Ho sempre odiato il freddo, le gelide mattine trascorse in palestra da solo ad aspettare che qualcuno si accorgesse di me, che si confrontasse con me, anche solo per pochi minuti.
Ho sempre odiato i guanti di lana che privavano le mani di quella sensibilità da cui, negli anni, sarebbero nati i legami più stretti.
I miei giorni passavano lenti e freddi nella Springfield del 1891. Le ore sembravano infinite: una dietro l’altra, sempre uguali.
Io restavo in attesa di una scintilla che potesse accendere la mia vita. Aspettavo che quei ragazzi della YMCA dello Springfield College decidessero di concedere un’opportunità anche a me, e non solo a quella odiosa e arrogante palla ovale dal fascino e dalle movenze seducenti.
Il football americano era lo sport più praticato da tutti gli studenti del Massachusetts, sua terra natia, prima ancora che, nel novembre del 1869, le università del New Jersey, Princeton e Rutgers, dessero il via alle grandi sfide fra gli atenei.
Allo Springfield College, la stagione sportiva del football seguiva un arco temporale ben definito. Iniziava a primavera inoltrata, quando i profumi e i colori degli alberi in fiore spazzavano via il grigiore dei nuvoloni carichi di pioggia e neve. Finiva nei giorni dell’“indian summer”, quello spettacolare periodo dell’anno in cui l’estate riesplodeva in tutto il suo calore in una entusiasmante cornice di alberi spogli e campi scarlatti stracolmi di cranberries appena maturati.
L’attività sportiva si svolgeva all’aperto, scrupolosamente incentrata su, come dicevo, un’unica protagonista: la palla ovale. E io, avvolto nella penombra di quell’enorme aula deserta e impolverata chiamata palestra, stavo a contemplare la gioia di tutti e a riflettere sulla mia solitudine.
Le giornate in cui qualcuno si affidava a me per trascorrere qualche ora di svago erano rare. Solo i ragazzi esclusi dal football per punizione, vuoi per incapacità o indisciplina, si accorgevano di me.
Nei mesi invernali la palestra era decisamente il locale più frequentato, durante le lezioni di educazione fisica, ma il mio ruolo era marginale, se non addirittura nullo, e l’unico privilegio che procurava quella assidua presenza nel mio luogo di lavoro era il calore prodotto dall’attività fisica dei ragazzi, in grado di smorzare il freddo e l’umido, miei compagni sempre fedeli.
Anch’io ero giovane e desideroso di sprigionare tutta la mia energia e la mia voglia di fare! Giovane come tutti gli alunni del college che, nei lunghi e inattivi periodi invernali, senza il football erano sempre più ingestibili e vogliosi di dar libero sfogo alla loro vigorosa esuberanza nelle ore di ginnastica seguite dal professor Gulik, responsabile del corso di educazione fisica. Mi capitò spesso, in palestra, di ascoltare i professori stremati di fronte alla vivacità degli studenti. Serviva qualcosa che potesse frenare la loro irrequietezza, e il professor Gulik era ormai travolto da un senso di esasperazione. L’incapacità di trovare per i ragazzi un’alternativa che permettesse loro di arrivare fino alla sessione primaverile ed estiva da dedicare al football, consumava la sua pazienza tanto da non permettergli di gestire in modo sereno la situazione di stress.
A loro volta, i ragazzi sfogavano l’insofferenza nei confronti dei professori.
Nessuno sapeva come risolvere quello che ormai si stava presentando come un problema serio, e il clima allo Springfield College si faceva sempre più teso, creando tensione nei rapporti tra studenti e corpo docente.
Il mio ruolo era sempre lo stesso: presente in palestra, ma mai realmente sfruttato come risorsa potenziale. Portato alla YMCA dello Springfield College da un timido canadese occhialuto, trascorrevo il tempo a capire quale fosse il mio destino. Ero superfluo, quasi invisibile agli occhi di tutti e la mia inutilità risaltava ogni qual volta la palestra restava vuota, senza che io avessi avuto l’opportunità di esprimermi. In quelle poche giornate di tregua dal gelo invernale del Massachusetts, i ragazzi abbandonavano la palestra e, con la palla ovale tra le mani, si rincorrevano lanciandola sul campo ancora zuppo di acqua e neve scese abbondanti nei giorni precedenti.
