C’è una linea spessa che separa sogno e realtà. È tangibile e palpabile, non puoi sbagliare. Capisci subito se una cosa l’hai vissuta o l’hai sognata.
Eppure, non sono ancora sicuro.
Quella sera mi sembra di aver vissuto in bilico tra la concretezza della vita e l’incertezza dell’onirico, sospeso tra due mondi distinti e all’interno di entrambi.
Era il dicembre di quell’anno che fece caldo fuori stagione. La città era in fermento per l’arrivo delle feste, ma ci si vestiva in maniche corte.
A quei tempi lavoravo ancora per Il Tricheco, rinomata pizzeria del centro città. Portavo pizze in motorino per potermi permettere un posto letto in un trilocale di cui dividevo l’affitto con tre studenti.
Il lavoro era monotono e privo di entusiasmi: chiamano, prendi l’ordine, lo preparano, lo porti.
Ricordo ancora la strana aria calda nelle strade, un’aria sbagliata, che faceva a pugni con i Babbi Natale nelle vetrine e le musichette natalizie sature di campanelli.
Quella sera come sempre aspettavo le chiamate. Tamburellavo con le dita sul ripiano pieno di scatole e guardavo il pizzaiolo condire con rapidità e precisione l’impasto rotondo.
L’orario di lavoro era appena iniziato e sul bancone aspettavano impazienti già tre o quattro consegne.
Non vedevo l’ora di partire. Odiavo stare in pizzeria, in mezzo a quella confusione e al mix di canzoni di Madonna e Ornella Vanoni che si ostinavano a tenere in sottofondo.
Non era un sogno, ne sono sicuro.
O quasi.
Il momento in cui il piazzaiolo mi passa lo scontrino con un indirizzo è reale, l’ho vissuto, ne sono certo. Ricordo le sensazioni: le mani infarinate, l’odore dell’impasto caldo, il fastidioso rumore di Like a Virgin.
Ricordo la strada e i semafori rossi saltati, in barba alle macchine. Tutto è al suo posto, come tante altre consegne uguali: sempre le stesse note, sempre gli stessi attimi, sempre le stesse strade. Sono tutte nella mia testa e anche quella consegna è un ricordo preciso, un ricordo che però in parte risulta velato. Quando ci ripenso mi sento addosso quel senso di delusione e sollievo tipico del risveglio.
Forse era un sogno, l’ho davvero sognato. Eppure, il citofono, l’ascensore, le scale. Era tutto reale. Ci sono passato davvero, lo so.
Suonai e mi aprirono, lo ricordo bene. Era un nome straniero e non mi chiesero nulla, aprirono e basta. Capii il piano dall’etichetta sul citofono. Il quarto, l’ultimo.
La palazzina era fatiscente e sporca. Pendeva anche un po’ verso destra. Per le scale si sentiva l’odore appiccicoso e amaro tipico di alcuni condomini di periferia.
Arrivato al pianerottolo la porta dell’ascensore si aprì sul corridoio buio. Tastai le pareti alla ricerca dell’interruttore della luce, lo trovai, ma non si accendeva nulla.
Il piano era lungo e stretto e in fondo si vedeva uno spiraglio di luce uscire da una porta socchiusa. Non mi sembra ci fossero altri appartamenti.
Per camminare mi appoggiavo alla parete con la mano.
Chiamai dal fondo, ma nessuno rispose.
Ci misi un po’ ad arrivare allo spiraglio. Bussai, nessuno mi aprì. Dall’interno si sentiva musica da ballo anni Trenta.
Non sapevo che fare, anche se non era una novità, a volte capita che nel tragitto tra citofono e ascensore il cliente si scordi della mia esistenza e non dia più segni di vita, lasciandomi di fronte a quattro porte senza nome a domandarmi a quale suonare.
Qui c’era solo quella porta. Le pizze non potevano che essere per loro. Cercai il campanello, ma anche quello non funzionava. Decisi allora di aprire e affacciarmi. Ci pensai su ancora qualche secondo, mentre la mano si riscaldava sotto le sottili scatole di cartone. Poi sbirciai all’interno.
