I
L’altra metà della mela
1
Mercoledì, 21 settembre 2016
Sono sdraiata per terra nella mia stanza alla luce fioca delle sei, ho finito i compiti da poco e i miei genitori per un momento sono in silenzio. Voglio approfittare di questo momento di pace, così mi sposto sotto al fascio di sole che penetra dalla finestra. La luce calda e dolce di quest’ora mi riscalda le guance, il sole mi coccola dall’alto e all’improvviso provo dentro di me una sensazione di gratitudine. Sono contenta perché precisamente in questo momento la mia mente è libera, la mia coscienza è leggera e il mio cuore è colmo. È una sensazione che non si prova spesso, quella di sentirsi in pace con sé stessi e con il mondo. È una sensazione che ti prende quando meno te l’aspetti, quando non la cerchi, e mentre la stai provando ti rendi conto che sarebbe facile sentirla spesso, magari tutti i giorni, magari per sempre, perché come sto bene oggi stavo bene anche ieri, eppure ieri questa sensazione non la provavo. Che strana la vita degli uomini, un giorno sono felici e il giorno dopo vorrebbero non essere mai nati.
In questo momento di lucidità terrena mi rendo conto di essere una persona fortunata, ho due bravi genitori, un ragazzo che mi vuole bene e anche qualche amica che mi fa compagnia. A scuola sono discretamente brava, sport non ne pratico, perché sono troppo pigra, ma sono comunque fisicamente in salute. Mi viene da sorridere se penso che da piccola mia madre mi iscrisse a pallavolo e per tutta la durata degli allenamenti fissavo quella palla volare, ammirando i movimenti coordinati delle mie compagne, che non si stancavano mai di correre; il coach ogni tanto mi incoraggiava a essere più attiva e io ci provavo, per un periodo ho anche pensato che potessi diventar brava se mi fossi impegnata davvero, ma poco dopo mi annoiai e abbandonai la squadra. Da allora lo sport non lo pratico più, se non per qualche camminata in campagna con mia madre.
Passano alcuni minuti mentre sto fantasticando su come sarebbe ora la mia vita se fossi stata solo un po’ più atletica, e arrivata alla conclusione che non sarebbe poi tanto diversa da com’è ora, mi metto seduta a gambe incrociate sul pavimento. Il calore che i muri della mia camera hanno assorbito durante il trascorrere della giornata sembra avvolgermi come un boa, eppure io sto qua, immobile, sotto la luce del sole che ora è diventata quasi insopportabile. Il mio cervello è bloccato in un turbinio di pensieri e le mie gambe sono rimaste senza padrone, così rimangono incollate sul pavimento, molli.
Vorrei stare al mare, mi immagino su una scogliera alta, ventosa.
Passo un’altra mezz’ora distesa nell’ultimo sole del giorno, come fanno i sassi e le lucertole, a riflettere su me stessa, sulla bambina pigra che ero in passato e sulla donna che mi piacerebbe diventare in futuro. Felice, mi dico. Vorrei essere felice. Guardo l’orologio, è quasi ora di cena, chissà Christian che sta facendo. Gli mando un messaggio.
Estraggo una Camel light dal pacchetto da dieci ed esco sul balcone, ammirando le luci arancioni del tramonto. Mentre fumo la mia sigaretta in pace mi viene da pensare che, nonostante l’altalena di emozioni che provo quotidianamente, avere diciassette anni è bello. È un po’ come essere un frutto ancora acerbo, appeso ad un albero gigantesco con tanti altri frutti acerbi, che hanno bisogno di stare al sole e di assorbirne i raggi, per poter diventare dolci e pronti a essere tastati.
Terminata la sigaretta rientro in casa e mi distendo di nuovo a terra, esattamente al centro della stanza, e vorrei sentirmi così per sempre, così giovane, così libera, così delirante. Non mi vorrei più rialzare, vorrei giacere qui in eterno, al riparo dal mondo esterno, nella mia stanza che è per me come un castello circondato da un fossato, che nessuno può attraversare tranne me. Nella solitudine della mia camera, nella quale ora penetra delicatamente il barlume blu della sera, schiaccio un breve pisolino. Il mio corpo quasi galleggia sul pavimento, mi sento talmente leggera che mi sembra di volare, ma in realtà sto solo sognando.