Fu proprio in un giorno di sole, mentre osservavo dalla finestra i ragazzi ridere e scherzare nel cortile dell’agglomerato scolastico, che stabilii di reinventare quella vita inutile e solitaria.
Decisi di andar via.
Per la prima volta sognai di trasferirmi in un luogo soleggiato trecentosessantacinque giorni l’anno; lontano dal freddo, in un posto dove poter sfruttare le mie capacità, i miei pregi e nel quale dimostrare tutto il mio valore.
Fu così che, indossato il mio soprabito impolverato di cuoio marroncino sbiadito, uscii fuori dalla palestra deciso a lasciare per sempre la YMCA di Springfield. Ero determinato ad abbandonare il Massachusetts e la sua perversa passione per quella maledetta palla ovale.
Arrivato in prossimità del cancello di uscita nell’indifferenza totale, fui preso da una forte stretta allo stomaco, provocata sia dalla paura del nuovo al quale stavo andando incontro, sia dall’adrenalina iniettatami in circolo dalla speranza di una vita migliore. Decisi di fermarmi un’ultima volta a guardare il guscio nel quale avevo trascorso l’ultimo periodo della mia vita, quasi a ringraziare quella piccola palestra che tanto amabilmente mi aveva accolto come un figlio. Ma quando mi avvicinai a una panchina in legno, vuota, a malapena asciugata dal sole, per rivolgere il mio ultimo saluto alla YMCA dello Spingfield College, notai, proprio sotto il posto a sedere, una copia sbiadita del Triangle.
Il Triangle era il giornale scolastico dove gli alunni del college si dilettavano a raccontare tutto quello che accadeva tra le mura della scuola. Voti, esperienze, eventi sportivi, rassegne e meeting venivano narrati con estrema dovizia di dettagli dagli studenti più abili nella scrittura. Il Triangle era diventato il miglior compagno della mia vita professionale da quando i professori, nei momenti liberi, avevano iniziato a recarsi in palestra a leggere il giornale per trascorrere un momento di relax tra una lezione e l’altra. Spesso ne lasciavano una copia proprio nel mio ufficio. Mi è sempre piaciuto pensare che lo facessero per compassione nei miei confronti, per lasciarmi – senza mai rivolgermi la parola, senza mai degnarmi di uno sguardo – qualcosa con cui trascorrere un po’ di tempo nelle infinite giornate di chi non ha nulla da fare.
Perciò ero continuamente informato su quanto accadeva intorno a me, senza mai nemmeno uscire dalla palestra.
In quei minuti trascorsi davanti al giornale riuscivo a evadere dalla palestra restando aggrappato alla vita dell’ateneo per non sprofondare nella solitudine. Non importava che argomento venisse trattato.
Tutti gli articoli erano meritevoli del mio interesse: sapevo chi fosse lo studente del mese, quali le conversazioni trattate dai professori negli incontri con gli alunni, quali gli eventi organizzati dal comitato studentesco. Vi era anche una piccola sezione dedicata alla cronaca degli avvenimenti più importanti della nazione.
Conoscevo a memoria il Triangle: il sistema di impaginazione, la classificazione e l’ordine degli argomenti trattati, il profumo della carta stampata miscelato all’odore dolciastro dell’inchiostro.
Per prassi, la mia lettura partiva sempre dalla pagina sportiva, perché, benché odiassi la palla ovale, come ogni singolo cittadino del Massachusetts amavo il football e lo sport in generale.
Così, come in ogni giorno della mia vita trascorsa in ateneo, raccolsi quella copia sgualcita dal vento e sbiadita dalla pioggia per sfogliare velocemente le pagine sino ad arrivare a quelle che mi interessavano.
Lo sport è sempre stato la mia passione più grande. Non sarei qui a raccontarvi tutto ciò, se non esistesse.
Aprii, lessi avidamente e, arrivato in fondo, due immagini mi fecero trasalire.
