La villa romana
Dovevo chiamarmi Matteo perché mia madre potesse avere, come desiderava, il poker degli evangelisti. Con Gianluca, uno dei gemelli, ne aveva intascati due in un colpo solo. Il quartogenito, dopo Sabina, di due anni maggiore di me, invece, ebbe il nome del santo patrono di Venezia dal leone alato, Marco: e tre!
Così il pubblicano dovevo essere io. Ma nacqui bimba e mia madre, tornata appena da un pellegrinaggio a Montecassino, mi volle chiamare Benedetta, come il severo padre del monachesimo occidentale, inventore dell’“ora et labora”.
Nata il giorno dell’Immacolata Concezione, mi fu dato anche, per grazia, il nome della Santa Vergine.
Fui Betta per la famiglia (ma per mia madre, friulana, ero in terza persona “labetta”) e poi, via via crescendo, mi accorciai in Bene, Beni, Benni e anche Detta. Tutti mi facevano voltare e dire: «Chi, io?».
Eppure, nel segreto dell’anima, in fondo in fondo, penso che il mio vero nome sia solo Maria.
La mia famiglia, pur arcaica per abbondanza di prole, fu figlia, a modo suo, del boom economico che alimentava il prurito d’ascesa di mia madre. Orfana di padre, com’era stata fin dai sedici anni, doveva aver più figli e più case delle cugine più ricche, con le quali aveva abitato, suo malgrado, da cugina bisognosa.
Pur amatissima dai fratelli della nonna e dalle loro mogli molto nobili, aveva nutrito, nel suo cuore piccino, il bisogno di rivalsa. E a noi, sue figlie, “oche santissime”, rimproverava di non sceglier bene i mariti: «Con tutto il contorno che avete avuto…».
Io pensavo all’insalata, ai cavoletti di Bruxelles, a spinaci e bietole, lei a un “contorno” che non aveva avuto.
Continua a leggereLa nonna Lisetta, che in realtà si chiamava Angelica Elisa, per ricordare, nel nome alato, la sorella morta diciottenne di tubercolosi, aveva sposato a quasi quarant’anni il suo grande amore, un ufficiale di cavalleria di nome Giuseppe Luciano Secondo Feruglio e, per strano che possa sembrare, anche nel nome “Luciano” vibrava il ricordo del fratellino volato in cielo, che si chiamava Luciano Bernardino Antonio.
Gli sposi erano belli, ma i denari pochi. Il nonno che non ho mai conosciuto viveva a Udine con i genitori, Isidoro e Rosa, che, zoppina per la poliomielite giovanile, usciva di casa solo nel giorno di Sant’Anna, il ventisei luglio, per andare alla funzione e poi a mangiare le pastarelle.
Il loro unico figlio Luciano, diventato Primo, morì giovane, in un campo di prigionia in Germania, lasciando vedova mia nonna e orfana la mamma.
Nel grande casolare rosa di San Giuliano, caduto dalla tasca di un gigante nella vasta campagna del Friuli, dove viveva con sua madre, mia mamma sognava di evadere, di scampare da brume e nebbie. E quando arrivò a Roma, sposa spaesata e gonfia di nostalgia per ciò che non aveva amato mai, accarezzò il suo sogno, nell’appartamentino di Porta Metronia, dove visse con marito e i primi quattro figli. Finché, incinta di me, non lo realizzò nel progetto di via B.
Avvenne per caso: un incontro fortuito, ai giardinetti, con un’altra mamma, Carla C., piccola da metterla in tasca, ma dalla volontà di ferro, tutta occhiali e passione per la matematica, lei pure in volo deciso verso l’alto.
Le giovani signore fecero da traino ai mariti, lungo il sentiero alpestre dell’ascesa sociale.
I due sposi, entrambi di professione ingegneri, in comune non avevano nulla. Mio padre, idealista, progettava dighe e ammirava in tutti i musei del mondo le opere idrauliche di romani, sumeri e babilonesi, che faceva riprodurre nei suoi biglietti d’auguri natalizi. Claudio C., pragmatico, badava al concreto ed era manager di grandi società. In America aveva cenato a lume di candela con i divi di Hollywood, in Europa volava a Montecarlo, dove gli avevano riservato un appartamentino al quale lui rinunciò per comperare, con mio padre, il terreno ai piedi dell’Aventino che doveva custodire il sogno, in mattoni e calce, delle loro mogli.
La villa cambiò il destino di tutti, mescolando quello nostro e dei C. Noi cinque, con due gemelli, loro cinque punto e basta. E Livia, come me, la più piccola.
Zii diventarono per me l’ingegnere e sua moglie e zii i miei per i loro figli, nel chiasmo di una parentela inventata di sana pianta. Ma se mi chiedevano chi mi abitava sulla testa, non sapevo che cosa dire o rispondere e così balbettavo, mi mangiavo la lingua, facevo le fusa con le parole e al più tacevo. Non li chiamai mai “cugini”: non lo erano, anche se i cugini veri non erano così vicini.
I piani furono tirati a sorte, si dice, ma credo che fossero già decisi. Loro, in alto, con il cielo sul nimbo, noi in basso con le lucertole.
