Il grande uccello virerebbe poi in discesa disegnando ampie spirali ma mantenendo il lungo becco puntato al centro del prato, come ad indicare i fiori e le cose che spuntavano tra i fili d’erba. Questi oggetti sembravano una allegra congrega di esseri magici radunatasi in quel luogo per un qualche festeggiamento propiziatorio. La recinzione naturale delimitata dai grandi platani dava al Prato una forma ovale perfetta per il suo volo in planata perché le leggi dell’aria
non permettono raggi di virata costanti e per un uccello è molto più naturale volare un ellisse piuttosto che un cerchio perfetto, scendendo in volo radente sull’erba sfiorerebbe i fiori che farebbero ciao-ciao oscillando sui propri gambi.
Nel Prato Fiorito le stagioni non venivano applicate dalla natura e vi si potevano trovare tutte le specie floreali possibili. C’erano le spighe di grano dorate che si dividevano lo spazio con i papaveri rossi di Siviglia. C’erano le primule con le loro foglie carnose e i loro petali di tutti i colori. C’erano le stelle di Natale, la più spavalde nel mostrarsi al di fuori delle festività comandate. Ma la presenza di tutte le specie di fiori esistenti non era l’unica caratteristica magica di quel prato. Sparpagliati tra i ciuffi d’erba e le aiuole si potevano riconoscere oggetti che sarebbero stati bene in una casa di campagna. C’erano libri dalle copertine rigide con i titoli impressi a mano in foglia d’oro. Alcuni erano in piedi sulla costa, appoggiati spalla a spalla gli uni agli altri, come tanti soldatini in pausa tra una lettura e una battaglia. Vi erano poi delle scalette a tre o quattro gradini appoggiate qua e là in mezzo al prato. Erano di quelle che si aprono e che stanno in piedi da sole e avevano i gradini abbastanza alti da fare da sgabello. Erano dipinte a mano di un arancione vivace che faceva pensare subito all’estate, alle arance e alle spiagge. E i loro gradini erano perfetti anche come scaffali sui quali erano appoggiati alcuni gruppetti di libri forse radunati per argomento. Ma la carrellata degli oggetti apparentemente “fuori contesto” non era finita. Insieme ai libri di tutte le forme e colori spuntavano anche moltissimi dischi di bachelite e di vinile. Provenivano da epoche diverse e la loro età si poteva riconoscere dallo spessore dei dischi, dal loro peso e chiaramente dal tipo di copertine. Ma avrebbero avuto senso quei dischi di epoche varie senza un qualche strumento che ne permettesse l’ascolto? Certo che no! Infatti, a ben guardare tra le aiuole, oltre alle scalette si potevano scorgere anche alcuni strumenti ben noti: un grammofono, un mobile stereo in teak, un giradischi portatile di plastica, stupore, un cilindro fonografico, di quelli che registravano e permettevano di riascoltare il suono su dei cilindri di cera, gli antenati dei dischi in vinile. Alla luce del sole l’ottone dei coni diffusori del grammofono e del fonografo era di una bellezza abbagliante e non ci sarebbe stato da stupirsi se quelli fossero gli strumenti preferiti di chi abitava in quel posto.
Ma chi abitava quel prato circondato dai grandi platani dove regnava sempre la bella stagione? Di chi era la mano che aveva messo il vecchio disco di Claude Debussy? Perché era proprio il grammofono l’origine dello stormo di note che salivano verso il cielo. Il disco girava a 78 giri e insieme alla musica la puntina produceva il tipico sfrigolare della polvere nei solchi, un rumore di fondo così caldo e sincero che ricordava lo crepitio del fuoco nel camino, che rendeva l’ascolto più “caldo”. Il disco girava ipnoticamente, la sinfonia era giunta al suo crescendo finale. Le ultime note si stavano frangendo come onde sulle scogliere di una costa inglese o come l’onda di Hokusai. La mano del pianista stava suonando gli ultimi accordi e poi l’orchestra si fermò. Il disco continuò a girare a vuoto e la puntina saltava nell’ultimo solco in attesa che il motore del grammofono venisse fermato. Una mano bianca e morbida come quella di una bambina si fece avanti e con delicatezza sollevò la puntina fermando il disco. Si sentiva solo più il frusciare dell’aria tra i fiori e i fili d’erba. Il polso rilasciò la mano e il braccio esile ed elegante si abbassò lungo il fianco per poi piegarsi di nuovo e portare la mano alla fronte imperlata di sudore. Due goccioline di sudore dispettose continuarono a scorrere sulla fronte lanciandosi in discesa lungo il nasino aggraziato per poi staccarsi dalla sua punta come due sciatori nel salto dal trampolino. Istintivamente la ragazza soffiò per intercettarle e spingerle davanti a sé proprio come faceva da bambina: era un giochino che la divertiva molto. Si rialzò asciugandosi la fronte con il polso, fece un sospiro e sorrise guardando davanti a sé. Era un pomeriggio tiepido e lei adorava quella primavera infinita. Non ricordava più l’inverno; non avrebbe potuto neppure se qualcuno glielo avesse raccontato. Il Natale sì, quello lo ricordava, o meglio lo conosceva, perché per la Ragazza dei Fiori non si poteva parlare di ricordi. Lei non ne aveva e neppure ne sentiva la mancanza. Indossava una salopette di un tessuto di cotone color lavanda con delle sottilissime righe verticali bianche. La maglietta anch’essa di cotone giallo zafferano era di quel tessuto a costine tipico delle canottiere per bambini. Ma la Ragazza dei Fiori non era una bambina. Era una donna e aveva l’aspetto tipico dell’età che sta tra l’adolescenza e la maturità, ma nessuno avrebbe potuto indovinare il suo anno di nascita. Forse l’epoca sì, quella si poteva immaginare… Ma non era una creatura alla quale si potesse attribuire un’età terrena. Lei era diversa.