Una grande, quasi a tutta pagina, immortalava l’occhialuto canadese che mi aveva portato alla YMCA; la seconda, piccola, quasi impercettibile, raffigurava proprio me, in una palestra illuminata a giorno come fosse teatro di un grande evento.
L’emozione prodotta da quelle foto fu nuova.
Non avevo mai provato nulla di simile: era un misto tra il timore e la curiosità per quello che l’articolo avrebbe potuto narrare. In quei momenti lunghi e strani, lessi l’articolo, che finalmente aprì le porte del mio futuro all’interno della scuola.
Il giornale raccontava l’idea, tanto bizzarra quanto affascinante, di dar vita a un’attività ricreativa che occupasse gli inverni inattivi dei giovani studenti; un’occupazione ludica alternativa al football, che permettesse ai ragazzi di confrontarsi in un’attività agonistica differente.
L’idea era di quel canadese occhialuto in foto. “Il professore Naismith”, recitava la didascalia.
Con l’ausilio di un cesto per le pesche, sembrava fosse intenzionato a riprodurre una versione evoluta di un gioco tipico della sua infanzia canadese.
L’articolo non era molto dettagliato. Lasciava numerose lacune nella spiegazione delle regole con le quali praticare quel nuovo passatempo. Ma tutto ciò bastò per far sì che archiviassi i miei progetti di viaggio verso il sole rovente della Florida o della California e che ritornassi in fretta e furia nella mia palestra impolverata, consapevole dell’enorme contributo che già immaginavo di dare a quella nuovissima idea.
* * *
Una mattina di fine autunno, il professor Gulik indisse una riunione in palestra per discutere della possibile realizzazione del progetto presentato dal professor Naismith.
Erano stati convocati tutti i professori dell’ateneo, gli alunni della classe del professore canadese e, ovviamente, anche se in un angolo al buio, ero presente anch’io.
La riunione non sembrava nascere sotto i migliori auspici.
Voci di corridoio facevano trapelare una certa diffidenza nei confronti di quello che sembrava destinato a diventare un enorme buco nell’acqua. Nonostante ciò, in quella fredda mattinata di dicembre del 1891, i convocati si presentarono puntuali.
Il professor Gulik prese per primo la parola e illustrò l’idea di Naismith.
Con aria di sufficienza, come a voler dimostrare la scarsa fiducia riposta nel progetto del collega, Gulik documentò senza enfasi quello che aveva intuito. La sua supponenza nell’affrontare l’argomento dimostrava l’evidente senso di invidia maturato a causa dall’incapacità di partorire egli stesso la medesima idea. Quell’atteggiamento pregiudicò il giudizio dei colleghi, per nulla affascinati da ciò che stavano ascoltando. Nessuno tra i professori presenti fece il minimo sforzo per nascondere il disappunto, e le loro smorfie evidenziarono lo scetticismo nei confronti del lavoro del professore canadese.
Quell’aspetto, che non scalfiva minimamente l’integrità di James Naismith, stava iniziando a generare in me un forte senso di disagio e di rabbia. Mal sopportavo l’insolenza dimostrata nei confronti di una persona educata e professionale come il professore, e reputavo spregevole il comportamento dei suoi colleghi. Tuttavia, la postura fiera e determinata dei diciotto studenti della classe di Naismith mi trasmise tranquillità. Decisi di non ascoltare oltre le parole del professor Gulik e rivolsi lo sguardo fuori dalla finestra, a quel cancello innevato che appena qualche giorno prima ero stato in procinto di lasciarmi alle spalle.
Poi, finalmente, Gulik lasciò la parola a Naismith.
Il professore si schiarì la voce e dopo un primo momento di esitazione iniziò a illustrare il suo progetto.
Il modo di spiegare, pacato e semplice, e il suo atteggiamento umile catturarono l’interesse di tutti e, in pochi istanti, anche i più diffidenti passarono dallo scetticismo a un’attenzione più partecipe.
Il professor Naismith raccontò della sua infanzia trascorsa in Canada e di come il passatempo preferito dai suoi coetanei fosse un gioco chiamato “Duck on a Rock”, che prevedeva di lanciare delle pietre per colpire un bersaglio posto sopra una roccia con l’obiettivo di farlo cadere.