È mia madre, con le sue grida, a riportarmi alla realtà. I miei occhi si riaprono all’improvviso, al suono acuto della voce di mamma che mi chiama per la cena. Il crepuscolo sta morendo, anche oggi. Mi metto seduta e appoggio le mani a terra, un leggero strato di polvere del parquet si disperde nell’aria, mi arriva addosso e mi provoca un terribile prurito agli occhi che mi fa venire voglia di strapparmeli. Dormire per terra non è una grandissima idea se si soffre di allergia alla polvere.
«Greta, scendi! È pronta la cena!» esclama mia madre dal piano di sotto. Greta… Christian dice che il mio nome è raffinato; è stato lui a dirmi che il mio nome è la forma abbreviata di Margherita, che in latino e greco significa ‘perla’, e dice che è un nome azzeccato per me. Quando però è mia madre a chiamarmi, il mio nome si storpia, e il suono di quella ‘r’, così aspro al mio udito, mi fa venire voglia di cambiare nome, o forse è semplicemente che mi sono annoiata di chiamarmi così. Quanto sarebbe bello poter cambiare il proprio nome a piacimento? Rimango assorta per un momento a pensare al mio nome, lo ripeto così tante volte nella mia testa che smette di avere significato e comincia a suonare ridicolo alle mie orecchie. Le grida di mia madre interrompono nuovamente i miei pensieri. Meglio che scenda, prima che salga lei urlando come una dannata. Per lei la cena è il momento più importante della giornata e io e papà dobbiamo essere puntualmente presenti all’appello.
Esco da camera mia in silenzio, senza farmi sentire, entro velocemente in bagno e mi metto indosso dei vestiti puliti, mi lavo le mani più volte e mi risciacquo la bocca con il collutorio di mio padre, così i miei genitori non si accorgono che stavo fumando ed evitiamo l’ennesima scenata. Loro sanno che fumo perché una volta la vecchietta che abita al piano di sopra sentì l’odore della mia sigaretta mentre stava pure lei sul balcone, e venne immediatamente a fare la spia a mia madre. I miei hanno provato di tutto per convincermi a smettere di fumare, ma senza alcun risultato, quindi ora tra di noi vige un tacito accordo, per il quale io mi sto impegnando a smettere, e quando proprio ne sento il bisogno posso fumare solo sul balconcino che dà sul cortile, sul lato opposto rispetto a dove sta il balcone della signora, in modo da non infastidirla.
Esco dal bagno convinta che stavolta la farò franca e raggiungo i miei genitori in cucina, che sono già a tavola e si apprestano a iniziare la cena. Appena entro dalla porta percepisco il loro sguardo inquisitore mentre mi studiano, mi scrutano, mi analizzano dalla testa ai piedi, poi si scambiano un’occhiata d’intesa e… mi hanno scoperta pure stavolta.
«Greta, la devi smettere con quella roba! Hai i capelli che puzzano! E se continui così ti diventeranno pure i denti gialli! Tuo padre e io non ti abbiamo insegnato davvero nulla?! E poi cosa fai tutto quel tempo in camera tua?! Ti avremo chiamata almeno dieci volte! E non venirmi a dire che stavi studiando, perché se davvero studiassi tutto il tempo che dici, a quest’ora saresti già medico o avvocato!»
I capelli, cavolo, mi dimentico sempre dei capelli.
«È la scuola che mi stressa…» rispondo, ancora intontita dalla pennichella di prima.
«Ha la testa tra le nuvole tua figlia!» dice mia madre rivolgendosi a papà, come se non fossi pure figlia sua…
Papà prosegue spiegandomi che il fumo fa male ai polmoni, che invecchia la pelle e che può provocare tumori, ma la mia mente si è già disconnessa dalla conversazione. Rivolgo lo sguardo allo spezzatino di carne che mi ritrovo nel piatto, non sembra male. Inizio a mangiare un pezzo di carne alla volta, sfilaccio lo spezzatino con cura maniacale, mentre mio padre continua la sua predica sul fumo.
