Renoir versò il caffè bollente nella tazzina di vetro trasparente. Mentre sorseggiava la bevanda scura cominciò a fantasticare sulle origini del caffè, secondo quanto gli aveva raccontato il suo amico agricoltore Julien. Si immaginava l’Etiopia nell’800 dopo Cristo, il Paese delle spezie. In quel tempo, le capre, saltando di sasso in sasso, giunsero presso alcuni arbusti carichi di frutti rossi, somiglianti a ciliegie. Iniziarono a mangiarne a più non posso fino a che cominciarono a manifestare un moto di agitazione, via via sempre più intenso. Le capre si muovevano sulle zampe posteriori e pareva addirittura che sorridessero. Il pastore rimase sbalordito nell’osservare i curiosi movimenti delle capre danzanti. Capì subito che la causa era, probabilmente, da ricercare in quelle bacche rossastre che non aveva mai visto prima. Provò egli stesso a masticarne alcune e, poiché anche lui si ritrovò in uno stato di eccitazione, si convinse a portare i frutti a un religioso dello Yemen, il quale, però, ne condannò l’uso e scaraventò i frutti direttamente nel fuoco. La conseguenza fu che dalla combustione delle bacche si sprigionò un aroma sensazionale. I chicchi abbrustoliti furono allora macinati e sciolti nell’acqua. Era nata la prima tazza di caffè al mondo! Da quel momento in poi il caffè si diffuse in tutto il globo terrestre.
Renoir era completamente preso da questi pensieri. Si ricordò, inoltre, che il suo amico Julien aveva espressamente detto che Martinica, l’isola delle Antille caraibiche, era famosa per essere il primo luogo dell’America a essere raggiunto dalla pianta. E così, Renoir, in piena immaginazione, si ritrovò sdraiato su una di quelle spiagge paradisiache, frequentate da magnifiche ragazze con la pelle color caffè. Dopodiché, ritornò alle capre danzanti e, con un sottile sorriso disegnato sulle labbra, le ringraziò per il caffè di quella mattina.
Era nel bel mezzo di quel ballo, quasi rapito, quando qualche neurone del cervello lanciò un segnale di allarme che lo costrinse a riappropriarsi della realtà. Ebbe quindi un sussulto, girò la testa a destra con elevatissima velocità angolare e puntò gli occhi all’orologio fisso al muro in alto. Erano le sette e cinquantaquattro. Purtroppo, la sentenza non era delle migliori. Aveva a disposizione soltanto tredici minuti per raggiungere la stazione e tuffarsi all’interno del treno, la cui partenza verso Quimper era fissata per le otto e sette minuti. Si agitò ulteriormente in quanto realizzò che quell’orologio era l’unico a essere sincronizzato fra tutti quelli che aveva in casa, per cui erano veramente le sette e cinquantaquattro. La situazione si presentava durissima, se si considerava anche il fatto che la sua bicicletta aveva il copertone di una ruota a terra da ben due settimane e non era riuscito ancora a trovare il tempo per la riparazione. La cassetta degli attrezzi era aperta, posizionata da alcuni giorni a fianco della bicicletta, segno questo che l’astrofisico aveva comunque la buona volontà di sostituire la camera d’aria. Si rese conto sin da subito che avrebbe dovuto necessariamente effettuare una corsa a gambe levate e senza sosta, se voleva raggiungere il treno per tempo.
Fu colto da un’improvvisa botta d’ansia in quanto doveva ancora mettersi camicia e giacca. Renoir, che abitava da solo, cominciò a gridare: «Chi mi ha preso la camicia bianca? Dove sta la giacca blu a puntini? Me lo ricordo bene, stava qui sopra e ora perché non ci sta più? Ma io dico, perché mi ritrovo in mano questi calzini puzzolenti e bucati? Io voglio la camicia!». Mentre pronunciava quelle parole, lanciò i calzini con rabbia verso una direzione casuale. L’effetto fu che un calzino finì per rimanere appeso al lampadario del soggiorno. Renoir, fortemente innervosito, correva da una parte all’altra della casa in maniera confusionaria quando, a un certo punto, inciampò sulla cassetta degli attrezzi. L’impatto fu devastante. Volarono attrezzi per tutta la stanza. In particolare, una tenaglia, dopo aver preso quota per circa un paio di metri, cominciò la ricaduta secondo una traiettoria che la condusse esattamente sopra la tazzina del caffè. Le spietate leggi della fisica decretarono la dura sentenza per il bicchierino. I pezzi di vetro finirono dappertutto nel raggio di cinque metri.