Da lì, l’idea di creare uno sport con un bersaglio da colpire.
Il professore rivolse un semplice cenno del capo agli alunni rimasti rigorosamente in silenzio e uno di loro si affrettò a tirar fuori da un enorme sacco, che non avevo notato, un cesto in vimini, simile, se non uguale, a quelli che spesso vedevo utilizzare in tarda primavera per la raccolta delle pesche. Una volta estratto il cesto, lo porse nelle mani del professore e tornò nei ranghi.
Con estrema semplicità, Naismith spiegò la sua variante del gioco d’infanzia specificando come l’obiettivo fosse rappresentato da due cesti, uguali a quello da lui tenuto in mano, da posizionare alle due estremità della palestra. All’interno, doveva essere lanciato un oggetto che non aveva ancora ben identificato.
Per concludere il suo intervento, il professore chiamò uno dei suoi alunni e lo pregò di dare una dimostrazione. Come detto, non era ancora stato deciso l’oggetto da utilizzare, né in peso né in misura, quindi Willie, il ragazzo scelto da Naismith, appallottolò alcune pagine del Triangle che trovò per terra e le lanciò con estrema precisione all’interno del cesto tenuto in alto da un suo compagno di classe.
In un istante, l’idea stravagante di un professore canadese si trasformò in realtà.
Rimasi affascinato da quella dimostrazione.
Il nuovo gioco sembrava perfetto per gli alunni, sembrava perfetto per la scuola e finalmente sembrava poter essere perfetto anche per me.
Tutti i presenti, compreso il professor Gulik, si tolsero dal viso l’espressione di sussiego e si congratularono per l’idea del professor Naismith affrettandosi ad avvicinarlo per stringergli la mano.
La riunione era stata un successo.
Tutti avevano accolto positivamente la proposta del nuovo gioco e Gulik lasciò carta bianca a Naismith per lo sviluppo del Duck on a Rock.
Immediatamente la palestra si svuotò, lasciando in me tutto tranne che un senso di vuoto.
Nella mia solitudine abituale iniziai a pensare a come poter collaborare con il professor Naismith e i suoi alunni. Ero deciso a fornire un contributo importante, volevo essere in prima linea, un elemento essenziale per lo sviluppo del gioco. Ma come fare a interagire con tutti loro? Come farmi conoscere, spiegare le mie idee e contribuire?
Ero talmente concentrato a pensare che non mi resi conto di non essere più solo.
Un raggio di sole, che nel frattempo aveva lacerato le nuvole attraversando la palestra, si rifletté sulle lenti degli occhiali rotondi appoggiati sul naso di una sagoma nascosta nella penombra, e mi accecò per un attimo impedendomi di riconoscerla.
Identificai la voce del professor Naismith, che mi invitò a sedergli di fianco.
La nostra chiacchierata sembrò non dovesse aver fine quando arrivammo alla svolta: lui era il capo e io il suo soldato; lui la mente e io il braccio; il suo gioco era il fine e io il mezzo.
Si fece buio in un amen, neanche il tempo di alzare lo sguardo al di fuori della finestra che già la luna si ergeva nel cielo.
Fu così che, dopo un lunghissimo colloquio, infinite parole, emozioni contrastanti e riflessioni profonde, venne alla luce il basketball, e si concretizzarono i principi che lo avrebbero regolamentato.
Prima di rendere pubblico il nuovo progetto, il professore sentì la comprensibile esigenza di sperimentare concretamente ciò che fino a quel momento era stata solo un’idea. Decise di occupare la palestra per periodi di tempo sempre più lunghi in compagnia dei suoi diciotto alunni e, con grande gioia, anche della mia.
L’obiettivo era quello di preparare la prima dimostrazione del gioco del basket per una data ben precisa: il giorno del solstizio d’inverno.
Per quel giorno tutto sarebbe dovuto essere perfetto.
