata in cuor suo dalla vendemmia. Dentro di lei ha sempre albergato un dialogo differente, rispetto a quanto rimbalzava tra le mura di casa La Rovere.

Per diversi giorni la routine di Celeste fu aggrapparsi alla stessa boa di Ignazio. Conoscerla. Capirla. Lui le mostrò ogni angolo della Costa dei Trabocchi. Le permise di spogliarsi dei suoi dogmi imposti e vestirsi di nuove conoscenze. Le raccontò i segreti del mare e della sabbia. Le giornate trascorrevano tra il porto di Ortona e le lunghe spiagge bianche di Fossacesia, impreziosite da sabbia e ciottoli candidi protetti da una corona di ginestre, bosso e finocchio marino, pronta ad avviluppare la pietra spaccata, i materiali infinitesimali che componevano quel quadro dai tenori del romanticismo, come fosse il risultato del pennello di Aivazosky.

Celeste non sapeva se Dio c’era, ma se ci fosse stato un Dio, ne aveva composti tanti di quadri in quei luoghi. Nel frattempo, si impreziosiva gli occhi e abbeverava lo spirito e, giorno dopo giorno, si sentiva fiorire come quella corona di piante.

2025-02-19

Aggiornamento

Abbiamo raggiunto - e oramai anche sorpassato - le 200 copie in meno di dieci giorni. Con questo traguardo iniziale si può davvero puntare al massimo. Un grazie di cuore a tutti.

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Libro coinvolgente,scritto in modo scorrevole, trascina nel mondo rappresentato e ti immerge nel silenzio

  2. (proprietario verificato)

    Come la sabbia ti entra dappertutto ma, a differenza, non dà fastidio, non devi spogliarti. Entra e rimane con te VaEnrico

  3. (proprietario verificato)

    Come la sabbia ti entra dappertutto ma, a differenza, non dà fastidio, non devi spogliarti. Entra e rimane con te Enrico

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Nicoló Frasson
Sono un giornalista padovano con una forte propensione ai temi ambientali, al cinema e alla meteorologia. La strada percorsa fin qui non è stata affatto lineare, direi piuttosto tortuosa. Inizio i miei primi articoli poco dopo le superiori. Poi mi laureo in comunicazione, da cui esco con più dubbi che certezze. Qui intraprendo strade diverse, tra loro e rispetto al mio punto di partenza: sondo il mondo della sceneggiatura (con master, pitch, alcuni progetti realizzati e altri in cantiere), il copywriting, la scrittura per videogiochi e frequento diversi corsi di scrittura alla Scuola Holden. Nessuna mi appaga, ma tutte concorrono a plasmare il mio stile di scrittura, facendo miei i loro vantaggi stilistici. Torno da dove son partito e qui mi fermo, collaborando anche con il Mattino di Padova: mi iscrivo all’ordine dei pubblicisti. A tempo perso sono un binge watcher di serie tv e sport.
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