Era un’altra giornata perfetta; di quelle in cui i colori sono splendidi e la densità dell’aria è vellutata. I fiori circondavano la Ragazza dei Fiori ed oscillavano dolcemente. Lei rimaneva ferma, in piedi e fissava l’infinito. Era in quello stato di meditazione spontanea che capita quando il cervello si prende una pausa. Come un gatto seduto ritto sul bracciolo di una poltrona la ragazza sembrava fissare qualcosa davanti a sé, ma il suo sguardo non era destinato a nessun oggetto in particolare, anzi, li trapassava, da parte a parte, spingendosi verso l’orizzonte davanti a lei. Ma c’erano troppe cosa da fare. La Ragazza dei Fiori si rianimò scuotendo la testa per tornare al qui e ora. Musica: ci voleva della musica per rimettere in circolo l’energia e dare un ritmo ai gesti e alle tante cose da fare. Sapeva esattamente cosa ci volesse in quel momento: Mozart. Sì; il concerto per pianoforte N21, K467. Il secondo movimento le avrebbe dato la spinta giusta. Raccolse il disco, lo appoggiò sul piatto, girò la manovella caricando la molla del grammofono e abbassò la puntina nella spirale nera. Le note si sprigionarono e subito la ragazza si attivò saltellando di qua e di là. Sembrava una danza la sua, ma tra un passo e l’altro si dava da fare e faceva molte cose. Innaffiava le piante, zappettava la terra togliendo le erbacce. Sembrava un’ape operaia in preda alla frenesia dell’impollinazione. Soddisfatta del lavoro svolto finalmente si fermò guardandosi intorno. Si asciugò la fronte e raccolse una margherita e se la mise tra i capelli. Era bella come una mattinata d’estate. Dalla sua pelle si diffondeva la sua luce che faceva a gara con quella del Sole. Era una donna o una Dea? Nell’Antica Grecia le chiamavano “muse”, le divinità dei boschi, dei torrenti, dei canneti. Le figlie della Madre Terra, concupite dai satiri e adorate dai poeti. Esistono ancora le muse? E perché? Domande che avrebbero avuto un senso nel mondo moderno dell’uomo, ma che non avevano nessun significato in quel luogo. Il Prato è la fertilità, il terreno da cui nasce la bellezza, il giaciglio degli amori estivi, la fabbrica delle api, la casa degli insetti. Il Prato è la Vita. E la Ragazza dei Fiori ne era la sua custode. Era stanca, tirò il fiato soddisfatta e si sedette su una delle scalette arancioni sulle quali erano riposti con cura i suoi libri preferiti. Le scalette raccoglievano i testi per genere e lei si era seduta sui romanzi di avventura. Riconobbe subito una coppia inseparabile: Le avventure di Tom Sawyer e Le avventure di Huckleberry Finn. Allungò la mano verso il libro di Huckleberry: era una versione originale che riportava fedelmente il gergo fluviale che parlava la gente del Mississippi. Quel linguaggio sboccato la faceva ridere ed era molto apprezzato anche dai fiori di giacinto che si ringalluzzivano tutti quando la Ragazza dei Fiori leggeva le storie a voce alta. Lei leggeva sempre alle piante e ai fiori brani tratti dai molti libri a sua disposizione. Nulla di strano sembrerebbe: è risaputo che le piante amano la compagnia e la voce umana e la musica. Ma in quel luogo la lettura delle avventure di Tom e Huckleberry, dei Tre Moschettieri di Dumas, dell’Isola del Tesoro di Stevenson erano parte integrante dell’energia magica del Prato. Quel luogo era un microcosmo completamente autonomo; come capita spesso in natura tutti gli elementi si sostenevano reciprocamente con uno scambio di energia sotto forma di poesia. I fiori ispiravano la ragazza che sceglieva a sua volta le letture o la musica con le quali nutriva la vegetazione, proprio come l’acqua e i suoi sali minerali. E il Prato alimentava i grandi platani che lo proteggevano. Tutto era in armonia. Tutto era equilibrio. Ma se qualcuno avesse chiesto alla Ragazza dei Fiori quale fosse lo scopo di quel luogo lei non avrebbe risposto. Non lo sapeva, o se lo sapeva non lo sapeva spiegare. Come non aveva idea di quanto tempo avesse già passato nel Prato… Ci era arrivata? O vi era nata? Era stata bambina? Aveva avuto dei genitori, degli amici, un amore, dei