In armoniosa sintonia con i ragazzi e il professore, le giornate che ci separarono dal grande evento furono faticose, ma allo stesso tempo estremamente fruttuose. Trovata la posizione ideale per appendere i due cesti e stabilite le dimensioni del campo di gioco, il professore divise i ragazzi in due formazioni di pari numero, alternandoli continuamente al fine di trovare lo schieramento più equilibrato possibile. Non fu semplice inculcare nella mente di tutti la reale concezione dell’idea di Naismith, ma l’enorme collaborazione dei ragazzi permise di arrivare con entusiasmo al giorno stabilito per l’esordio, che avrebbe trasformato in realtà l’idea del professor Naismith e il mio sogno.
I ragazzi, passati alla storia col nome di “First Team”, radunati la mattina del 21 dicembre e suddivisi in due squadre di nove elementi ciascuna, diedero vita alla prima partita della storia del gioco.
La gara si svolse ovviamente in palestra, nell’assoluta inconsapevolezza del resto della scuola, in un clima surreale, così silenzioso e ricco di aspettative da provocare una tensione emotiva nuova, esagerata, una sorta di entusiasmo timido e discreto.
La partita si concluse con il punteggio di un canestro a zero grazie alla precisione, già dimostrata il giorno della riunione, di Willie Chase. Fu soltanto uno il punto realizzato, dopo che i vari tentativi dei diciotto ragazzi di centrare il cesto andarono fuori bersaglio. Nonostante ciò, il professore si ritenne soddisfatto della partita di prova e con lui anche gli alunni che incominciarono ad avere idee più chiare sul nuovo gioco.
Si decise, così, la data che avrebbe dovuto dare ufficialmente i natali al nuovo sport della YMCA di Springfield: il 15 gennaio 1892.
I giorni che intercorrevano tra il 21 dicembre e il 15 gennaio erano pochi e c’era bisogno dell’aiuto di tutti per cercare di redigere il regolamento ufficiale del basket. L’obiettivo che si era posto il professore era quello di creare un elenco di regole che avrebbero da lì in poi disciplinato il nuovo sport e che sarebbero state pubblicate sul Triangle, proprio il giorno del primo impegno.
Il 15 gennaio 1892 arrivò in fretta. Fu memorabile.
Le copie del Triangle si esaurirono in poco meno di un’ora. Nessun titolo, nessuna anteprima, nessuna immagine. Erano stampate a tutta pagina. Regole chiare, di semplice comprensione e facilmente applicabili, in linea con quelle che erano le esigenze dei ragazzi e della direzione della scuola.
In ogni angolo dello Springfield College non si parlava d’altro. Il basket e il professor Naismith erano diventati il fulcro dell’attività scolastica e i docenti delle altre materie dovettero impegnarsi notevolmente per distogliere l’attenzione da quello che sembrava dovesse diventare l’evento dell’anno.
Nei giorni successivi, la palestra divenne un via vai di studenti desiderosi di cimentarsi nel tiro a canestro e le mie giornate cambiarono radicalmente rispetto a quelle noiose e inattive dei mesi precedenti.
La palestra non era più l’angolo buio dimenticato da tutti: era diventato il cuore pulsante dello Springfield College.
Persino i professori non seppero resistere alla tentazione del nuovo sport e, un giorno, durante la classica lezione incentrata sul basket che il professor Naismith stava tenendo ai ragazzi del First Team, l’intero corpo docente si presentò al cospetto dell’inventore del gioco e, per voce del professor Gulik, avanzò una proposta piuttosto stravagante: partecipare agli insegnamenti. Naismith, stupito quanto me dalla richiesta, non fece nulla per dissuadere i suoi colleghi, anzi, colse l’occasione per creare l’evento che tutti aspettavano.
La prima partita ufficiale di basket avrebbe visto competere il First Team e il corpo docente.
Il professor Naismith, molto pignolo e attento affinché tutto procedesse nel migliore dei modi, volle prendersi un po’ di tempo prima di dar vita alla gara.
Organizzò sistematicamente degli incontri ai quali ero obbligato a partecipare e dove il confronto era continuativo, intenso e fondamentale per capire le criticità da smussare e i punti di forza su cui puntare.
Le discussioni non avevano più solo e soltanto la palestra come scenario. Casa sua era diventata il centro dell’organizzazione dove, insieme alla maggior parte dei suoi alunni, si utilizzava al meglio il tempo disponibile per far sì che la prima gara fosse perfetta. Oltre a incontrare i ragazzi, il professore teneva delle sessioni di allenamento aggiuntive anche con il corpo docente, così da prepararlo alla competizione ufficiale contro il First Team.
