Guardavo sempre in alto, nonostante quelle vetrate colorate con le immagini dei santi le conoscessi a memoria.
Il silenzio era perfetto, il profumo di incenso era perfetto, quell’aria sempre fresca che odorava di marmo era perfetta.
Io e i miei tre piccoli amici ci eravamo da poco presi in giro in sagrestia nel dividerci i ruoli: chi suona la campanella, chi versa il vino, chi tiene il piattino e chi piega il tovagliolo.
Le tuniche bianche erano lunghe e larghe, e io, il più magro, ero il più buffo.
Dall’altare, il primo segno della croce del parroco dava inizio al rito celebrativo, in massa il popolo dei fedeli si alzava in piedi. Io allora rialzavo la testa e ritornavo a guardare le immagini impresse nelle vetrate colorate. La mia preferita era quella di Gesù sulla croce che promette il Regno al buon ladrone.
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Capitolo uno
Domenica
L’appuntamento era al solito posto.
Rino, sotto il tetto di cemento del porticato, era appoggiato di schiena a un pilastro. Aveva tirato su la gamba destra, la teneva piegata all’indietro per permettere alla pianta del piede di poggiarsi al muro. Tra una boccata e l’altra si studiava una Marlboro, si chiedeva se fosse la solita di contrabbando o una di quelle originali – quest’ultime erano facili da individuare, riportavano in minuscolo la scritta “Monital” appena sopra il filtro. Rino non le comprava mai, pagare una sigaretta era per lui una scomoda impresa, le elemosinava in giro per poi ritrovarsi in tasca di tutto e di diverse qualità.
Suo fratello Guido, di qualche anno più piccolo ma appena più alto, gli stava accanto e seguiva con balordo interesse l’indagine sulle origini della sigaretta raccattata. Con le mani infilate nelle tasche sfondate del giubbotto e una postura del corpo che gli faceva inclinare leggermente in avanti la testa – immersa in quelle spalle curve, sopra il petto incavato –, con il suo modo di fare di chi presume di sapere sempre tutto, cercava di imporre al fratello il suo presuntuoso parere: «Per me è originale. Zio Antonio le compra sempre dal tabacchino».
Il cielo luminoso di azzurro aveva poche nuvole bianche e tiepida era l’aria che si respirava: un pomeriggio nel cuore di aprile, la primavera oramai aveva aperto tutte le sue porte.
I palazzoni di colore giallastro sembravano slanciarsi in alto accavallandosi l’uno sull’altro, mentre le auto di chi li abitava occupavano spazi un po’ dappertutto, in modo cinico e silenzioso: sotto i ruvidi portoni, al ridosso dei verdi e sguarniti giardini e, meticolosamente, anche sulla curva della strada grande, quella che segnava l’ingresso dell’enorme quartiere. Ogni balcone che sporge dalla facciata di questi palazzoni è invaso da vasi di piante di svariate altezze e colori o da malconci mobili d’arredo, stipati di quello che può servire alla vita quotidiana domestica.
Immerso in un sipario di bucato appeso nell’aria su lunghe corde, tutto sembrava ordinato come il palco di un piccolo teatro, pronto a regalare al suo umile spettatore l’ennesima commedia.
Anche quel giorno fui puntuale. Amavo onorare con la precisione l’ora che decideva un appuntamento. Non sprecavo mai tempo. Le libertà per divertirmi di cui godevo a tredici anni – ma io rispondevo sempre quattordici a chi mi chiedeva quanti anni avessi – erano piuttosto limitate.
La domenica per me era un giorno veramente speciale. Potevo andare in giro con gli amici perché mio padre mi autorizzava l’uscita: ero libero. Non pretendeva niente, l’unico obbligo da rispettare era il rientro per le otto di sera.