Nella mia lunga carriera di pizzaboy ho visto case e gente di ogni tipo. C’è il timido, che si affaccia e ti porge la mano, non vuole farti entrare, non vuole che tu veda casa sua, anche a costo di far cadere le pizze. C’è quello distratto, che prende le pizze e chiede il resto, ma si scorda di darti i soldi e rimane imbambolato mentre tu lo guardi in attesa. Poi c’è il tirchio, che si lamenta per il prezzo e cerca di mercanteggiare con te, umile messo, che provi in ogni modo a fargli capire che sei impotente di fronte alle sue difficoltà. Una volta addirittura mi è capitato un folle che ha aperto con un coltello in mano e l’ha piazzato al centro della scatola con gli occhi spalancati. Ci sono quelli che ti ignorano, i nudisti (le nudiste mai), i puzzolenti, gli affamati.
Di gente ne ho vista, gente strana che vive in case strane.
Quella sera, appena mi affacciai, di fronte a me si presentò qualcosa di assolutamente nuovo.
Superato l’ingresso mi ritrovai in una stanza enorme, bianca. Gli unici mobili erano un divano, un tavolo e una libreria, anch’essi bianchi. Dall’altra parte della stanza si vedeva una porta identica a quella che avevo appena varcato, la musica veniva da lì.
Non c’erano finestre, né lampadari, ma la stanza era illuminata. Dentro, un essere mostruoso, una via di mezzo tra uomo e uccello, inseguiva un ragazzino nudo che sembrava tutt’altro che a disagio. Anche l’animale era nudo e aveva gli occhi infuocati. Provai una sensazione strana, mi sentivo stupido, fermo con le pizze in mano mentre quelli giocavano al giardino dell’Eden, ma non ero imbarazzato.
I due mi ignoravano, presi a rincorrersi in quel gioco perverso.
Posai le pizze sul tavolo e mi incamminai verso la porta in fondo. Lì dentro faceva caldo e il casco pesava, lo posai quindi vicino alla libreria. Solo in quel momento notai una figura sul divano. Era un uomo anziano. In mano reggeva uno spartito del Guglielmo Tell, ma non se ne curava. Fissava come ipnotizzato gli altri due, con la bocca aperta. Dalla bocca gli usciva un filo di bava che arrivava fino al pavimento.
Mi avvicinai e timidamente gli chiesi se sapesse per chi fossero le pizze. Quello si girò con aria ebete e mi lanciò uno sguardo vuoto, pieno di dispiacere. Aveva degli occhi tristi, i più tristi che avessi mai visto. Non disse nulla. Mi guardò soltanto. Non emise alcun suono, non fece nessun gesto, non cambiò espressione. Semplicemente mi guardò. Poi tornò a immergersi nella sua ipnosi.
Provai a muovere la mano davanti ai suoi occhi, ma era come se non ci fossi. Continuava a sbavare, e ai suoi piedi iniziava a formarsi una pozza densa e maleodorante.
Lo lasciai nel suo incubo e tornai alla porta in fondo. La oltrepassai, spinto dalla curiosità. All’interno si apriva un salone. Sembrava un club esclusivo pieno di persone strane ed esseri inquietanti. La musica era alta, ma riuscivo a sentire il brusio delle voci. L’atmosfera era festosa. Decine e decine di tavoli riempivano lo spazio, mentre in un angolo campeggiava un grammofono, davanti al quale molte ragazze in carne ballavano e ridevano.
Nessuno sembrava interessarsi a me, tutti erano impegnati in chiacchiere, scherzi, risse e danze.
Mi immersi in quel marasma cercando qualcuno a cui rivolgermi. Seduto a un tavolo trovai un uomo solo. Mi avvicinai, ma proprio quando stavo per chiedergli informazioni, quello si girò verso di me e con un’espressione terrorizzata iniziò a pronunciare frasi senza senso. In viso mostrava i dettagli tipici della persona febbricitante. Rimasi un po’ a sentire cosa dicesse con il suo accento dell’Est, ma capii ben poco: Petrovič, la vecchia, il borsellino e «sono stato io, sono stato io». Lo ripeteva in continuazione. Poi la voce si affievolì e divenne un sibilo incomprensibile.
Indietreggiai più schifato che preoccupato e continuai a cercare.
Vidi un tizio vestito elegante, con il corpo da ventenne e l’aria da uomo vissuto. Provai ad avvicinarmi, ma non ci riuscii, intorno gli ronzavano decine di persone, attirate dal carisma che trasudava.
Venni spinto vicino a un vecchio che beveva una bevanda fumante. Mi lanciò un sorriso. Poi tornò alla sua bevanda.