La costanza dei professori nel partecipare alle sessioni di allenamento fu notevole.
Solo quando Naismith ritenne che entrambe le squadre fossero pronte stabilì la data dell’incontro: l’11 marzo del 1892, nella palestra dello Springfield College.
Gli alunni della YMCA membri del First Team e il corpo docente scesero in campo agli ordini del professor Naismith. La palestra era una bolgia, gremita come non l’avevo mai vista, e non nascondo che, quando mi ritrovai in mezzo al campo al fianco del professor Naismith, il terrore e l’ansia di non riuscire a svolgere a dovere il mio compito mi gelarono il sangue.
Poi la partita, la prima, iniziò e fu un successo incredibile.
Si svolse seguendo tutti i crismi del regolamento creato dal professore, pronto a intervenire a ogni infrazione.
Sulla carta sembrava che la gara dovesse avere un unico padrone. L’esuberanza fisica dei ragazzi era tale da abbattere ogni velleità di vittoria del corpo docente e, a conferma delle aspettative, pochi secondi dopo l’inizio della gara, il First Team si portò in vantaggio con il solito canestro di Willie Chase. Spinti dall’entusiasmo del primo punto, i ragazzi si sciolsero mettendo in pratica gli insegnamenti del professore, ma il secondo punto non arrivò e l’impeto lasciò presto il passo alla frenesia dovuta alla crescita tecnica degli avversari.
I docenti, mettendo a frutto una maturità fisica superiore, allungarono pian piano le mani sulla partita, e il canestro del pareggio, seguito rapidamente da quello del sorpasso, spense definitivamente l’ardore del First Team. La partita si chiuse in trionfo per il corpo docente che, a dispetto dei pronostici, rifilò agli alunni scoraggiati un sonoro 5 a 1.
La storia era stata scritta.
Il basket, oltre a essere stato creato, aveva dato prova delle sue potenzialità di sviluppo.
Ora bisognava divulgare il verbo, e gli alunni del professor Naismith furono preposti a tale obiettivo.
Dall’11 marzo in poi, in attesa del ritorno delle belle giornate primaverili e dell’inizio della stagione del football, il professore creò un calendario fitto di impegni legati alla crescita del gioco, che prevedeva di organizzare sistematicamente quattro partite a settimana che interessassero non solo il First Team e il corpo docente, ma tutti gli alunni della YMCA dello Springfield College.
Molto presto ci rendemmo conto della necessità di evadere dalle mura amiche e, già dalle prime partite, si intuiva la portata dell’invenzione del gioco grazie alla grande quantità di persone che il nuovo passatempo riusciva a coinvolgere. Proprio per cercare di accelerare quel processo, il professore chiese alla direzione dello Springfield College il permesso di contattare gli altri atenei del Massachusetts al fine di organizzare dei veri e propri incontri necessari a instillare il seme del basket in tutto lo Stato. Molti college mostrarono un notevole interesse e il First Team veniva inviato nelle diverse scuole a riprodurre, a titolo dimostrativo, le partite. La fama del nuovo gioco presto precedette di gran lunga l’arrivo degli alunni di Naismith.
Nei college si faceva tutto il necessario per riprodurre un ambiente fertile al progresso del basket.
La disponibilità dei ragazzi del dottor Naismith permise di creare un movimento statale legato a quella che ormai era riconosciuta come una vera e propria pratica sportiva in grado di avvicinare un numero cospicuo di adesioni, quasi pari a quelle di solito prodotte dal football.
Nel continuo girovagare fra i diversi college del Massachusetts, uno in particolare si dimostrò ansioso di avere a che fare con il professore e la sua invenzione: lo Smith College di Northampton, la cui responsabile di educazione fisica, la professoressa Senda Berenson, invitò formalmente lo Springfield College a uno di quegli incontri dimostrativi.
