E poche ore – solo la notte – per sentirsi liberi e in fuga da quella gabbia che ci sembra la nostra esistenza.
E il sogno ricorrente di un’onda che sembra raggiungerci per prenderci, la corsa affannosa verso la salvezza.
Ma poi, al mattino, svegliarsi, guardare il soffitto e la luce tenue del giorno e ricominciare una vita fatta di menzogne, rimorsi, rimpianti, per aspettare ancora la notte e sognare di essere in quell’Altrove a cui non riusciamo a dare forma, spazio e dimensione.
Un altrove che non si sa dove sia.
Era questo sentirsi in un limbo, nel posto sbagliato sempre, di continuo, che segnava i giorni di Anita.
Un’esistenza consumata in attesa del suo sparo di Sarajevo, e di qualcuno che tornasse a premere il grilletto per aprire la sua gabbia e lasciarla fuggire.
Un’esistenza – la sua- dall’esterno perfetta. Donna, figlia, madre e compagna esemplare agli occhi di tutti.
Un’esistenza profondamente infelice e insoddisfatta per lei.
Insoddisfatta di quella vita senza passione, senza pathos, senza battaglie che la facessero sentire viva.
Un’esistenza trascinata in attesa perenne che accadesse qualcosa che la rapisse a quel torpore e la portasse via.
In attesa di qualcuno che tornasse dal suo passato.
Quel qualcuno che desse il via alla guerra.
Quel qualcuno mai nominato e nominabile, invisibile ma indimenticabile.
Un fantasma sempre presente nel cuore e nella mente, da incontrare solo nei momenti di solitudine.
Un amore che diventa una condanna. Per Anita e per tutti coloro che sanno cosa significa amare qualcuno in silenzio.
È il destino degli amori impossibili e per questo eterni, quelli amori che ci relegano all’infelicità, a una vita mai completa, a una felicità solo sfiorata.
È la pena che sconta chi si sente prigioniero di una realtà che non ci soddisfa, quando la nostra vita ci sembra una gabbia da cui desideriamo solo fuggire.
E non ci resta che aspettare il buio e il silenzio per poter sognare di scappare, di ricominciare da capo dove nessuno ci conosce, immaginare la persona amata, chiederci dov’è, con chi, disegnare con la mente il suo volto ed essere altrove. Con lei o con lui.
Altrove. Lo spazio a cui non sappiamo e non possiamo dare un nome e una latitudine, ma che sappiamo dov’è.
Lontano dal posto in cui siamo e da cui vorremmo fuggire.
Voler fuggire.
È quello che accade ad Anita ogni momento, da due anni, da quando ha detto addio all’unica persona che abbia davvero amato nella sua vita e che ora è un fantasma, a cui però corre ogni sera il suo pensiero appena chiude gli occhi, mentre il suo compagno e sua figlia dormono tranquilli e ignari su dove siano la sua mente e il suo cuore in quel momento.
Fissa il soffitto e pensa a quanto questa vita le vada stretta, quanto le manchi la libertà e quella sensazione di sentirsi vivi davanti a un amore provvisorio, senza pretese e legami.
“A che pensi, mi sembri irraggiungibile” – le ha detto molte volte il suo fidanzato negli ultimi due anni, quando di colpo si perde a fissare il vuoto.
“A nulla”, lei risponde.
In quei momenti, Anita è davvero irraggiungibile.
Come lo siamo quando qualcuno prova a superare le nostre barriere, a entrare nei nostri pensieri.
E nessuno che ci sta accanto ha accesso alla nostra anima.
La distanza tra noi e chi ci sta di fronte è incolmabile.
E quella distanza è colmabile solo dalla persona a cui corre il nostro pensiero.
E a lui che pensa Anita quando sembra essere distante anni luce da chi le sta intorno.
E “a nulla”, è l’unica risposta plausibile alla domanda del suo fidanzato ”a che pensi”?
Non può dirgli nient’altro, non può dirgli che ogni istante aspetta qualcuno che la porti via da quella monotonia, dalla vita di moglie e madre, da quel senso di vuoto e desiderio di partire senza tornare più.
Di certo non può dirgli che pensa a qualcun’ altro, che in cuor suo non si è rassegnata e aspetta il suo ritorno.
Ma lui non è mai tornato in questi due anni.
E se lo avesse fatto, Anita sarebbe corsa immediatamente da lui ma poi all’ultimo si sarebbe ricordata di tornare indietro.
E per tornare indietro, doveva ricordarselo.
Era successo un sabato notte d’estate.
In quelle settimane, con sua figlia ancora piccolissima, era più stanca e triste del solito.
Era con degli amici sulla spiaggia, per il compleanno di uno di loro.
Una notte spensierata, felice. Ma non per Anita, che nel mare e in quella notte stellata iniziava a intravedere il buio che stava per invadere la sua vita. Una vita che non le apparteneva, che non le bastava.
L’amore vero che le mancava.
Intorno a lei, tutto sereno.
La bambina che dormiva, i suoi amici che ridevano.
Lei silenziosa, assente, in un angolo a guardare il mare.