Sembrava fosse l’unico in grado di vedermi e gli chiesi se potesse indicarmi il padrone di casa. Quello sollevò il bicchiere, fece un sorso, poi sospirò: «Era più grande della barca, mai visto uno così grande. Me l’hanno preso gli squali, ho portato a riva solo la carcassa».
Si stava facendo tardi e non avevo idea di cosa fare.
Notai, nell’angolo più lontano, un bancone da cui partivano decine di cameriere con vassoi pieni di bicchieri. Il barman indossava un frac anacronistico e un farfallino rosso. Provai a parlargli, ma mi rispose di aspettare e di sedermi.
Seguii il suo consiglio e mi accomodai su uno sgabello. Accanto a me si sedette un individuo secco e brutto. Fissava il suo bicchiere pieno di whisky. Lo sorseggiava con amore: lo accarezzava dolcemente, lo fissava e poi lo sollevava con delicatezza. Poggiava le labbra appassionate e faceva un sorso breve, per non bruciare in un solo colpo tutta la sua dolcezza. Sembrava felice di quella compagnia. Finito il whisky, si alzò barcollante e andò a sbattere contro un uomo magrissimo, che si stava specchiando mentre incrociava gli occhi per guardarsi il naso. Quello non gli diede retta e l’altro sparì nella folla.
Continuai ad attendere tamburellando con le dita sul bancone. Ogni volta che un barman mi passava davanti provavo a fermarlo, ma quello continuava a fare cocktail, come se io non esistessi.
Non passò molto tempo e lo sgabello appena liberato al mio fianco trovò un nuovo culo a cui dare conforto. Era un uomo in impermeabile, somigliava incredibilmente a quello che se ne era appena andato via, era solo vestito meglio, puzzava di meno e non gli si leggeva intorno l’aura tipica del barbone: nella vita pareva avere uno scopo.
Lo servirono senza che ordinasse nulla.
Beveva come quello che l’aveva preceduto. Uno dei barman gli si avvicinò: «Sei fortunato, ti sei salvato per un pelo da quel cinesaccio ubriaco».
Iniziava a essere davvero tardi. Tentai per l’ultima volta di attirare l’attenzione degli uomini in frac, ma nessuno mostrò segnali di interesse.
Mi alzai, deciso a portarmi dietro le pizze.
Percorsi la grande sala al contrario, urtando bambini, cani parlanti e individui dallo sguardo spettrale.
Più mi avvicinavo alla porta più quelli mi venivano addosso.
Erano un’infinità.
Mi sentivo annegare tra una spallata e un’altra. Tentai di scansarli, di farmi forza, di andare avanti. Quelli però continuavano. Non si fermavano. Colpivano. Urtavano. Menavano.
Poi finalmente raggiunsi la porta.
Ricordo che avevo il fiatone e che mi ritrovai nella stanza di prima, quella bianca e dall’atmosfera opprimente.
Adesso era vuota. Attesi un attimo per riprendere fiato.
Ricordo il cuore che batteva forte, il sudore sulla fronte e quell’aria pesante, insopportabile. Il casco era ancora dove lo avevo lasciato. Lo raccolsi ansimando.
Dovevo andare via. Fanculo le pizze, fanculo la consegna.
Alle mie spalle la musica si era fermata e dalla stanza venivano solamente risate inquietanti e pianti disperati.
Quel posto mi spaventava.
Arrivai distrutto e spossato alla porta d’ingresso.
Non so ancora se sia stato un sogno o no.
Ho immaginato tutto o l’ho vissuto? A raccontarlo non può che essere una finzione, ma credetemi, è successo davvero.
Credo.
Non ne ho idea, non so darmi una spiegazione.
So solo che quando aprii finalmente la porta e mi voltai indietro per vedere da cosa stessi fuggendo, vidi centinaia di persone immobili, che mi fissavano mentre guadagnavo la strada per la salvezza.
Erano come manichini, inespressivi e perfetti.
Mi voltai di scatto e mi lanciai sul pianerottolo. Improvvisamente mi ritrovai, non so come, di nuovo in strada.
La sera era tornata normale.
Nelle tasche trovai i soldi per le pizze. Intorno a me solamente un rumore di ruote e clacson.
Mi voltai per cercare di capirci qualcosa.
Alle mie spalle trovai solo nuovi dubbi e un palazzo fatiscente, che pendeva un po’ verso destra. Aveva tre piani.
Da dentro si sentivano i suoni della vita normale.
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