La signora Berenson si era fin da subito distinta per l’impazienza palesata nel periodo che precedeva l’incontro con il First Team. Aveva intavolato un rapporto epistolare unidirezionale con il professor Naismith, quasi ossessivo, alla ricerca del maggior numero di informazioni dettagliate a riguardo del gioco. Sembrava fosse la sua ragione di vita, una questione di fondamentale importanza, e la sua insistenza non era passata inosservata al professore che, all’ennesima lettera fattagli recapitare con il timbro dello Smith College, non fece nulla per mascherare un chiaro nervosismo.
Il professore era una persona mite, accondiscendente e molto disponibile nei confronti di chiunque volesse affrontare l’argomento del basket, ma il solo pensiero di doversi rapportare con la signora Berenson lo rendeva irritabile. Delle decine di lettere inviate dalla signora, una sola trovò risposta e al suo interno riportava un messaggio piuttosto chiaro e conciso: la data dell’incontro.
Il giorno del viaggio a Northampton arrivò abbastanza in fretta e i ragazzi del First Team erano stremati dai tanti incontri svolti in giro per il Massachusetts. Appena giunti a Northampton, fummo accolti da una folla numerosa di studenti dello Smith College e il benvenuto fu inaspettato e caloroso, anche perché in tutti gli altri incontri l’affluenza del pubblico si era limitata alla dirigenza scolastica del college ospitante.
Il professore era piuttosto nervoso, forse a causa della signora Berenson, e fu proprio lei la prima persona che gli si fece incontro.
Era una donna distinta, molto elegante, dai lineamenti raffinati e dallo sguardo fiero e deciso, e già a prima vista si intravedeva in lei uno spiccato senso del dovere e un carisma fuori dal comune.
Dietro di lei c’erano l’intera direzione collegiale, che le lasciò totale libertà d’azione, e un gruppo di studenti, interamente composto da ragazze ordinatamente suddivise in file perfette.
Lo stupore del professore e dei suoi alunni fu totale.
Il silenzio regnò sovrano e dopo pochi attimi, nei quali i professori si fissarono dritto negli occhi, capii che tra i due sarebbe nato un sodalizio forte e decisivo per lo sviluppo del gioco. A interrompere il silenzio fu il saluto di benvenuto della signora Berenson, con quel chiaro accento che non mascherava le origini russe. Fu gentile e cortese con gli ospiti, una padrona di casa perfetta, tanto attenta alle cure da dedicare ai propri ospiti, quanto rigida nel pretendere la massima collaborazione da ognuno di noi.
Nel tragitto che portava al campo da gioco non lesinò complimenti alla grande capacità del professore per aver dato vita a uno sport che avrebbe riscaldato i cuori di parecchie persone. Fece tuttavia trapelare un leggero velo di mistero sull’idea che si era fatta del gioco e del modo con il quale avrebbe voluto interagire con esso. L’incontro si sviluppò in maniera sistematica, sulla falsa riga di tutti gli altri.
Per prima cosa il professore prese la parola e, rivolto ai presenti, spiegò loro come fosse nato il gioco e le sue regole principali per poi passare alla seconda parte dell’incontro, meramente dimostrativa, grazie ai ragazzi del First Team.
Se devo essere sincero aleggiava un clima del tutto diverso da quello assaporato negli altri college.
La palestra, a differenza di tutte le altre, non aveva quell’aria pesante di umido misto a polvere. Al contrario, era linda e profumata come il soggiorno di una bella casa borghese nella contea di Hampshire. La mano femminile era evidente, ed evidente era l’interesse per il gioco e le sue regole.
Non riuscivo a capire quale fosse il motivo di tanto coinvolgimento ma, di sicuro, dietro a tutto ciò c’era l’opera della professoressa Berenson.
La dimostrazione si concluse dopo una serie fortunata di tiri a canestro dei ragazzi del First Team, e per la verità mi prodigai parecchio per fare in modo che ciò accadesse; avevo come il sentore che una serie di errori non sarebbe stata gradita dalla signora Berenson e non avrebbe permesso di affrontare al meglio il colloquio successivo con il professore.
Non appena la dimostrazione dei ragazzi, guidati da Willie Chase, si concluse, la palestra si sciolse finalmente in un caloroso applauso.