Fu in quel momento che Angelo, il suo compagno, le si avvicinò.
Era consapevole che qualcosa non andava in lei, che forse la recente maternità l’aveva destabilizzata.
Ma puro e ingenuo com’era, non avrebbe mai immaginato dove volava in ogni istante il cuore e la mente della sua Anita.
Le si avvicinò, e – restandole a fianco, senza guardarla negli occhi, quasi a non voler invader la sua intimità, le disse:” io non so cosa stai attraversando. Non so dove sei, dove vai quando chiudi gli occhi.
Ma Ti chiedo solo una cosa: Alla fine del tuo viaggio, torna.
Ricordati di tornare”.
Se n’era andato, senza dire nient’altro.
Anita si era voltata e l’aveva visto allontanarsi, con il terrore che lui sapesse qualcosa del suo passato o che avesse il potere di leggerle la mente.
Non aveva più detto nulla, entrambi non avevano più affrontato l’argomento.
Quello che era successo in quella sera d’estate era stato sepolto dalla sabbia.
Ma qualcosa tra loro era cambiato da quella notte.
Anita sapeva che Angelo, il suo compagno, la sapeva infelice, che la controllava e questo la rese ancora più insofferente a quella vita.
Odiava l’idea di sentirsi sotto tutela, di sapere che qualcuno si preoccupasse per lei o che volesse entrare nei suoi problemi.
Non aveva mai tollerato invadenze.
La sua vita e i suoi pensieri appartenevano a lei.
E dopo la fine della sua storia con il suo fantasma, aveva giurato a sé stessa che più nessuno avrebbe avuto il privilegio di entrare nella sua anima.
Ma quella frase, “ricordati di tornare”, è diventata da alcuni mesi il suo tormento, il comando che si ripete ogni sera quando si guarda allo specchio.
Ha bisogno di ricordarselo sempre, in ogni istante, e lo ordina a sé stessa, quasi parlasse a un’altra persona, a un’altra se stessa: quell’Anita che ha bisogno di sentirselo dire: Ricordami di tornare.
Ogni suo giorno si conclude con questa antifona, con questo imperativo, mentre si guarda allo specchio, mentre guida per tornare a casa e vorrebbe prendere l’autostrada per fuggire.
Ricordami di tornare.
A volte, quando è sola, lo ripete ad alta voce. E non perché sia pazza.
Ha bisogno di ripeterselo di continuo perché dentro di sé è tentata ogni istante dalla fuga.
Si, ricordati Anita di ritornare.
Tutte le volte che il cuore e la mente ti imbrogliano e vorresti scappare, fuggire da tutti e tutto, ricordati di tornare.
Tornare a casa, tornare da chi ti ama, tornare indietro.
Ma cosa significa tornare?
Forse significa rinnegare quello che siamo stati, i sogni che ci hanno aiutato a vivere, cancellare l’amore che abbiamo provato e i baci che abbiamo dato?
No, delle volte vorremmo tornare indietro solo per non soffrire, per proteggere noi stessi e gli altri dalle nostre azioni.
È quello che Anita ha finalmente capito nelle ultime settimane, ed è la domanda che si sta facendo anche in questo momento, mentre nell’abitacolo della sua auto fissa i suoi occhi liquidi riflessi nello specchietto. A pochi metri da lei, la porta di vetro dell’aeroporto. La fissa, mentre si chiede se andare o tornare indietro.
Ha tre opzioni di fronte a sé.
Partire, restare, andare via da sola, chissà dove.
E qualsiasi sia la sua scelta, sarà il primo vero gesto di ribellione della sua vita.
Si, dobbiamo ricordarci sempre di tornare.
Ma prima di tutto, ritornare da noi stessi.
Capitolo 2
È passato quasi un mese da quella giornata di follia e in ogni istante Anita ha ripensato a quell’avventura in aeroporto. Ha riempito le sue giornate di incontri e chiacchierate, evitando di restare sola e ritrovarsi al cospetto della sua coscienza per dirsi: Anita, ma dove stavi andando?
Ma poi ogni notte, appena chiude gli occhi, torna altrove.
Non per sognare di fuggire ed essere in quell’altrove a cui non è ancora riuscita a dare un nome e uno spazio.
No, ormai ha fatto pace con sé stessa e sa di essere a casa.
Il suo altrove, adesso, è un tuffo nel passato, il film di quello che è accaduto in quei giorni.
Ogni notte prova a ripercorrere quelle giornate, a guardare con distacco quegli eventi, per ripetere a sé stessa che si, ha fatto la scelta giusta.
Eppure quell’altrove, visto con freddezza e lucidità, adesso, non le piace.
E se potesse riscrivere quelle giornate, ne uscirebbe un racconto diverso. Sempre un melodramma, come piacciono a lei, ma forse con la protagonista che adesso sa cosa fare.
Anita, guardando indietro, non si riconosce in quella scena all’aeroporto.
Le sembra di essere un’altra persona, di non aver nulla – a parte il nome, il volto e il passato –in comune con quella donna in balia del dubbio.
Se potessi tornare indietro, adesso saprei cosa fare. Lo ripetiamo tante volte a noi stessi.
