Robbie ha quindici anni e vuole solamente essere ricco. I compagni della scuola prestigiosa che frequenta sono benestanti, hanno ville immense e girano in macchine lussuose, mentre ogni giorno lui vede i suoi genitori lamentarsi e sgobbare per un lavoro sottopagato e precario. L’unica cosa che vorrebbe fare è creare un’entrata che permetta alla sua famiglia di non avere più preoccupazioni, ma come può riuscirci alla sua età?
Tra compagne di classe nerd, disavventure di cuore, studi notturni di economia e trading, Robbie si ritroverà catapultato nel mondo della finanza e dell’imprenditoria.
Riuscirà a raggiungere il suo sogno più grande o la situazione gli sfuggirà di mano?
1. Lo specchio
È successo di nuovo!
Si ripeteva Robert “Robbie” Wayfarer mentre fissava lo specchio. E lo fissava ormai da quindici minuti.
Era ora di colazione e i suoi lo aspettavano per farla tutti insieme, secondo abitudine. Il papà con il giornale aperto che si lamentava un po’ di tutto, come se il mondo facesse proprio apposta per fare innervosire lui, e la mamma che gli metteva fretta perché non perdesse l’autobus.
Sì, avrebbe perso quasi di sicuro quell’autobus, ma non capiva cosa ci fosse di strano in lui. Nella sua immagine percepiva qualcosa di diverso, senza vederlo, come fosse una traccia. Controllava l’attaccatura dei suoi capelli scuri, poi le sopracciglia e il verde degli occhi. Sulle guance c’erano un paio di brufoli nuovi e ancora nessun pelo di barba, ma non erano questi i motivi dello scomodo feeling. Il naso sembrava un po’ diverso dal solito e la pelle tra le narici tirava.
Ok, qualcosa era successo. O meglio: gli era successo. Nella notte. E non era la prima volta. Ma forse adesso era davvero il caso di scendere a fare colazione di corsa, anche perché alla prima ora c’era la professoressa Greenhan e già non sopportava l’idea.
«Robbie! Allez, mon bijoux, che è ora di andare a scuola! Se perdi il bus, guarda che te la fai a piedi, perché io e il papà dobbiamo fare delle commissioni prima di andare al ristorante.»
La mamma aveva ragione. E quel “mon bijoux” lo fregava sempre. A quindici anni non vuoi più essere chiamato così: cavolo, ormai sei grande! Ma non riusciva a capire perché sotto sotto gli piacesse ancora tanto. Forse era per il ricordo di qualche anno prima, quando lui era piccolo e i suoi erano più felici. O magari perché riportava la mente ai racconti della mamma, di quando lei era una bambina e per un periodo si era trasferita con la famiglia dal Nord Europa fino a Dakar. L’unica ragazzina bianca che giocava ogni pomeriggio sulla spiaggia e insieme agli amici si buttava nelle onde con una tavola da surf mezza rotta.
«Robbie! Je te donne un coup sur le nez!»
Sì, sì, ok! Meglio scendere davvero. La mamma scherzava, certo, ma già sentiva il naso strano e un pugno non avrebbe aiutato.
Mentre mangiava di volata i cereali, provò a indagare un po’. La prese alla larga, con fare circospetto: magari loro non avevano notato niente, o oppure sì?
«Mami… Ho sonno… ma soprattutto mi sento un po’ strano oggi.»
«Robbie, è normale avere sonno al mattino, se si gioca ai videogame fino a tardi… Ed è anche normale sentirsi strani a quindici anni. Stai crescendo» disse il papà appoggiando il giornale. E il ragazzo già sapeva come avrebbe continuato. «Ma essere puntuali è importante per dare una buona impressione ai professori e prendere bei voti. Dai, dai, quest’anno sei in seconda, ripeto: è importante!»
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Alla fine perse il bus, ovviamente. Quello che gli faceva girare di più le scatole era che avrebbe dovuto sorbirsi una predica dalla professoressa Greenhan, ma non gli dispiaceva fare due passi, erano quindici o venti minuti al massimo. Con il papà d’estate facevano delle camminate nel suo giorno di riposo e certe sere, in quarantacinque minuti, salivano di buon passo i cinquecento metri di dislivello del piccolo Ginevroso Mount, vicino a casa. Qualche volta, nei week-end, lo portava anche in escursioni più impegnative, Wilbur Wayfarer era un vero appassionato di montagna. Ormai, però, era un bel pezzo che non andavano più, perché suo padre non aveva giorni di riposo dal ristorante e faceva tantissime ore di straordinario per far fronte alle spese.