Renoir cominciò a urlare a squarciagola: «Nooo! Nooo! Eh nooo!». Mentre imprecava, diede un calcio a una scarpa che trovò sotto tiro. La scarpa prese il volo e andò dritta verso una statuina di ceramica che gli aveva regalato la mamma, al ritorno da un viaggio a Deruta, in Umbria. La scarpa toccò lievemente la statuina, la quale iniziò a oscillare rispetto alla propria posizione di equilibrio. Renoir la guardò con gli occhi terrorizzati. Si trattava di una rappresentazione di Galileo Galilei nell’atto di puntare un telescopio verso il cielo. Era un oggetto a cui Renoir teneva enormemente, anche perché un pezzo del genere sarebbe stato praticamente impossibile da ritrovare. La statuina, dopo aver raggiunto la massima ampiezza di oscillazione, era ritornata lentamente nell’originaria posizione di quiete. Solo a questo punto, dopo lo scampato pericolo, Renoir realizzò che, senza il lume della ragione, avrebbe certamente perso il treno, oltre che devastato mezza casa. Quindi si bloccò completamente, fece un profondo respiro e disse: «Calma Renoir, calma, calma, con la calma si ottiene sempre tutto. E poi, anche se il bicchiere è rotto, come in questo caso, bisogna sempre vederlo mezzo pieno. Il caffè, in finale, me lo sono bevuto!».
Con una ritrovata lucidità, riuscì subito a recuperare la camicia e la giacca, che poi erano, come sempre, sotto il suo naso. Terminò di vestirsi e, subito dopo, cominciò a riempire lo zaino con la chiavetta USB, il materiale cartaceo stampato, l’immancabile pacchetto di sigarette e altri impicci, la cui sola presenza svolge funzioni rasserenanti, tipo i fazzoletti di carta. Renoir, per quella mattina, aveva ricevuto dal preside del Liceo scientifico Dirac di Quimper la proposta di tenere una presentazione divulgativa sulla recente scoperta delle onde gravitazionali, destinata agli alunni del quinto anno.
Renoir, adesso, era finalmente pronto ma, proprio mentre era sul punto di uscire di casa, percepì che la sua vescica era soggetta a una pressione intensa. Corse al bagno con lo zainetto grigio sulla spalla destra e si mise in posa statuaria di fronte al vaso sanitario. Il tempo dedicato al flusso liberatorio era per Renoir il più rilassante degli ultimi istanti. In pratica, poteva procedere senza alcun patema d’animo, giacché, in quella circostanza, gli era impossibile trovare stratagemmi per guadagnare secondi. Lo svuotamento della vescica è, infatti, un processo che difficilmente può essere accelerato in maniera significativa. Approfittò di quel momento ineluttabile per alzare la testa in alto e immaginare un discorso credibile da imbastire al preside, nell’eventualità che il treno fosse partito senza di lui: Buongiorno, sono Renoir. Allora, come andiamo? Tutto a posto? Mi fa piacere. Io? Benissimo, grazie! Be’, oddio, benissimo, insomma. Non sa che cosa mi è successo. Ho preso il treno per Parigi e non quello per Quimper. Questo è accaduto in quanto i due treni erano posizionati su due binari attigui e sono finito su quello sbagliato! Provi infatti a indovinare da dove la sto chiamando. Lo vuole sapere? Dalla sommità della Torre Eiffel! No, non poteva andare. Il preside avrebbe interrotto qualsiasi collaborazione con lui. Allora, provò a immaginare un’altra tipologia di scuse: Purtroppo, la febbre nella notte mi è arrivata a quarantuno. Per misurarla, ho addirittura usato un termometro ad alta precisione che usano i fisici sperimentali in laboratorio. No, anche questa scusa non avrebbe funzionato, perché, quando le particelle del corpo vibrano a quella temperatura, non si dispone delle giuste forze nemmeno per una telefonata. Forse sarebbe stato meglio dire la verità: Purtroppo, caro signor Preside, a un certo punto, mentre stavo sorseggiando il caffè, mi è venuta in mente la storia delle capre che hanno scoperto il caffè in Etiopia. La conosce la storia? Sì, le sto parlando proprio delle capre, ho detto capre! Dopo aver mangiato le bacche, la caffeina le ha eccitate a tal punto che si sono messe a ballare. Pronto, pronto, mi sente? Pronto? Pronto? Credo che sia caduta la linea. Anzi no, penso che abbia interrotto bruscamente la comunicazione. Ho la sensazione che il preside non abbia gradito la storia sulla scoperta del caffè.
