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Ricordami di tornare

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Anita ha trentotto anni ed è una biologa, con una vita apparentemente perfetta: ha un compagno che la ama, una figlia di pochi mesi che sembra un angelo, un lavoro che le piace e persone che le vogliono bene. Tutti le ripetono quanto è fortunata e che non potrebbe desiderare altro ma, nonostante questo, la sua voglia di fuggire altrove sembra non abbandonarla mai. È la condizione esistenziale di alcune creature eternamente in fuga da qualcosa o da qualcuno. Vite insoddisfatte, esistenze che sembrano una prigione e che nascondono passati tormentati e volti mai dimenticati. Dietro l’insoddisfazione c’è un amore che continua a perseguitare Anita dal passato e, questa volta, per lei sarà molto difficile combattere contro i demoni che ha dentro.

CAPITOLO UNO

Come il vento che soffia impetuoso, violento e di colpo sparisce a morire chissà dove, nel silenzio.

Vorremmo rincorrerlo, ammaliati dal suo mistero.
La necessità di andare, di immaginarsi altrove.
Attendere un fatto, un evento: il colpo di Sarajevo che scatena la nostra guerra e ci porta ad andare, a partire.
La condizione esistenziale di alcune creature provvisorie, stanche, eternamente in fuga da qualcosa e qualcuno.

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Coloro che aspettano la notte per chiudere gli occhi e – nel silenzio, nel buio e nella solitudine – entrare in un’altra vita, dimenticare la città, i suoi rumori, i suoi silenzi e lasciare che la mente e il cuore vadano altrove, in qualsiasi altro posto, spazio e tempo che non sia la propria vita.
I pomeriggi interminabili a guardare fuori dalla finestra e a fantasticare sulla propria fuga, per poi tornare, delusi, sulla Terra, nella realtà. E poche ore – solo la notte – per sentirsi liberi e in fuga da quella gabbia che ci sembra la nostra esistenza.

Il sogno ricorrente di un’onda che sembra raggiungerci per prenderci, la corsa affannosa verso la salvezza.

Ma poi, al mattino, svegliarsi, guardare il soffitto e la luce tenue del giorno e ricominciare una vita fatta di menzogne, rimorsi, rimpianti, per aspettare ancora la notte e sognare di essere in quell’altrove a cui non riusciamo a dare forma, spazio e dimensione.

Un altrove che non si sa dove sia.

Era questo sentirsi in un limbo, nel posto sbagliato sempre, di continuo, che segnava i giorni di Anita.

Un’esistenza consumata in attesa del suo sparo di Sarajevo e di qualcuno che tornasse a premere il grilletto per aprire la sua gabbia e lasciarla fuggire.

Un’esistenza – la sua – dall’esterno perfetta. Donna, figlia, madre e compagna esemplare agli occhi di tutti.

Ma una vita profondamente infelice e insoddisfatta per lei.

Insoddisfatta di quella vita senza passione, senza pathos, senza battaglie che la facessero sentire viva.

Un’esistenza trascinata in attesa perenne che accadesse qualcosa che la rapisse a quel torpore e la portasse via.

In attesa di qualcuno che tornasse dal suo passato.
Quel qualcuno che desse il via alla guerra.
Quel qualcuno mai nominato e nominabile, invisibile ma indimenticabile.
Un fantasma sempre presente nel cuore e nella mente, da incontrare solo nei momenti di solitudine.
Un amore che diventa una condanna. Per Anita e per tutti coloro che sanno cosa significa amare qualcuno in silenzio. È il destino degli amori impossibili e per questo eterni, quegli amori che ci relegano all’infelicità, a una vita mai completa, a una felicità solo sfiorata.
È la pena che sconta chi si sente prigioniero di una realtà che non ci soddisfa, quando la nostra vita ci sembra una gabbia da cui desideriamo solo fuggire. E non ci resta che aspettare il buio e il silenzio per poter sognare di scappare, di ricominciare da capo dove nessuno ci conosce, immaginare la persona amata, chiederci dov’è, con chi, disegnare con la mente il suo volto ed essere altrove. Con lei o con lui.

Altrove. Lo spazio a cui non sappiamo e non possiamo dare un nome e una latitudine, ma che sappiamo dov’è: lontano dal posto in cui siamo e da cui vorremmo fuggire.

Voler fuggire.

È quello che accade ad Anita ogni momento da due anni, da quando ha detto addio all’unica persona che abbia davvero amato nella sua vita e che ora è un fantasma, a cui però corre ogni sera il suo pensiero appena chiude gli occhi, mentre il suo compagno e sua figlia dormono tranquilli e ignari su dove siano la sua mente e il suo cuore in quel momento.

Fissa il soffitto e pensa a quanto questa vita le vada stretta, quanto le manchi la libertà e quella sensazione di sentirsi vivi davanti a un amore provvisorio, senza pretese e legami.

«A che pensi? Mi sembri irraggiungibile» le ha detto molte volte il suo fidanzato negli ultimi due anni, quando di colpo si perde a fissare il vuoto.

«A nulla» risponde lei.

In quei momenti, Anita è davvero irraggiungibile, come lo siamo quando qualcuno prova a superare le nostre barriere e a entrare nei nostri pensieri. Ma nessuno che ci sta accanto ha accesso alla nostra anima, perché la distanza tra noi e chi ci sta di fronte è incolmabile.

Quella distanza è colmabile solo dalla persona a cui corre il nostro pensiero. E a lui pensa Anita quando sembra essere distante anni luce da chi le sta intorno. “A nulla” è l’unica risposta plausibile a quella domanda.

Non può dirgli nient’altro, non può confessargli che ogni istante aspetta qualcuno che la porti via da quella monotonia, dalla vita di compagna e madre, da quel senso di vuoto e desiderio di partire senza tornare più.

Di certo non può dirgli che pensa a qualcun altro, che in cuor suo non si è rassegnata e aspetta il suo ritorno.

Lui, però, non è mai tornato in questi due anni.

E se lo avesse fatto, Anita sarebbe corsa immediatamente da lui, ma poi all’ultimo si sarebbe ricordata di tornare indietro.

E per tornare indietro, doveva ricordarselo.

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Riccarda Lopetuso
vive ad Andria ed è laureata in Giurisprudenza. Libera professionista, si occupa di formazione in materie giuridiche internazionali ed è appassionata di storia, politica, arte e scrittura. "Ricordami di tornare" è il suo primo libro.
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