Da quando avevo iniziato il terzo e ultimo anno di medie era ormai consuetudine che la domenica il mio dovere verso il mantenimento di una certa disciplina si allentasse. Stando ai miei genitori, niente doveva compromettere la mia lucidità psicofisica per il mattino seguente, il lunedì. La scuola e lo studio dovevano prevalere su qualsiasi elementare desiderio che mi si fosse presentato, e qualunque amico io abbia avuto durante quel periodo della vita non è mai stato in grado di convincere mio padre e mia madre del contrario, cioè di avere delle concrete capacità di potermi trasmettere qualcosa di interessante o di valore per il mio percorso di crescita, quel qualcosa che un giorno, forse, mi sarebbe stato utile quando le incerte vicissitudini della vita ne avrebbero fatto richiesta.
«Ciao, Rino; ciao, Guido. E Giacomo?» chiesi.
«Tra poco arriva» rispose Rino, senza darmi importanza. Mantenne il capo chino per fissare quella stupida sigaretta, ma alzò lievemente lo sguardo puntando i suoi occhi nella mia direzione. Si mosse appena, giusto il necessario per togliere il mio corpo dalla traiettoria della sua vista, in modo da poter guardare oltre le mie spalle, in lontananza. «Sta arrivann» mormorò appena, con un mezzo sorriso smorzato, che era il suo modo di salutarmi.
Un fischio da dita congiunte in bocca, secco e forte, arrivò da lontano.
Mi voltai rapidamente, di scatto. Impegnai i miei occhi in una sorta di slalom tra i pilastri del porticato, cercando di capire l’epicentro esatto di quel suono e chi l’avesse emesso.
Giacomo ci veniva incontro con la sua solita camminata a gambe aperte, un po’ gradassa, che a me faceva impazzire dal ridere. Era il più basso di tutti, ma aveva una corporatura muscolosa e quadrata. A prima vista dava l’impressione di essere tracagnotto: niente di più sbagliato. Semplicemente, il suo fisico si esprimeva in modo massiccio, stranamente tarchiato, come quello di un uomo adulto. Quel pomeriggio si era pettinato con tanta di quella gelatina che tra i capelli e ai bordi delle tempie si ammassavano piccoli cumuli verdastri e bluastri di quella scadente sostanza viscosa. «Allora, c’ne jamm» esclamò Giacomo con presuntuosa ironia appena ci fu di fronte, consapevole dell’ordinario ritardo.
Mentre tentavo con tutte le mie forze di sopprimere una risata, osservavo Rino che lo squadrava, esaminava i suoi capelli. Riusciva a tenere ferma e appesa la sigaretta alla bocca, aspirando e soffiando fumo velocemente come un vecchio. Le narici e gli abissi della bocca gli fumavano come un camino alle prese con il fuoco della prima legna, quello più forte.
Veloci e silenziosi ci avviammo sotto i porticati dei palazzoni giallastri, sotto quel tetto di cemento. E di quei portoni che ci spalleggiavano, segnando impetuosi l’ingresso nei distinti edifici, era raro incontrarne uno con le vetrate ancora intatte. Nei pezzi di vetro superstiti e pericolosamente penzolanti si rifletteva l’immagine di quattro ragazzini che da tempo si confidavano il desiderio comune di voler fare cose da grandi, prima di quel che ancora ci voleva per essere davvero adulti; intanto nessun gioco sarebbe riuscito mai a saziare la fame di quel loro desiderio. Rino aveva sempre avuto una marcia in più degli altri, lui era la punta del gruppo per strada, e ogni idea era destinata al dunque solo se benedetta dal suo silenzioso annuire. Era il più grande, di poco, di quel paio d’anni che lo rendeva saggio. Dal fisico leggero e robusto, amava pettinarsi in modo strano, a volte quasi sembrava che non lo facesse proprio. Quei capelli folti e neri che si ritrovava, qualsiasi fosse l’acconciatura, anche la più disordinata, erano sempre armoniosi, notevoli e belli da guardare. Era il secondo di quattro fratelli, mentre Guido, invece, era l’ultimo e arrivava dopo l’unica femmina, Giulia. Abitava al piano più alto dei palazzoni, e la scuola, per lui, come per lo stesso Giacomino, si era fermata alle elementari, alla classe terza. Tutti e due già lavoravano e avevano sempre dei soldi. Insieme facevano i garzoni in una lugubre bottega che offriva scadenti lavori di tornitura in ferro e legno. In modo precario, offrivano quel servizio in uno spazio nascosto, nei pomeriggi mortificati da una stanca penombra e da una clientela angosciante e presuntuosa, tra le macerie di una vecchia caserma militare e le rovine della guerra. Uno scheletro di cemento sopravvissuto ai violenti bombardamenti alleati e tenuto ancora in piedi in quello stato senza alcun riguardo delle autorità locali.