Renoir era incapace di tirare fuori dal cilindro una sola scusa senza perdere la dignità. E allora, doveva prendere necessariamente il treno! Nonostante fosse attanagliato dallo strettissimo intervallo temporale a disposizione, provò una vera sensazione di piacere quando le pareti della vescica tornarono alla loro normale posizione di riposo. Tirò su la zip dei pantaloni e, dopo uno scatto fenomenale, raggiunse la porta di ingresso che aprì bruscamente e, dopo essere uscito, richiuse sbattendola dietro di sé con fragore. Si generò un botto che rimbombò per tutta la palazzina. Da quel momento iniziò una corsa avvincente verso il treno, a partire dal terzo e ultimo piano condominiale.
Renoir imboccò la rampa di scale iniziando a scendere tre gradini per volta. Arrivato all’altezza del secondo piano, aveva assunto una velocità pericolosa, considerando che si trattava pur sempre di un percorso in pendenza. Nemmeno il pianerottolo orizzontale tra il terzo e il secondo piano riuscì a ricondurlo a una corsa meno esagerata. Renoir continuava imperturbabile il suo moto come una valanga e, quando giunse in sommità della rampa di scalini tra secondo e primo piano, vide qualcosa che, in cuor suo, sperava di non dover mai incontrare in quel frangente. Comparve, all’improvviso, una figura estesa e sfocata con due oggetti che calavano a piombo dai due lati della stessa. Tale immagine era rivolta verso di lui ma si trovava più in basso, precisamente all’inizio della rampa di scale. Renoir, dopo aver messo a fuoco, realizzò che si trattava della signora che abitava al secondo piano. La donna, che pareva visibilmente affaticata, avanzava in verso contrario rispetto alla traiettoria di Renoir. Saliva le scale con due buste della spesa, le quali, evidentemente, dovevano risultare molto pesanti. Era di un’età che si doveva aggirare sulla settantina, di costituzione molto robusta. Su Renoir gravava ora una grandissima responsabilità. Non potendo agire sulla riduzione di velocità, capì, d’istinto, che l’unica via di salvezza era quella di superare il maestoso ostacolo con un gigantesco salto nel vuoto. E, infatti, con un certo patema d’animo, Renoir decollò. Durante il volo si sentiva leggero e aveva l’impressione di recuperare il tempo perduto. Mentre attraversava le molecole di aria, ebbe la lucidità di notare gli occhi della signora, alla vista dei quali rimase molto impressionato. Questi erano spalancati per il terrore che stava provando. Quando Renoir si trovò con i piedi sospesi in aria, a circa trenta centimetri dall’orecchio destro della signora, si rese conto che il grosso della difficoltà era ormai superato e bisognava soltanto affrontare l’atterraggio, che lui considerava più tranquillo rispetto al decollo di inizio rampa. In fondo, questo gli succedeva anche quando doveva affrontare i viaggi in aereo. Per lui, il decollo era l’allontanamento dalla sicura terra madre, mentre l’atterraggio rappresentava un ritorno alle certezze della vita terrestre. E infatti, il contatto con il pianerottolo fu leggiadro, proprio come quegli aerei che atterrano senza che nessuno dei passeggeri se ne renda nemmeno conto. Renoir, per un attimo, pensò di essere il pilota dell’aereo atterrato e si aspettava pure gli applausi della signora. Quando ritornò in sé, si voltò verso la donna anziana continuando la corsa e, con le mani congiunte, le gridò: «Mi perdoni! Non si preoccupi. Devo scappare. Comunque, tutto bene!». La signora non fece in tempo a voltarsi che il ragazzo era già sparito dalla sua vista.