figli? Queste domande non le appartenevano. Per quanto la sua intelligenza fosse quella di una dea la sua mente non si poneva queste domande; non le interessava sapere nulla del suo passato perché non ne conosceva l’esistenza. Lei era lì, nel presente di quella dimensione spazio-temporale. I cicli biologici degli umani non la riguardavano: sonno, veglia, fretta, indolenza, frenesia, resistenza non le appartenevano. Erano cose da umani. Aveva accesso esclusivamente ai sentimenti e poteva ricordare solo quello che riguardava il suo compito di musa, con tutto quello che comportava. Ricordava anche i pellegrini che erano passati da quel luogo. Sì, quel posto era accessibile dagli esseri umani, ma solo a chi aveva iniziato una ricerca di e in sé stesso. Aveva accolto uomini e donne dalla provenienza più disparata. In genere i “richiedenti” (così venivano chiamati dai custodi di quella dimensione) affrontavano il loro “transito nel bello” in età matura, quando la vita terrena aveva inferto loro molti colpi e avevano molte ferite da accettare. La Ragazza dei Fiori accoglieva tutti con un sorriso, senza scavare nel loro passato e nelle loro vite. Le sarebbe piaciuto che almeno uno di loro si fosse fermato lì con lei nel Prato. Desiderava molto trovare un assistente, c’era così tanto da fare. Sognava una persona che condividesse con lei la passione per la musica classica di Erik Satie, Claude Debussy, J.S.Bach, Vivaldi, Pergolesi, ma anche per il jazz di Chet Baker, Miles Davis, Count Basie. Aveva aiutato i pellegrini a capire cosa stesse succedendo loro e a volte passano dal Prato anche più di una volta nel corso del loro pellegrinaggio. Ma nessuno si era mai fermato. Non potevano. I loro psicopompi non lo permettevano. Già, gli psicopompi… Erano sempre dei personaggi sopra le righe, ma era normale dato il lavoro che facevano. La ragazza non sapeva neppure perché si chiamassero così; aveva letto di loro nella mitologia. Sapeva di Ermes, di Orfeo, di Osiride, di Virgilio e di Caronte… Ma gli psicopompi che transitavano dal prato erano molto meno seriosi di quelle antiche figure mitologiche. Da lì passano personaggi più simili a moderni clown che ricordavano gli attori comici dei primi film muti come Buster Keaton, Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio. Erano tutti simpatici, decisamente eccentrici e ognuno di loro aveva un oggetto magico che usava come mezzo di locomozione tra una dimensione e l’altra. La Ragazza dei Fiori era sempre felice di riceverli nel suo Prato. La divertivano, spesso l’aiutavano e poi avevano sempre una buona parola per lei. C’erano il Cavaliere sul Pony, il Postino in Bicicletta, il Facchino con la Cariola e poi il suo preferito: L’Uomo con l’Ombrello. Avevano vestiti buffi e colorati e usavano tutti un linguaggio ampolloso ma divertente. Erano il suo unico contatto con le altre dimensioni, a parte i richiedenti stessi. Gli psicopompi li guidavano tra una dimensione e l’altra, ma questi erano sempre così spaventati e a volte anche di cattivo umore. Alla Ragazza dei Fiori facevano tenerezza. Li capiva. Sapeva che il loro smarrimento era del tutto normale e che tutto sarebbe cambiato per loro. Per cui era paziente con loro come una maestra. E poi gli psicopompi erano sempre bravissimi a sdrammatizzare la situazione e lei rideva e si divertiva. Era sempre felice quando queste improbabili coppie si manifestavano nel Prato, perché finalmente aveva degli esseri senzienti con cui parlare, per quanto bizzarri o scontrosi fossero. E poi in fondo lei sapeva benissimo che dietro quei personaggi pittoreschi si celavano le storie di esseri umani che ne avevano viste tante nella loro vita terrena. Ricordava che in qualche esistenza passata qualcuno le aveva insegnato che quello che le persone mostravano è solo la buccia di un frutto fatto di tanti spicchi, alcuni dolci e altri molto amari. La Ragazza dei Fiori non si trovava lì per giudicare nessuno, neanche sé stessa. Aveva altri compiti molto più preziosi.
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