Il giardino era di tutti, anche se percorso da confini immaginari. Nostro il terrazzo di cotto rosso dove, in colorata armonia, erano seminate delle maioliche con disegno di margherita, loro quello di ciottoli bianchi, dove, più avanti, le radici dei pini avrebbero creato dei curiosi saliscendi. Nostro il giro di verde ombroso attorno ai piedi della casa, ricamato da alberi di aranci e di limoni, loro il boschetto dove, in un canto, trovai l’ingresso per Fairyland.
Di tutti erano il pratone e il praticello. Il primo cresciuto nel disordine selvaggio, proprio sotto il Bastione del Sangallo, germogliato in bianco marmo lungo le mura Ardeatine, dove si aggirava la pericolosissima “banda delle cicatrici”, nemica immaginaria e giurata dei gemelli. Il secondo ben rasato, sull’attenti e trasformato in campo di calcetto per infinite partite di pallone di Marco, che lì invitava amici e conoscenti al sabato sera ed erano colpi e strilli finché non scendeva la notte con il volo pazzo e radente dei pipistrelli.
Io conoscevo ogni angolo del giardino, sapevo, tra le erbe, trovare il tarassaco gentile che si fa incanto di pura aria e semi; sapevo dove si trovavano i limoni che salutavano il sole e gli aranci profumati di vita. Sapevo come si scalava l’ulivo e come allacciare le gambe intorno a un solido ramo e lasciar penzolare la testa nel vuoto e nella meraviglia, uno stordimento che era pura gioia.
Sì sapevo, sapevo, sapevo e potrei continuare, ma basta dondolarsi nel tempo. Andiamo avanti, avanti con il racconto, nel passo della vita.
Scendendo dall’ulivo, ora solo immaginato, mi trovo, già adulta, faccia a faccia con mio padre.
Mio padre, con un prestito dalla suocera, che l’aveva sempre ritenuto il rapitore di sua figlia, si mise all’opera in grande economia.
La casa fiorì, vestita di bianco e di grigio, in un angolo del Rione Miani, all’ombra del colle Aventino. Una gallina alla cova, e tutt’intorno, a ricamarla, il bel giardino fresco di fiori e d’erbe, tenuto in ombra da altissimi pini domestici che, nei mesi stabiliti, ci regalavano le loro pigne cariche di pinoli.
Vennero destinati due piani per famiglia, nell’ordine architettonico di quegli anni Sessanta, con piccole stanze da letto, una per mano all’altra, introdotte da un lungo corridoio, un gran salone di rappresentanza (strettamente riservato alle grandi occasioni, sicché poltrone e divani restavano avvolti da teli di cotone bianco, come veli da spose) e la stanza per la domestica che ebbe, anni dopo, per inquilina Eracini, mulatta di Capo Verde e con lei, ancora in pancia, arrivò anche Angela, la mia prima vera bambola.
I C., ben più in alto di noi, allora, sulla scala del benessere, invece, avevano “la coppia” e il pranzo servito in guanti bianchi.
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Cristina Celeste (proprietario verificato)
Ho vissuto questo crowdfunding un po’ come fosse il mio e stamante al risveglio ho letto questa bella notizia, quindi ora la libreria e il tanto successo che – già so – meriterà questo libro, ma da qui ad ottobre perché non sperare per i prossimi obiettivi? Uno alla volta? Quindi via al consigliarlo per arrivare al secondo che è di sole 50 copie! Buona primavera!!!
Cristina Celeste (proprietario verificato)
Mi hai fatta ridere, ma mi hai messo curiosità, eri registrata o no all’albergo?
In tutta verità devo dire che ieri sera non sono andata a letto triste, perché dopo aver scritto il commento, ho cercato in rete “Gervasia Rebibbia” ed ho scoperto l’esistenza (purtroppo anche la scomparsa) di questa magnifica donna, invito tutti i lettori che non la conoscono a cercarla.
Cristina Celeste (proprietario verificato)
Mi piace essere la prima, ma sembra che solo qui ci riesco… pensandoci bene non è vero, sono la prima ogni volta che scatta il rosso al semaforo quando tocca a me, sono la prima anche quando dal dottore è appena entrato il numero 15 ed io ho il 16, inutile continuare, sono la prima tante volte, inoltre sto completamente divagando, cosa c’entra questo con il libro o con l’aggiornamento odierno? Ah ecco sì, quello odierno è il primo aggiornamento e il mio il primo commento, sempre ammesso che non ci metto una giornata a scrivere.
Che posso dire del libro? Nulla ovviamente, non l’ho letto. Dell’ggiornamento? Sì forse qualcosa.
Da brava bimba viziata ho preso raramente la metropolitana, ma per me la fermata REBIBBIA è sempre stata, appunto, una fermata della metro, invece ora Benedetta mi fa pensare che è un luogo ben preciso. Un luogo triste e mi chiedo come mai lei abbia scelto per il primo aggiornamento di ROMAAMOR un posto triste, chissà se lo scoprirò durante questo strano viaggio.