Renoir, per un istante, ebbe il timore che l’anziana donna fosse stata colta da malore per lo spavento. Poi, però, si tranquillizzò quando udì l’eco delle sue parole provenire dall’alto: «Ma guarda questi ragazzi di oggi, vanno sempre di corsa come matti. A quello gli mancava solo il paracadute. Ma che si corrono? Sanno veramente dove stanno andando?». Renoir, che era appena arrivato al piano terra, sorrise a quelle parole e pensò tra sé e sé: Signora mia, ha proprio ragione. Io corro sempre in modo tale da non pensare mai a dove sia più giusto andare. Ma questa è una questione che affronterò molto presto.
Appena uscì dal portone condominiale svoltò a destra e diede un’occhiata al suo orologio da polso, senza per questo interrompere la corsa sfrenata verso la stazione. Dovette eseguire un calcolo mentale per ricavare l’ora esatta, in quanto anche quell’orologio non era per niente sincronizzato. Gli risultava che ci fossero ancora sette minuti reali a disposizione prima della partenza del treno, con la stazione che si trovava a circa un chilometro di distanza. Non era la prima volta che era costretto a una corsa disperata. Per esperienza, sapeva che, con questi numeri, correndo come un folle, avrebbe avuto il novanta per cento di possibilità di raggiungere per tempo la stazione. Le condizioni meteorologiche sembravano molto promettenti: cielo sereno e solo qualche timida nuvoletta. Intraprese Boulevard de Pascal a tutta spinta, con moto rettilineo e uniforme. Poi, per guadagnare secondi preziosi, cambiò marciapiede, tagliando la corsia stradale. Prima dell’attraversamento pericoloso, diede un’occhiata volante dietro di sé, per verificare l’eventuale sopraggiungere di qualche mezzo. Constatò che erano in arrivo soltanto due biciclette e un furgone, ma erano tutti talmente distanti che decise di attraversare in diagonale la strada. Giunse, dunque, all’altro marciapiede, ritrovandosi già con mezza camicia fuori dai pantaloni. Continuò l’affannoso galoppo superando in serie, sulla sinistra, un negozio di tessuti, una libreria e un fioraio. Subito dopo, si accorse che era sul punto di raggiungere la pasticceria famosa per il Gateau Nantais, un soffice dolce alle mandorle, aromatizzato al rum e ricoperto da una glassa di marmellata di albicocca. Renoir, che tra l’altro si era visto costretto a saltare la colazione a causa del pesante ritardo, si rammaricò fortemente di non disporre del tempo necessario per farsi una sana scorpacciata di quei dolci da applauso. Già una quindicina di metri prima di raggiungere la pasticceria fu investito da un inebriante odore di dolce appena sfornato. Il suo naso fu in grado di intercettare pure il profumo caratteristico del rum. Poi, quando la raggiunse, vide, attraverso la vetrata, un ragazzo che addentava un Gateau Nantais. La vista di quell’immagine, mescolata con l’odore divino che riempiva gli spazi circostanti, lo coinvolsero così profondamente che si immedesimò in quel ragazzo. Tali potenti sensazioni della vista e dell’olfatto lo esaltarono al punto che incrementò ulteriormente la velocità.