«Greta, tua madre ha ragione. Il fumo danneggia i polmoni, i capelli, le unghie, la pelle, il metabolismo… davvero non riesci a farne a meno? Ti compriamo una di quelle palline anti-stress se il problema è quello» mi dice papà con il suo solito tono bonario.
Terminata la ramanzina, consumiamo il resto della cena in religioso silenzio, come se scontassi la mia pena attraverso il silenzio dei miei genitori; come se fossi troppo ingrata per meritarmi anche una sola parola da parte loro.
Quella più arrabbiata è mamma, come sempre. Mio padre, nonostante odi il fumo, credo che finga solo di essere arrabbiato, per non far innervosire ancora di più mamma.
Papà è sindaco di Borgo San Clemente, un anonimo paesino di campagna disperso nell’umida e maleodorante pianura settentrionale, una zona ricca e laboriosa, ma un tantino deprimente e fin troppo puritana. Mamma lavora come professoressa di lettere in un liceo a mezz’ora da qua. Io invece frequento il liceo del paese, quindi fortunatamente non mi devo sorbire le grida di mia madre pure a scuola.
Finisco velocemente la carne e i piselli che ho nel piatto e scappo di corsa in camera mia, ma persino da qua riesco a sentire i miei genitori lamentarsi della mia condotta. Papà è una di quelle persone che non riesce proprio a sopportare l’odore del fumo, gli fa venire la nausea e il voltastomaco, eppure lo sento mentre dice a mamma che probabilmente è solo un periodo, che tempo qualche mese e smetterò di fumare di mia volontà: «Greta è una ragazza intelligente, vedrai che lo capirà da sola».
Mamma gli risponde che è irrispettoso anche nei confronti dei vicini che io fumi, perché, anche se abbiamo accordato che fumerò solo sul balcone interno, e quindi la signora del piano di sopra non sentirà nessun odore, tutti gli altri vicini con l’accesso sul cortile interno potrebbero infastidirsi e venire a lamentarsi. Secondo lei la figlia del sindaco dovrebbe dare il buon esempio.
«Quello che mi chiedo è» continua mio padre, «questa voglia di fumare quando le è venuta? Gliel’ha passata quel Christian?»
Mamma gli risponde che Christian è un bravo ragazzo e che non l’ha mai visto fumare: «Non è da Christian che ha preso il vizio, ma da Serena, la figlia degli avvocati, lei sì che fuma come un turco! A me non è mai piaciuta quella ragazzina. Ha la faccia di una prepotente e arrogante; d’altronde la mela non casca mai tanto lontana dall’albero! Tua figlia farebbe bene a non passarci troppo tempo insieme!»
Mia madre sa che io e Serena ultimamente ci vediamo spesso, e devo dire che stavolta potrebbe anche avere ragione. È stata proprio Serena a offrirmi la mia prima sigaretta, ma non perché volesse obbligarmi a fumare, semplicemente ha voluto essere gentile e me ne ha offerta una, poi dopo quella sono arrivate la seconda e la terza, finché mi sono comprata il mio primo pacchetto e il mio primo accendino.
«Suvvia! Sono una famiglia per bene! Io li ho conosciuti… mi diedero l’impressione di essere persone informate, sul pezzo… e credo che anche la figlia sia in gamba» controbatte papà.
«Sarà anche una ragazzina in gamba, questo non lo metto in dubbio! Sarà brava a scuola, a suonare il pianoforte e tutto quello che vuoi tu, ma sta di fatto che è una ragazzina impertinente e che è stata lei a passare a Greta il vizio del fumo! I suoi genitori fumano entrambi e non poco! Era normale che iniziasse anche la figlia e, frequentandola, pure Greta ha iniziato!»
«Ah, lei lo suona ancora il pianoforte? Che peccato che Greta abbia smesso» sbuffa mio padre, sconsolato.
«Certo che tu e tua figlia siete proprio uguali: due ascoltatori selettivi, ma che dico selettivi, eliminativi! Quello che non vi interessa lo eliminate completamente dal cervello!» va avanti mia madre.
