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Risalire sulla giostra

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Francesco è figlio di due umili contadini modenesi, ma riesce a farsi strada fin da subito, sia a scuola sia nel lavoro. Si laurea in Economia e raggiunge rapidamente i vertici di una grande azienda, conosciuta in tutta l’area. La sua carriera sembra in perenne ascesa quando, negli anni Novanta, con l’avvento della globalizzazione, le cose si complicano e Francesco inizia a “inciampare” persino nella vita privata. È proprio in quel momento, senza dubbio il più difficile della sua vita, che incontra Charel, un ragazzo congolese scappato dagli orrori della guerra. Il confronto con un dramma più profondo del suo permette a Francesco di rialzarsi e di capire quali sono i veri affetti e le cose importanti per cui lottare.

PRIMA PARTE

Il giovane Francesco

Al calare del sole la pioggia insistente della giornata era cessata. La piccola fattoria era immersa in una nebbia bianca e fitta. Dalla campagna piatta saliva l’odore della terra umida.
Nella penombra della sera, Cesare Mattioli, dopo aver sistemato la stalla per la notte, si muoveva stanco pensando al figlio che stava per nascere. Da qualche giorno si tormentava la mente temendo che la moglie Maria non lo avvisasse in tempo per dirlo alla levatrice.
La giovane donna aveva portato il figlio in grembo con naturalezza e aveva continuato a faticare nei campi per aiutare il marito. Non parlava mai del suo stato, era una condizione naturale, quella che una donna sposata attraversa in una fase della propria vita. Vi era poi un aspetto della sua educazione che la induceva a non manifestare le emozioni né tantomeno le proprie preoccupazioni.
Cesare e Maria erano andati ad abitare in quel luogo sperduto della campagna modenese subito dopo il matrimonio, quando lui, appena venticinquenne, aveva ereditato dal padre un modesto appezzamento di terra coltivato in parte a frutteto e in parte a orto.
Nella distesa dei campi, sul lato a est, spuntava una casupola bassa il cui unico pregio erano i mattoncini a vista di un colore rosato che ne coprivano il perimetro fondendosi in armonia con le tegole del tetto spiovente. La casa era piccola e fredda, ma le mura spesse e i serramenti di legno massiccio la proteggevano dalla pungente umidità che saliva dalla pianura nebbiosa e dal fiume che scorreva calmo a poca distanza. Una stalla di legno, non lontana dalla casa, accoglieva qualche animale da latte, insieme all’ammasso confuso degli attrezzi che servivano per il lavoro dei campi.
I due giovani non conoscevano il mondo al di là di quella campagna, non avevano pretese ed entrarono in quel casolare spoglio con animo sereno. Comprarono una stufa a legna per riscaldare la cucina, un letto di ferro battuto, un solido materasso e poche altre suppellettili.