Quando raggiunse Boulevard Lagrange, in corrispondenza dell’incrocio, svoltò a sinistra. Adesso, doveva procedere dritto per altri duecento metri fino al semaforo, dopodiché avrebbe dovuto attraversare la strada. Mentre procedeva velocissimo sul tratto rettilineo si girò un paio di volte per vedere se ci fossero state le condizioni per tagliare la strada, senza la necessità di raggiungere il semaforo. Decise di non farlo, in quanto, proprio in quel momento, c’era un flusso continuo di automobili e biciclette. Passava anche il tram e il macchinista, preoccupato dal fatto che Renoir potesse azzardare l’attraversamento, gli lanciò un’energica scampanellata. A quel punto, l’astrofisico proseguì dritto e, quando giunse a una decina di metri dal semaforo, decelerò bruscamente fino ad arrestarsi. Era infatti rosso per i pedoni.
Cominciò a subentrare uno stato d’ansia per il terrore di perdere il treno. Renoir era stato infatti costretto a bloccarsi, guardare l’orologio e vedere i secondi dissolversi nel nulla. Tre minuti ancora, poi addio treno. Quando scattò il segnale di via libera per i pedoni, Renoir riprese la corsa, questa volta con un ritmo meno intenso e con un respiro più pesante. E allora pensò: E se avessi i polmoni danneggiati dai fumi della combustione delle sigarette? Devo dire basta a idrocarburi, catrame e nicotina! Questo è un discorso che devo assolutamente riprendere. Decise allora di mantenere un livello di velocità più basso, mentre calcolò che avrebbe dedicato le ultime riserve energetiche per lo scatto degli ultimi cento metri. Dopo due colpi di tosse grassa, si ritrovò sull’altro marciapiede, continuò la corsa verso sinistra e, dopo circa trenta metri, svoltò a destra. Proseguì a velocità costante e poco più avanti vide due donne che stavano chiacchierando, ferme davanti ai loro negozi. Una delle due era la signora Lacombe, titolare della storica frutteria del quartiere, mentre l’altra aveva preso in gestione la bottega di antiquariato soltanto da un paio di mesi. I due negozi erano uno di fianco all’altro. Renoir si accorse che le due signore lo avevano notato, dal momento che entrambe avevano rivolto lo sguardo curioso verso di lui. Quando passò davanti a loro le salutò con voce squillante: «Buongiorno!». Entrambe risposero al saluto. Giunto ormai una trentina di metri più avanti, si girò verso le due signore e, correndo con il corpo rivolto in verso contrario rispetto al moto, gridò: «Signora Lacombe, mi mette per favore da parte cinque melograni? Grazie mille!». La fruttivendola annuì e sorrise perché sapeva benissimo della passione del ragazzo per i melograni. La signora dei mobili antichi le chiese: «Ma chi è?». La signora Lacombe rispose: «È Renoir, il figlio di quella signora alta, magra, distinta, sempre sorridente, che spesso porta quel cappellino grigio e nero». La signora dell’antiquariato non riusciva bene a focalizzare, quando a un tratto disse: «Ho capito! Quella che si lamenta del figlio perché dice che sta sempre con la testa tra le nuvole e che dentro il suo armadio ci sono pochi vestiti, tutti molto datati e usurati. L’ultima volta che è stata qui ci disse che il figlio non si ricordava dove aveva legato la bicicletta». Entrambe sorrisero al ricordo di quelle scene. La signora Lacombe aggiunse: «Lui è veramente un ragazzo in gamba. Se non ricordo male, mi pare che si è laureato in Fisica. L’altro giorno è venuto, tanto per cambiare, per i melograni e mi ha detto di aver vinto un concorso all’Osservatorio Astronomico di Parigi, dove inizierà a lavorare a ottobre. Ha lavorato all’estero e ha collaborato con scienziati italiani e americani. Senti, ti dirò di più. Secondo me è proprio un genio! Mi è rimasta scolpita nella mente una scena che risale a quando avrà avuto più o meno cinque anni. Eravamo proprio qui, dentro il negozio. C’era anche sua madre. Mentre ero presa a parlare con la mamma, il piccoletto aveva messo in fila indiana vari tipi di frutta, esattamente lungo quella mensola là. Ora non ricordo l’ordine preciso con cui si sono susseguiti i frutti, ma li aveva posizionati secondo un preciso schema: una banana, seguita da due mele, poi tre mandarini, quattro limoni, cinque arance, sei melograni, sette castagne, otto mele cotogne, nove pompelmi, dieci noci. Questi frutti erano tutti a contatto tra loro e avevano occupato tutta la mensola. Quando ci siamo accorte di quello che si era inventato, ci siamo avvicinate a lui. A quel punto il piccolo Renoir, con la voce tenera tipica di un bambino, cominciò a dire che il Numero 1 era il numero che gli piaceva più di tutti, perché con il Numero 1 poteva costruire tutti i numeri che voleva. E così, per esempio, ci indicò le sette castagne e ci fece notare che il sette poteva essere costruito grazie al Numero 1, prendendolo per sette volte. E poi aggiungendo 1, i numeri pari diventano dispari e i dispari diventano pari! Io rimasi sbalordita, la mamma un po’ meno, forse perché, per lei, queste uscite del figlio erano la normalità».