Tutte le giovani studentesse, fino ad allora immobili e in silenzio al bordo del campo da gioco, si misero in moto agli ordini della regina Berenson e misero su un buffet degno di nota.
I ragazzi del First Team apprezzarono il cibo e la conversazione con le studentesse dello Smith College. La signora Berenson, avvicinandosi con aria soddisfatta al professor Naismith, lo invitò a seguirla nel suo ufficio ed entrambi convennero che a tale incontro fosse necessaria la mia presenza. Mentre ci avvicinavamo all’ufficio della professoressa e, pian piano, il profumo delle prelibatezze preparate per i ragazzi dello Springfield College veniva sostituito dall’odore tipico di penne intinte nell’inchiostro rappreso sul fondo dei calamai nelle aule, notavo come il rapporto tra i due professori, seppur professionale, si facesse sempre più complice.
L’ufficio della signora Berenson era ben distante dal prototipo di qualsiasi altro ufficio al quale avevo avuto accesso: piante, quadri e dipinti adornavano una stanza pervasa da una gradevole fragranza alla vaniglia. La chiacchierata fu piacevole e pacata come il professor Naismith non aveva mai avuto con nessun altro interlocutore ospitante il First Team. In quasi tutti gli incontri precedenti, le scuole si erano affrettate a chiudere le porte dietro di noi non appena la fase dimostrativa dei ragazzi si era conclusa. Nessuno mai si era preso la briga di confrontarsi con il professor Naismith. Per lo più ci usavano come strumenti per prendere visione di un mondo che loro credevano di comprendere senza averne competenza.
La Berenson invece incalzava costantemente il professore con molte domande. Si capiva quanto fosse interessata e preparata, ma né io né il professore riuscivamo a intuire il motivo di tanta enfasi, fino a quando improvvisamente la professoressa scoprì le sue carte.
Tutto ci saremmo aspettati tranne la proposta che avanzò la cortese padrona di casa.
La nostra reazione non fu tanto causata dall’orrore della proposta in sé, tutt’altro che orrenda; a stupirci fu realizzare che non ci avessimo pensato noi per primi.
L’idea della professoressa del college di Northampton era quella di insegnare il nuovo sport alle ragazze, di creare un attivismo parallelo al basket maschile che avrebbe consentito anche a loro di assaporare il gusto e il piacere dell’invenzione del professor Naismith, ma che, soprattutto, avrebbe permesso di instaurare un forte spirito di socializzazione e di cooperazione tutto al femminile.
La professoressa sfoggiò tutto il suo fascino e il suo savoir-faire per colpire Naismith e cercare di ottenere da lui una risposta favorevole. Non appena si concluse la sua arringa, la stanza fu avvolta da un imbarazzante silenzio che parve durare un secolo. Il professore si voltò pensieroso verso di me, alzò le sopracciglia in segno di sconcerto e si lasciò andare in una sonora risata. Non lo avevo mai sentito ridere così fragorosamente.
Né io né la signora Berenson ne afferrammo il significato, e l’espressione del viso della professoressa sembrò denunciare una crescente irritabilità. Il cambio d’umore della sua interlocutrice spinse Naismith a scusarsi e a ritenersi entusiasta della proposta; i pregiudizi nei suoi confronti caddero e furono sostituti da un’enorme stima.
La compagnia si sciolse pochi minuti dopo, consapevole di aver scritto una nuova pagina della storia del gioco: la nascita del basket nella sua espressione al femminile.
Il rapporto tra i due professori non si affievolì nei mesi a seguire, anzi si intensificò ulteriormente attraverso un fitto scambio epistolare che non fu più unidirezionale. Il professor Naismith, la signora Berenson e io ci rincontrammo solo un’altra volta, sempre allo Smith College, esattamente un anno dopo la prima partita ufficiale di basket che si era tenuta a Springfield. Fu infatti nel marzo del 1893 che si disputò a Northampton la prima partita ufficiale fra squadre femminili. La scelta di acconsentire a tale sviluppo da parte del professor Naismith fu sicuramente azzeccata, in quanto fu proprio il basket al femminile a diffondersi rapidamente all’interno degli atenei di tutta la nazione, dando vita alle prime competizioni universitarie.
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