«È solo che cerchiamo di vedere il lato positivo delle cose…»
«È stata mia alunna, quella Serena! Per un anno, quando insegnavo alle scuole medie. Faceva la saputella e l’arrogante tutto il tempo. Effettivamente era una brava studentessa, ma questo non l’autorizzava a mettere in dubbio la professionalità dei suoi insegnanti e a sfidarli ogni volta che poteva! Ricordo che una volta disse alla professoressa di inglese che non era capace di insegnare e che lo parlava meglio lei l’inglese, a dodici anni! La collega giustamente si infuriò, parlò con i genitori e successe il finimondo, anche perché si scoprì che la ragazzina aveva trattato anche altri colleghi allo stesso modo!»
«I ragazzini sono sempre stati impertinenti, anche ai nostri tempi, non ricordi più com’era avere la loro età?» aggiunge mio padre.
«Noi non eravamo impertinenti!» controbatte mia madre.
«Hai ragione, noi forse no. Ma molti altri lo erano.»
«Comunque sia, ai suoi genitori avevamo detto che la figlia si permetteva troppe libertà e che doveva portare un po’ più di rispetto verso il corpo docenti! E sai loro che cosa risposero? Che la figlia conosceva bene l’inglese perché loro le avevano fatto frequentare una scuola privata di lingue e che sostenevano il sacrosanto diritto della figlia di esprimere la sua opinione… sacrosanto, dissero! Ora, un conto è dire la propria opinione, con educazione e rispetto, e un altro è essere dei cafoni fatti e finiti!»
«La colpa è degli adulti, cara!» afferma mio padre.
«La colpa di che cosa?» gli chiede mamma.
«La colpa per l’impertinenza dei figli. Anche gli adulti sono impertinenti. Da due impertinenti non può che nascerne un terzo» conclude lui.
«Per fortuna è stata mia alunna soltanto per un anno, so per certo che per tutti gli anni della scuola media i suoi genitori si intromisero nel lavoro dei docenti e non fecero altro che appoggiare la figlia in ogni sua richiesta… senza neanche provare a immedesimarsi nel ruolo degli insegnanti… tutto ciò è ridicolo! E ricordo molto bene che entrambi, prima dei colloqui, stavano sempre lì con quella maledetta sigaretta tra le dita… sembravano due nevrotici, credimi!»
«Ti credo, cara, ti credo…»
Io da camera mia non vedo la faccia di mio padre, ma so che in questo momento sta ridendo sotto i suoi spessi baffi grigi. Mamma delle volte sa essere molto… intensa. Pure io ne ho fin troppo delle sue lamentele, così chiudo la porta della camera, in modo che le sue parole non mi arrivino. Mi infilo le cuffiette nelle orecchie e mi sdraio a letto ad ascoltare la musica. Controllo il cellulare per vedere se Christian ha risposto al mio messaggio, ma ancora nulla; strano, forse starà studiando, lui è un ragazzo particolarmente studioso. In realtà non passa molto tempo sui libri, ma ha come un talento naturale per lo studio. A differenza mia, lui può leggere una pagina un paio di volte e ricordarsela già nei minimi dettagli. Io invece la stessa pagina me la devo rileggere per mezz’ora per potermela ricordare; ho sempre invidiato le persone con la memoria come la sua.
Pensando allo studio mi viene in mente che dopodomani ho la verifica di storia, perciò prendo il libro e, sdraiata a letto, ripeto ad alta voce le mie sottolineature sulla Rivoluzione industriale. Non passano neanche venti minuti, che già le mie palpebre iniziano a calare; la Rivoluzione industriale non è un argomento che mi appassiona particolarmente…
Prima di abbandonare definitivamente il libro di storia sul comodino, do un’ultima occhiata allo schermo del cellulare: nessuna nuova notifica. Con quella sensazione di vuoto nello stomaco, di quando si attende qualcosa che tarda ad arrivare, mi addormento abbandonandomi nelle braccia di Morfeo, ignara del fatto che la notte che sta per arrivare trasformerà la persona che sono, muterà la chimica del mio cervello e mi riserverà un mucchio di domande, alle quali per tanto, troppo, tempo non sarò in grado di dare una risposta.
Commenti
Ancora non ci sono recensioni.