Nel frattempo, Renoir aveva macinato altra strada. Non mancava molto, ma la stanchezza cominciò a prendere il sopravvento. Le gambe erano più tese, il sudore cominciava a scendere sulle guance e raggiungeva il collo, mentre la camicia era ormai per tre quarti fuori dai pantaloni. Guardò in alto e chiese aiuto con il pensiero: Angelo mio, dammi una mano perché se no qui salta tutto, grazie mille. Guardò l’orologio al polso e riacquistò fiducia in se stesso, in quanto realizzò che aveva maturato un anticipo di circa un minuto rispetto ai suoi calcoli, evidentemente grazie a una prestazione fisica al di sopra delle sue aspettative. Rallentò la frequenza dei passi e si apprestò a percorrere gli ultimi cinquanta metri di rettilineo, prima della svolta a sinistra e dell’ultimissimo tratto di strada che lo avrebbe condotto finalmente in stazione.
In corrispondenza dell’angolo, alla fine del tratto rettilineo di strada, notò Konstantinos, il signore greco che era seduto su un panno lercio e che chiedeva l’elemosina servendosi di un piattino di coccio scheggiato. Gli capitava, a volte, di fermarsi con lui cinque minuti e scambiare due parole. Aveva imparato a conoscerlo come una persona molto garbata. Renoir sapeva che era un apicoltore di grande esperienza, costretto a fuggire via dalla gloriosa Grecia, caduta in povertà sotto i colpi della finanza speculativa. In quel tratto di strada, il marciapiede era rivestito di roccia ornamentale particolarmente liscia. Renoir, che era in corsa, frenò d’istinto e cominciò a slittare alcuni metri fino a fermarsi. Si voltò all’indietro, fece uno scatto verso il greco e, quando giunse di fronte a lui, tirò fuori una manciata di monete e le depositò nel piattino con grazia. Gli occhi di Konstantinos brillarono di gioia. Spesso, le persone che si trovano in tali condizioni provano un sentimento di gioia non solo per l’offerta che contribuisce al pezzo di pane, ma anche per un gesto di affetto nei loro confronti che ha la capacità di tirarle fuori, anche se solo per un attimo, dalla condizione di invisibilità perenne. Konstantinos chinò il capo in segno di gratitudine, mentre Renoir congiunse le mani in segno di scuse, dal momento che non poteva scambiare con lui neanche una parola ed era costretto a fuggire via a gambe levate. Per salutarsi, si scambiarono simultaneamente un sorriso. Renoir si voltò nuovamente in direzione stazione.