Molti pomeriggi, dopo pranzo, la visitavamo. La curiosità di quell’età per noi significava rendere un gioco adulto. Attraversavamo stanze e saloni enormi senza soffitto. Lo squarcio delle bombe aveva costruito un tetto fatto di cielo, nuvole e luce, mentre noi sapevamo scavalcare parti di pavimento fatte di aria e di vuoto. Ogni volta che ci allontanavamo dal quartiere per recarci da quelle parti incontravamo quell’ammasso di rovine. Eravamo sempre curiosi di osservarlo, con la mano indicavamo le stanze in cui eravamo stati e dove, invece, dovevamo ancora entrare.
Qualcuno aveva parlato di un pezzo di portiera di un carrarmato da qualche parte, con le stelle disegnate sopra e conficcata come un palo nel terreno. C’era pure chi raccontava di averci trovato un elmetto nero. Quel pomeriggio, invece, la guardammo ma andammo oltre.
Osservavo Rino stuzzicare con gesti affettuosi tutti i cani bastardelli che incontravamo; arrivammo in stazione seguiti da un branco di segugi sporchi e affamati.
Il primo treno per il centro di Napoli sarebbe arrivato dopo mezz’ora e con un prezzo per il viaggio di duemila e quattrocento Lire, andata e ritorno.
Rino scelse una panca e lì trovò il suo comodo spazio per fumarsi un’altra sigaretta.
I cani malconci gli gironzolavano intorno. Qualcuno iniziò, chissà per quale strano movente animalesco, ad abbaiare come un dannato, e solo un calcio di Rino lo convinse a smettere. Gli altri erano stesi a terra: qualcuno si grattava così ripetutamente che quasi sembrava staccarsi brandelli di pelle e di pelo.
Le intenzioni di viaggiare muniti di regolare biglietto erano piuttosto limitate. Nessuno aveva manifestato in modo indiscutibile tale volontà, tranne io. In tasca avevo poco più della somma necessaria per comprare il biglietto, messa insieme con tanta moneta spicciola nel corso dell’intera settimana. Ci volevo arrivare, in centro, e nemmeno per un attimo avevo preso in considerazione l’ipotesi di essere costretto a compromettere le serenità del viaggio perché tentato di scendere a patti con la furbizia.
Si discusse molto, ad alta voce. Fu una conversazione bizzarra e a tratti molto comica. Parolacce e sfottò, battutacce varie, spintoni e mani addosso.
Rino, seduto sulla panca, ogni tanto ci guardava per poi rimettersi in silenzio, in compagnia dei suoi pensieri. Non partecipava per nulla alla discussione, ogni tanto scrutava il mondo in lontananza.
I bastardelli continuavano a stiracchiarsi intorno a lui, vibravano scatti improvvisi ogni volta che Rino accennava il più piccolo movimento per cambiare posizione. Lo sguardo vigile delle bestie scrutava con attenzione il ragazzo, precludendo ogni distrazione. Il branco di cani, d’istinto, si imponeva la protezione del proprio amico e padrone, mostrandosi pronto a difenderlo in qualsiasi momento: il dividersi e distrarsi appartiene solo agli uomini.
