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«Quello che non ho capito io» fa Derno con una buona carica di curiosità e aspettativa «è di cosa stiamo parlando.»
«Perfetto, grazie Derno!» si rinfranca Ge. «Questa è la domanda che sempre bisogna farsi quando si parla: qual è la qualità e lo spessore del contenuto del nostro discorso? Nello specifico io direi, se Mo permette, che il lettore medio è sveglio ma allo stesso tempo non sempre interessato a coinvolgere la totalità delle sue facoltà mentali nella lettura di un libro.»
Mo spinge il suo «E quindi?!» sul vertice dell’onda di soddisfatto entusiasmo che è sul punto di pervaderla.
«Quindi gli stimoli che sono da proporre vanno dosati adeguatamente, per stuzzicare una mente laboriosa che spesso è arrivata al termine di una estenuante giornata lavorativa, ma allo stesso tempo per stare al passo delle aspettative dei giovani, esordienti, idealisti, appassionati, spiriti creativi di cui la nostra epoca pullula e risplende!» decanta Ge trascinata dalla passione.
«Quindi stiamo scrivendo un libro» dice Mito.
«Fantastico, ci siamo!» esulta Ge.
«E di che parliamo?» Pupille e narici di Derno sono in dilatazione.
«Dell’unica cosa di cui possiamo parlare con certezza,» prosegue Ge «ché certo non vogliamo diffondere notizie menzognere avventurandoci in campi che il nostro studio acerbo percepisce come troppo fangosi.»
«Parliamo di noi, di quello che facciamo e che pensiamo, ma soprattutto di quello che sentiamo, e di come questo ci stia insegnando a crescere e a vivere» propone Mo.
«Francamente, un tantino pretenzioso» si acciglia Mito.
«E qui sta il punto, invece!» esclama nuovamente Ge. «Non lo è! Non è pretenzioso, perché noi stiamo esplicitamente dichiarando il nostro intento. Stiamo sviscerando, anticipatamente, la struttura e l’impostazione, implicitamente forse anche il tono, che avrà questo viaggio metaforico alla scoperta delle nostre pulsioni, emozioni e paure più recondite.»
«Vedi, accidenti!» Mo si adira: «Stai di nuovo naufragando nella tua spocchiosa saputellaggine».
«Non ho capito una cosa sul tono,» si fa largo Derno «le parolacce le diciamo?»
«No che non le diciamo, e non parliamo sgrammaticato, rispetteremo minuziosamente le regole della sintassi e della grammatica italiana, con qualche tocco di licenza poetica, perché quello che stiamo scrivendo è un romanzo di formazione.» Ge chiude la questione, senza possibilità di appello.
«E perché parliamo di noi, sentiamo? Delle nostre vite scalze, che ogni passo gli fa male?» Mito azzarda una licenza poetica. «Le licenze poetiche ci servono per dare un po’ di ritmo a questa narrazione, la voglio più poesia che tema scolastico. E un romanzo di formazione nasce sulla scorta di esperimenti di vita dell’autore che possano essere proficuamente trasferiti in forma di insegnamenti al pubblico. Qui noi siamo gli autori ed è la nostra esperienza a parlare. E la nostra esperienza parla con un suo personalissimo linguaggio, che va a briglie sciolte e che non si può incatenare: è la licenza poetica a giustificarlo.»
«Ebbene, parliamo di noi, che incarniamo quelle voglie dissociate che si impastano a formare la figura di tutte le persone» risponde Mo, sognante. «Parliamo di noi per dimostrare che quello che è successo fino a oggi, che quello che siamo stati e in potenza quello che diventeremo è servito.»
«A cosa scusa?» la domanda scettica accompagna l’alzata di sopracciglia di Derno.
«A scrivere un libro» fa Ge convinta.
«Cosa resta da dire?» si chiede Mo, e subito si risponde «Che potremmo scrivere un testo che si snodi in sequenze rapide di scene cangianti.»
«Ge, Mito, Mo e Derno si avvicineranno e si allontaneranno a condividere scorci di vita momentanei. Convivenze momentanee, parziali ma pregne, che del cambiamento e della diversità faranno occasioni di apprendimento» approva Ge.
«Il cambio di scena sarà ex abrupto da un capitolo con l’altro, le contestualizzazioni abbozzate, perché il focus sarà sulla progressione interiore» prosegue l’analisi Mito.
«Ge e Mito parleranno insieme di disagi e bellezze tra figlia e padre, Mo e Derno tra fratello e sorella» chiude il prologo Derno.
Mo: introduzione
La prima cosa che ho visto stamattina quando mi sono alzata è stata una forma bianca e intonsa, e ho avvertito un odore acre di banchi di scuola in un tempo diverso. Mi sono sentita addosso la pelle d’oca e in faccia quelle pupille dilatate di chi sta provando una forte emozione. E ho capito che dovevo, volevo scrivere qualcosa sull’importanza delle sensazioni. Avrei detto “cose semplici” ma sarebbe risultato decisamente inflazionato. Le avrei anche definite “emozioni”, ma sarebbe sembrato impropriamente romantico. Inquinato da semplicistico sapore di scadente romanzetto rosa.
E allora ho preferito il termine “sensazioni”, perché voglio dire di tutti quei contatti che il mondo esterno ha con i nostri cinque sensi e che, per rocambolesche vie ormonali, ci procurano qualcosa che ci scuote. Che a volte galleggia poco sotto la superficie impalpabile della felicità.