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Il gabinetto, stretto e lungo, era usato solo per i servizi igienici.
Nelle mattine d’inverno, Maria lasciava a passo rapido la fredda camera da letto con le spalle strette nello scialle di lana e si precipitava in cucina per riattizzare il fuoco nella stufa prima che Cesare si svegliasse. Si lavava nell’acquaio di pietra dopo avervi rovesciato il pentolone d’acqua che la sera prima aveva messo sul fuoco. Nella notte la legna si era spenta, ma l’acqua aveva mantenuto un po’ di tepore.
«Maria, come stai?»
«Sto bene, perché me lo chiedi di continuo? Quando sarà il momento, te lo dirò…»
La cena era pronta. Si sedettero a tavola e mangiarono in silenzio. Cesare la guardava per cogliere nel suo sguardo o nei gesti qualche segno di mutamento. Si allontanava di rado dal casolare e l’idea di trovarsi a organizzare in fretta quello che c’era da fare per il parto non lo faceva stare tranquillo.
La preoccupazione lo assaliva soprattutto alla sera. Se le doglie si fossero presentate durante la notte, tutto sarebbe stato più complicato. Nel buio della campagna avrebbe dovuto avventurarsi in bici-cletta verso il bar del paese, chiamare dal telefono pubblico un parente e recarsi in macchina a casa della levatrice che abitava a qualche chilometro di distanza.
Avvenne come aveva previsto, per fortuna, senza conseguenze. Quella stessa notte Maria iniziò ad avvertire i primi dolori che anticipano il parto, richiamò alla mente i consigli della madre: “Risparmia il fiato, non gridare, respira con calma e andrà tutto bene”. Quando non ebbe più dubbi sulla natura dei segnali del proprio corpo, si decise a svegliare Cesare. Dopo due ore arrivò la levatrice e si prese cura di lei.
Alle undici e trenta di mattina del 25 novembre 1951 nacque Francesco.
La nascita del bambino agì sull’animo dei genitori come un vento di primavera. La tenerezza che provavano verso di lui liberò i loro gesti da quella ritrosia contadina che fino ad allora li aveva bloccati persino nei momenti di intimità. Il bambino era gioioso e vivace, ed entrambi impararono a ricambiare i suoi segnali di affetto con parole dolci, sguardi e gesti amorevoli. Maria si lasciò andare per prima e aiutò Cesare a fare altrettanto.
Anche la piccola casa, piuttosto buia e spoglia, assunse un aspetto vivace: Cesare tinteggiò le pareti di bianco, mentre Maria cucì delle tende colorate che montò alle finestre. Nelle belle giornate, traspariva una luce flebile, ma calda. Acquistarono anche una culla di vimini che durante il giorno spostavano nella parte più luminosa della cucina.
Francesco dimostrò presto le sue doti. Nonostante l’ambiente familiare gli fornisse modeste sollecitazioni, aveva imparato diverse parole ancora prima di compiere l’anno.
Fu la scuola a confermare che il bambino era precoce e intuitivo. Già alle elementari emersero le capacità ricettive e la sua curiosità; era un bambino socievole, arguto e al tempo stesso creativo. A queste doti associava un impegno pari a quello che metteva nell’aiutare i genitori in piccoli lavori della campagna. Al mattino, infatti, si svegliava con loro attorno alle sei e, prima di avviarsi a piedi sulla strada polve-rosa verso la scuola del paese, si dedicava a piccole incombenze della fattoria.
Alcuni compagni erano figli di contadini come lui, altri di commer-cianti. Nella sua classe c’era anche la figlia di un industriale della ceramica.
I genitori avevano frequentato solo fino alla terza elementare, ma seguivano con stupore e orgoglio i progressi scolastici del figlio e iniziarono molto presto a prefigurare per lui un futuro diverso da quello che a loro era toccato per tradizione.
Maria ripeteva a Francesco che, da grande, avrebbe lasciato quella campagna nebbiosa che li separava dal resto del mondo e che avrebbe abitato in una casa riscaldata con una bella vasca da bagno. Per la verità, non ne aveva mai viste, ma quando alla fine degli anni Sessanta Cesare acquistò a rate il televisore, si fece un’idea più chiara su come il figlio avrebbe potuto sistemarsi e fare una vita agiata.
I professori delle medie suggerirono di iscrivere Francesco al liceo scientifico e fu scelto il collegio San Giuseppe di Modena, dove il ragazzo rimase a convitto per cinque anni. La famiglia affrontò un impegno gravoso, ma Cesare e Maria erano convinti che farlo studiare era il loro dovere e che i sacrifici sarebbero stati sicuramente ripagati.
Nel fine settimana Francesco saliva sulla corriera che lo lasciava nei pressi di un paese vicino, percorreva un lungo tratto a piedi e passava la domenica con i genitori.
Verso i sedici anni le visite iniziarono a essere sempre di meno, perché il ragazzo preferiva la compagnia degli amici prima, e quella di qualche ragazza poi. Com’era nelle aspettative, concluse gli studi superiori con risultati brillanti. Trascorse l’estate del diploma dividendo il tempo fra il lavoro nei campi e la biblioteca del paese dove cercava informazioni sulle facoltà universitarie e sulle opportunità di lavoro.
Cesare avrebbe voluto che Francesco diventasse un medico, il dottore per eccellenza che conosce i segreti per curare la gente. Immaginarlo con un camice bianco, le mani pulite e curate lo riempiva di orgoglio.
Maria non si esprimeva, desiderava soltanto che facesse la sua scelta, non dubitava che avrebbe avuto un futuro pieno di soddisfazioni.
In quell’estate, Francesco riuscì a trovare anche il tempo per guadagnare un po’ di soldi: gli capitò di dare lezioni private di matematica e di latino. La voce si sparse e in poco tempo arrivarono richieste da genitori di ragazzi che conoscevano Margherita Ferrari, una compagna delle elementari con cui era rimasto in contatto. Erano giovani un po’ svogliati e indolenti, figli di quella ricca borghesia del modenese che negli anni Sessanta aveva fatto fortuna nel settore della ceramica.
Quelli erano gli anni del boom economico: il settore edilizio se n’era avvantaggiato e la produzione delle piastrelle, caratteristica della zona, aveva avuto un forte incremento.
Francesco ridusse il tempo che dedicava al lavoro per aiutare i genitori e si organizzò spostandosi da un’abitazione all’altra dei giovani allievi con il motorino che Cesare gli aveva regalato dopo il diploma. Passava diverse ore della giornata in compagnia di questi ragazzi e ragazze della cosiddetta “buona società” che abitavano in ville spaziose ed eleganti. In alcune case si esibiva un lusso talmente sfacciato e pacchiano, che Francesco non si sentiva a proprio agio. Imparò quindi a osservare quei luoghi tanto diversi dal suo mondo e iniziò a farsi un’opinione su ciò che per lui era espressione di armonia. Gli capitava di ricordare le parole di Maria quando da piccolo gli parlava del suo futuro, discorsi che allora gli sembravano favole. Ora si ritrovava invece a pensare che la madre aveva ragione: dopo la laurea avrebbe trovato un buon lavoro, sarebbe riuscito a dare una svolta alla sua vita e avrebbe abitato in una casa di cui anche Maria sarebbe stata orgogliosa.
Frequentò l’università nei famosi e turbolenti anni Settanta. Bo-logna era una città vivace e molti giovani partecipavano ai movimenti politici di quegli anni. Anche Francesco vi aderì, pur rifug-gendo da ogni forma di azione violenta. Osservava con occhio critico gli interventi di certi suoi compagni borghesi, scorgeva nella loro enfasi estremistica qualcosa di opaco e questo lo portava istintivamente a prenderne le distanze. Al primo posto rimase comunque l’impegno nello studio che affrontò con l’obiettivo di laurearsi in tempi rapidi. Conseguì la laurea a pieni voti con lode in Economia e Commercio.

2022-05-14

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2022-05-09

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2022-03-11

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2022-02-24

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2022-02-23

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Sandra Ragionieri Scotti
Laureata in Economia, è stata dapprima insegnante di Discipline economiche, poi dirigente scolastico. Ha contribuito a costituire la Fondazione I.T.S. MITA di cui è stata presidente dal 2010 al 2012. Nel 2015 pubblica il saggio La scuola di Renzi è davvero buona? (Ed. Dissensi) e nel 2020 il romanzo Il falso (Ed. Porto Seguro), entrambi testi in cui sceglie di affrontare temi etici e questioni sociali.
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