La mia teoria era semplice: pagare quel biglietto e garantirmi così un viaggio sereno e sicuro, nei tempi, soprattutto. La mia libertà limitata mi imponeva di valutare ogni rischio che avrebbe potuto mettere in discussione la puntualità del mio rientro. Non avrei avuto né il modo né il tempo necessario per le dovute spiegazioni. Capire i perché, all’epoca, per un genitore era un fattore secondario; avrebbe fatto giudizio e sentenza la sola sussistenza dei fatti.
La sala d’attesa si riempiva di gente.
Quel buffo spettacolo era diventato un piccolo rimedio per chi aveva bisogno di ignorare il tempo che rimaneva prima che arrivasse il treno.
L’altoparlante in stazione annunciò l’arrivo a minuti di quello per Napoli, mentre la discussione continuava, inconcludente e bizzarra.
«Un biglietto andata e ritorno, per piacere.» Era la voce di Rino. Non era più sulla panca e ci dava le spalle, fermo davanti alla biglietteria.
Avevamo smesso di agitarci. Guardavamo Rino intascarsi i biglietti e sistemarsi il resto della moneta nel portafoglio.
Ci scrutò per un breve istante, poi piegò la testa e si accese una sigaretta. «Muovetevi, massa di scemi. Altrimenti ci vado da solo.»
Lo seguimmo immediatamente, senza esitare. Ognuno di noi fece il biglietto.
«E sord’ int’a chiavica» bisbigliò a se stesso Giacomino, mentre consegnava le monete allo sportello.
Ognuno scelse il suo posto, c’era poca gente sul treno.
Rino non arrivò subito, era impegnato a impedire che le bestie lo seguissero fino sul vagone. Fermo dietro alle porte, spiava i cani sulla banchina, immobili con le loro espressioni desolate. Rino si avvicinò quasi a toccare il vetro, che all’altezza delle sue labbra si appannava sotto i respiri di fiato caldo. Rimase lì fino al prolungato fischio finale del ferroviere sulla banchina, quello che ti avverte della pronta partenza. Sopportò quasi impassibile anche quel sordo rumore di gomma che batte quando le porte si affrettano nella chiusura.
Il treno correva veloce. Non potevi non fermarti almeno per un attimo a osservare fuori del finestrino le immagini di quel mondo che sfugge improvvisamente allo sguardo: dal casolare contadino sperduto in campagna, alle auto ferme in coda dietro la sbarra che separa l’asfalto della strada dal caldo acciaio delle rotaie; le grandi case con le loro finestre e le mura dove dietro si svolge la vita umana; e poi quell’immagine, piccola e veloce, di ragazzini che giocano a calcio nei grandi piazzali di cemento, costeggiati da montagne di rifiuti.
Giacomo non dava tregua. Si ostinava a ribadire il suo parere sull’opportunità o meno di fare il biglietto, sottolineando “l’errore” di aver deciso di pagare per un viaggio in Circumvesuviana di domenica pomeriggio. «Non mi dite più cosa devo fare con i miei soldi la prossima volta. Farò come dico io» sentenziò in tono duro e nervoso. «E mo’ e regalamm e sord!» aggiunse, mormorando a voce bassa.
Io non intervenni, preferii evitare.
Guardavo Guido impegnato a leggere tutte le frasi, con le relative date riportate in diversi colori, scritte con un pennarello sui sedili, sui vetri e un po’ ovunque: una breve testimonianza di chi aveva occupato quei posti e aveva deciso di sottoscrivere quel momento, scolpendolo nel tempo; un modo di far conoscere a qualcun altro quello che sarebbe diventato un ricordo.
Rino continuava il suo viaggio, silenzioso e con un pensiero rivolto altrove. Qualche volta ci regalava attenzione con un sorriso stanco, per poi perdersi di nuovo in se stesso.
«Ma è successo qualcosa?» domandai a Giacomo.