Che palle ’ste spese, pensava Robbie. Perché non siamo ricchi e basta? E poi che cavolo di spese sono, che non compriamo mai niente di bello?
Camminando per le strade della sua cittadina, avvertiva ancora quella strana sensazione. Come se avesse indossato i vestiti di un altro, anzi, come se ci avesse dormito dentro, e non era certo una sensazione confortevole. Una specie di prurito alle braccia, un fastidio alla schiena, proprio sopra il sedere, e sentiva qualcosa di strano sulla faccia, in particolare sul naso. Come quando il dentista cura una carie e per qualche giorno si sente la masticazione non allineata. Ecco, proprio quella sensazione, ma al naso.
Guardava il suo riflesso in ogni vetrina e in tutti gli specchietti delle auto parcheggiate, ma non c’erano segni evidenti, niente di anomalo. Voleva dare ragione al papà, convincersi che fosse questione di crescita, ma sentiva che sotto c’era qualcosa di più.
2. Il Maccherone
Robbie era quasi arrivato a scuola. Aveva camminato veloce e il suo ritardo era di nemmeno dieci minuti, nonostante i numerosi controlli effettuati sull’immagine riflessa del suo naso.
Si preparava psicologicamente a una predica di livello “prof. Greenhan base”, che sicuramente era una bella rottura, ma nulla in confronto a una di livello medio. O almeno questo si stava augurando, prima sentire quel rumore, un rombo di motore che avrebbe potuto riconoscere tra mille diversi. La sua reazione fisica era sempre la stessa: un nodo immediato alla bocca dello stomaco, gli occhi che diventano lucidi, i piedi freddi e la bocca che si asciugava.
Non vedermi, non vedermi, non vedermi… pregava tra sé.
Il rombo proveniva da quel dannatissimo Quad Super Off Road 125cc del Maccherone, che stava uscendo dalla via della scuola e lo aveva visto eccome.
Robbie lo temeva, lo odiava e lo invidiava fin dal suo primo giorno alla Adam Smith Private High School: Maverick Manacore, alias “Mav” o “Mach 3”, come in pratica imponeva agli altri ragazzi di chiamarlo. Il suo nome, infatti, era quello del protagonista del film Top Gun, un pilota di aerei da combattimento, a testimoniare che forse a sua mamma non era mai passata la cotta adolescenziale per l’attore Tom Cruise. Col suo fisico a forma di grosso cilindro e la testa troppo piccola, Mav non somigliava per niente al divo americano. Aveva due anni più di lui, ma frequentava la classe terza perché era stato rimandato il primo anno.
A dargli il soprannome di “Maccherone” erano stati Robbie, Buzzo, Jeff e Carmelo quando si riferivano a lui in gran segreto. Cercavano di non farsi scoprire, perché seppure non fosse molto atletico, Mav era alto, grosso e molto prepotente e non ci pensava certo due volte a piazzarti un paio di pugni in pancia se qualcosa non gli andava a genio.
«Roberto-Sfigoberto, dove corri? Dalla professoressina?»
Niente da fare, Robbie si dovette rassegnare: stava sgommando verso di lui. Qualche volta, infatti, il Maccherone girava col quad in prossimità dell’entrata della scuola prima dell’orario di ingresso, per poi bigiare la giornata. Gironzolava in zona per essere sicuro di essere visto dagli alunni, ma ancora al riparo dagli occhi dei professori e soprattutto del direttore. Era evidente quanto tenesse alla sua fama da bullo.
Robbie decise che la cosa migliore fosse mostrarsi indifferente alle sgridate per il ritardo, così da sembrare un vero duro, ma inventare un motivo per cui dovesse proprio entrare a scuola. Altrimenti il Maccherone lo avrebbe obbligato a bigiare insieme a lui e Robbie non voleva nemmeno immaginare le conseguenze se fosse stato scoperto. I suoi non controllavano spesso il registro online, ma l’assenza prima o poi sarebbe venuta a galla.
«Ehi, Mach 3, ma chissenefrega della prof! Anzi!» disse ridendo e provando ad atteggiarsi da indolente, per poi cambiare subito argomento. «Ti spari un giro col mezzo?»
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