Mancava ormai un minuto e mezzo ma, non conoscendo l’esatto binario di partenza, decise di affrontare gli ultimi metri con la massima spinta possibile. Sperava che il treno fosse sul binario uno, poiché questo sarebbe stato il primo binario che Renoir avrebbe incontrato facendo ingresso in stazione. A distanza, vide lo schermo elettronico gigante con tutte le informazioni sui treni in partenza. Poteva leggere tutte le città francesi, Parigi, Metz, Nizza, Marsiglia, Lille, ma non riusciva a focalizzare Quimper. Gli venne allora in mente, continuando a fissare il tabellone elettronico, di risalire al binario del suo treno, non partendo dai nomi delle città di destinazione, ma dalla colonna in cui vengono riportati gli orari di partenza. In corrispondenza delle otto e sette minuti riuscì a leggere che c’era un treno per Reims. Quest’ultimo, proprio non gli interessava. Ma nel campo sottostante, riuscì a identificare il suo treno: Quimper, binario cinque. A quel punto, Renoir disse tra sé e sé: «Il binario cinque è buono. Mamma mia, se fosse stato il binario sette o il binario otto sarebbe stata la fine». Proseguì la corsa, imboccò il sottopasso, salì le scale che conducevano al binario cinque ma, all’improvviso, sprofondò nel panico e gridò: «Nooo! Non ci posso credere. Ho scordato lo zaino a casa». Il cuore accelerò in modo vertiginoso e continuò la corsa senza più alcun riferimento. Perché sto correndo? Dove sto andando? Entro nel treno? Posso andare a Quimper senza zaino? Gli altoparlanti di stazione annunciavano: «Il treno FR7345 per Quimper è in partenza al binario cinque».
In quegli istanti Renoir era allo sbando. Mentre continuava a farsi domande a raffica, il gomito destro urtò qualcosa. Rimase perplesso ma, con la coda dell’occhio, gli sembrò di scorgere qualcosa di non ben identificato. Poi, d’un tratto, lanciò un grido di gioia: «Lo zaino! Sì! Grande! Lo zaino!». In effetti, lo zaino era stato sempre al suo posto, ossia sulla spalla destra ma, evidentemente, l’angoscia di perdere il treno si era scatenata, all’improvviso, sotto forma di panico. Renoir, con la camicia completamente fuori dai pantaloni, raggiunse finalmente il treno. In concomitanza con il potente fischio del capotreno, saltò letteralmente all’interno della prima carrozza incontrata. Esattamente un secondo dopo, le porte si chiusero e il treno partì.
Lorenzo Santini (proprietario verificato)
Libro molto scorrevole il cui contenuto porta al suo interno messaggi profondi e di valore. L’Autore esprime nel contesto di una storia d’amore, concetti estremamente attuali con estrema semplicità e delicatezza.
Riporta alla mente valori ed emozioni che nella vita di tutti i giorni sono dati per scontato perché non focalizzati nel presente.
Libro assolutamente da consigliare ad adulti e bambini.
Marco Montesi (proprietario verificato)
Un libro divertente, intenso, sincero. Come il suo protagonista, Renoir, un giovane astrofisico un po’ strampalato, sempre di corsa, sempre in ritardo, la testa tra le nuvole e i pensieri assorti tra stelle di neutroni e onde gravitazionali. Fin quando non incontra Charlotte. E nulla sarà più come prima. Come una stella polare Charlotte indica a Renoir la strada da intraprendere per riordinare i propri pensieri e i propri sentimenti. Tra esilaranti peripezie quotidiane, Renoir inizia a fare ordine nella propria vita e nei propri pensieri arrivando ad intravedere nell’ ordine cosmologico una profonda unità che lega ragione e sentimento, materia e spirito, scienza e religione.
Osservando il cosmo, Renoir finisce, infatti, per guardarsi dentro e questo lo porterà ad intraprendere un percorso di cambiamento personale che lo farà maturare e, alla fine, lo farà brillare della stessa luce di cui brillano le stelle. Ed è una luce che Renoir emette forte nel modo in cui vive l’amicizia, l’amore ed i rapporti con le altre persone, nella sua generosità ed altruismo, nel suo amore profondo e nel rispetto verso la Natura. É una luce che indica come condurre al meglio la propria vita senza mai perdere l’entusiasmo e la curiosità di alzare gli occhi verso il cielo, verso quelle stelle che, in fin dei conti, ci hanno donato gli atomi di cui siamo fatti.