«Che?»
«Rino sembra in lutto…»
Giacomino per un attimo esitò; solo dopo aver lanciato una fugace occhiata a Rino mi si avvicinò piano e, con voce atona, mi sussurrò le seguenti parole: «È colpa di Sara».
«Chi è Sara?»
«Come “chi è”? È la figlia del carabiniere, quella che abita da dicembre dell’anno scorso nelle case nuove, appena fuori del quartiere.»
Ricordai. Avevo visto quella ragazza solo un paio di volte, forse. Sara aveva un fisico esile e i capelli castani, lunghi e lisci, e lineamenti aggraziati; era sempre ben vestita e profumata. Aveva gli occhi verdi e non parlava il dialetto, solo un corretto italiano. Abitava in un villino a qualche centinaio di metri dai palazzoni gialli, e il pomeriggio, spesso, nelle giornate di bel sole, in bicicletta e con le sue amiche, veniva dalle nostre parti. Sapevo che frequentava il mio stesso istituto dalla fine dell’anno scorso, ma ero sicuro di non averla mai incontrata a scuola. Un giorno, mentre lei era in giro con la sua bicicletta, un’auto impegnata in una semplice manovra di retromarcia l’aveva investita facendola cadere. Per fortuna non era stato nulla di grave. Su quella macchina c’erano Rino e suo padre. Il mio amico l’aveva soccorsa. Lei aveva detto di star bene e lo aveva invitato a non preoccuparsi, poi aveva aggiunto che sarebbe tornata da sola a casa. Dopo quel giorno, Rino trascorreva parte del pomeriggio seduto su di una panchina piazzata in un tratto di strada che Sara, una volta uscita di casa, qualsiasi destinazione si fosse prefissa, sarebbe stata costretta a percorrere.
Tutto era cominciato con dei sorrisi, poi avevano preso a salutarsi con un “ciao”. Ora era più di un mese che si parlavano e c’era pure chi giurava di aver visto Sara, una sera, salutare Rino con un bacio sulla guancia.
«E che ha fatto adesso questa Sara di tanto grave da gettare Rino in questo stato?»
«Lei niente» mi sussurrò Giacomo con un tono di voce così basso che quasi non lo sentivo. Continuò: «Il padre nun a fa uscì cchiù. Ha saputo che parlava con Rino e non vuole assolutamente che si vedano». Giacomo, dopo queste parole, si ritrasse velocemente e ordinatamente al suo posto, lanciando un’altra occhiata a Rino per accertarsi che non si fosse accorto di quell’innocente pettegolezzo che lo riguardava.
A me, intanto, era tutto più chiaro. Non aggiunsi altre domande né tantomeno pensai di porle a Rino.
Decisi di accendermi una sigaretta e guardare anch’io fuori dal finestrino.
«Questa è bella» mormorò Guido. «Fabio, vieni qui…»
Mi avvicinai e gli chiesi di cosa stesse parlando.
Mi indicò una frase scritta in rosso sotto a un finestrino:
“I ricordi sono un tesoro di inestimabile valore.
Non hanno tempo, non hanno fine.
Per l’eternità uniranno ciò che alla vita è stato impossibile.
E il tuo ricordo sarà mio per sempre.”
È vero, pensai, è proprio bella.
Salvatore Oriolo (proprietario verificato)
Che dire, l’autome mi ha regalato sensazioni uniche facendomi vivere la storia come se fosse mia. Mi sono ritornati in mente ricordi che avevo praticamente rimosso. In ogni personaggio rivivevo amici e storie del periodo più bello della vita “l’adolescenza” dove tutto è una scoperta ed un insieme di emozioni. Emozioni che l’autore ha dato riga per riga dove la voglia di arrivare alla fine era tanta ma allo stesso tempo non vuoi che finisca mai. Leggerlo è stato un insieme di sorrisi, rabbia, tristezza e malinconia del passato.