E anche Anita ha avuto, nella sua breve esistenza, la voglia di tornare indietro.
Sempre. Per la scelta dell’università, in alcuni lavori, nelle relazioni.
Ma la voglia di tornare indietro questa volta non le appartiene.
Sa di aver fatto, in aeroporto davanti all’ingresso del settore partenze, per la prima volta nella sua vita, la cosa giusta.
Il melodramma che Anita ha provato a scrivere con la sua vita, con le sue lacrime e le sue speranze, è durato poco, il tempo di un racconto.
È accaduto tutto in meno di un mese, uno spazio breve per certi aspetti, ma un tempo lungo, sotto altri modi di misurare il tempo.
In 10 giorni può accadere di tutto.
Bastano pochi attimi per stravolgere la vita, figuriamoci cosa può succedere in 10 giorni.
Un periodo che abbraccia due stagioni. La fine dell’inverno con gli ultimi venti gelidi, e l’arrivo della primavera, con i primi risvegli e fioriture.
Come avviene spesso nella vita, quando per continuare a vivere abbiamo bisogno di cambiare, così il melodramma di Anita non poteva che svolgersi a cavallo di due stagioni, tra febbraio e marzo.
Quando di colpo il buio è sopraffatto dalla luce, la neve sciolta dal primo sole, i fiori spuntano le loro piccole foglie e gli uomini si ritrovano da un giorno all’altro pieni di vita, invasi da una strana felicità.
Il melodramma di Anita ha come sfondo nel primo atto il mese di Febbraio, il più breve e freddo, con il vento ghiacciato che paralizza la mente e la natura che piano piano ritorna alla vita.
Poi Marzo, le giornate lunghe, il cielo azzurro tenue, il sole che prepotentemente chiede spazio alle nuvole, gli alberi che spuntano le prime foglie e la sensazione di rinascita che pervade le persone.
Vanno dal tardo febbraio a inizio marzo i 10 giorni che hanno cambiato la vita di Anita, portandola a guardare nelle profondità della sua anima, trovando e accettando i propri limiti, fallimenti e fragilità.
I 10 giorni che dovevano cambiare la sua vita per sempre, ma che alla fine hanno cambiato solo lei.
Nonostante tutto, 10 giorni che segnano la sua sconfitta e la rinascita. Una sconfitta che si porterà addosso per tutta la vita, quasi come la ferita di una sciabola affilata che non potrà mai cicatrizzarsi.
Eppure, mentre era in quella macchina a decidere se partire, ha capito cosa significa essere liberi, avere la propria vita in mano.
Ha rincorso la libertà per tutta la vita.
Per lei, il concetto e il valore supremo, l’unica cosa per cui valga la pena combattere e morire.
Aveva sempre ammirato gli uomini e le donne che si erano fatti ammazzare per la libertà e portare il nome Anita – come la moglie di Giuseppe Garibaldi – la rendeva orgogliosa.
Ma la nostra Anita non doveva combattere nessun oppressore.
La libertà che rincorreva era un concetto strano. Quasi ibrido.
Voleva essere libera dagli schemi, dai giudizi, dagli amori sbagliati, libera dal fallimento. La sua ossessione. Il suo demone. Il suo buco nero.
E un mese fa, voleva essere libera da una vita che la opprimeva. Quella di madre e compagna fedele.
Anita è una biologa, si occupa di fare controlli e studi sui laghi e i fiumi del centro e sud Italia e proprio a quelle acque placide e torbide delle volte affida i suoi tormenti.
Ama il suo lavoro, ed è quello che ha sempre sognato di fare, da quando era bambina.
È nota nell’ambiente, ha viaggiato, condotto ricerche importanti dei laghi del centro Italia e nei corsi d’acqua pugliesi, la terra in cui vive.
Piccoli laghi e piccoli corsi d’acqua, meno noti dei grandi bacini italiani.
Ma quelle erano le sue acque e occuparsi della loro tutela la faceva sentire un’eroina. Ogni settimana una regione, campioni da prelevare e ore in laboratorio.
Questo fino a un anno fa. Da quando ha saputo di aspettare sua figlia ha deciso di dedicare meno tempo al lavoro, di non allontanarsi troppo dalla sua provincia.
È stata una decisione sbagliata, se ne rende conto ogni giorno.
Da allora la frustrazione è diventata la sua compagna di vita.
Il lavoro le regalava quella sensazione di libertà che ha sempre rincorso.
Nella solitudine dei corsi d’acqua, nella quiete interrotta dal rumore del vento che piega le canne e nei sorrisi dei pescatori trovava rifugio nei momenti di solitudine.
E in quei paesaggi lacustri incantati, si illudeva si essere libera, come le fate che popolano quelle acque secondo la leggenda.
Libertà. Un’ossessione per lei, un ideale da esaltare ad ogni costo
Rincorrere la libertà, anche a costo di far soffrire noi stessi e gli altri.
Ma a che prezzo?
Cosa ci rimane dopo aver rincorso la libertà?
Alla fine di questa storia Anita ha trovato una risposta.
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