Voglio parlare di queste vibrazioni fisiche di corde emotive, perché credo sia bello capirne la fonte e la foce. La fonte, perché nascono da una precisa concentrazione nel vivere; la foce, perché muoiono in oceani di piacere.
Parafrasando queste accozzaglie ermetiche: penso che le sensazioni nascano da una lentezza, un’apertura e un’attenzione nei confronti di ogni gesto compiuto; e poi penso che il risultato di queste sensazioni possa portare a una felicità che lacrima dagli occhi.
Penso che sappia vivere davvero solo chi si allena a vivere con lentezza, ad affondare i denti con parsimonia e riconoscenza nella fetta di tempo che ci è concessa, gustandone ogni microatomo zuccheroso; passando la lingua, lenta, sulle labbra tagliate dal freddo bello del mondo. Il freddo di chi vede la vita a montagne da scalare. Di chi aspira ogni giorno a sentirsi quel vento di vittoria che ferisce le guance, ma lenisce i dolori dell’anima.
A volte vado in giro e penso che ogni giorno sia bello in sé. Altre volte mi servono situazioni epiche, nucleari, vertiginose, per provare emozioni. Ma forse in fondo è la stessa cosa, e la vertigine si può trovare anche al contrario, nella profondità infinita del pozzo indecifrabile che c’è in tutto. Si è detto, appunto, che c’è da “vivere con lentezza” e lavorare con altrettanta lentezza su queste cucchiaiate di mondo che ci spalano addosso, che a volte soffocano e a volte lasciano insoddisfatti. Bisogna calibrare l’impegno dello “stare” e del “fare”. Bisogna dedicare a ogni storia il giusto grado di attenzione, impegno ed emozione.
Ge: introduzione
Quando Mo è stata folgorata da questa sorta di illuminazione messianica, abbiamo tutti pensato che ci fosse da ricavarne qualcosa. Per lei e forse per noi, per una vocazione alla restituzione di quanto esperito fino ad allora, o forse per una più bieca di sfogo.
Si è pensato di tradurre questo lessico dadaista, fortemente improntato alla distruzione stessa del linguaggio o perlomeno della disposizione generosa all’ascolto da parte dei più, in qualcosa di masticabile per la comunità media di potenziali utenti.
Forse, poi, ci siamo lasciati intenerire. Complice un po’ il fatto che ogni uomo è un’isola, nel senso che è incredibilmente difficile star dietro alle pazzie di tutti (a riprova del fatto che ogni metafora ha un valore vero e pregnante a seconda di chi la rigira) e che prima di arrivare alla riva si affonda, abbiamo maturato l’insana consapevolezza che è giusto, alla fine, dare spazio anche alle nostre pulsioni più surrealiste.
Questo, concretamente e tecnicamente, si traduce in un libero sfogo, sia contenutistico sia stilistico, di tutte le rette e devianti, infime ed eroiche propaggini della nostra mente sconsiderata.
In altre parole abbiamo pensato di trattare in un libercolo i drammi e le crisi adolescenziali o di mezza età di un popolo sconsiderato, facendo leva su quei timori e quelle gioie che sentivamo pizzicare le nostre corde emotive.
Si dà spazio a ognuno perché varia è l’umanità, e speriamo con questo approccio di parlare un poco a tutti, o almeno a una fetta di ciascuno. Per tutte le volte che ci siamo lasciati un segno rosso in fronte con la piastra per capelli, o per quando ci siamo sporcate i denti di rossetto, per quelle volte che inciampiamo nel gatto e che ci rimane la maglietta impigliata nella maniglia, abbiamo pensato che parlare a tutti fosse una buona chiave di successo.
Mito: introduzione
La veste grafica che si è ipotizzata per questa fatica è quanto mai anomala. Sciogliamo subito l’arcano perché siamo convinti che un libro debba avere ben chiare in sé le chiavi di lettura, onde evitare voli pindarici e salti avvitati e strozzati su se stessi di acculturati e fantasiosi lettori. Fuori dai denti: quello che è, è questo, né più né meno, ma saremo incredibilmente riconoscenti a tutti coloro che vorranno ampliare questa esperienza con il loro personale essere e sentire.
Riduce notevolmente lo sforzo di comprensione il partire nella lettura già chiavi in mano, ma ricordiamo che nelle sceneggiature teatrali sono ben indicati i personaggi e il riassunto della vicenda all’esordio di ogni atto, e Shakespeare noi ancora lo leggiamo, non andiamo solo a teatro. Al di là di queste deviate e devianti considerazioni, la mia personale esperienza vuole che la conoscenza della struttura, delle intenzioni, delle motivazioni che sorreggono le diverse scelte di noi autori, o artisti, come preferite chiamarci, incuriosisca e coinvolga maggiormente nella lettura, incoraggiando a smascherare quelle intenzioni dietro le diverse scelte narrative, o grafiche appunto.
Sul piano narrativo vorremmo articolare la storia metaforica, la parabola assolutamente non biblica che ci accingiamo a raccontare, come crocevia di quattro diverse esperienze di vita. Parafrasando, abbiamo impastato un complesso di sentimenti e pulsioni che riteniamo potenzialmente conviventi, a creare quattro figure immaginarie, le nostre. Ge, Mito, Mo, Derno, il GeMito MoDerno della nostra gioventù bruciata che certo riuscirà a tornare da questa brutta deriva.
I quattro personaggi si incontrano e si scontrano, e toccandosi crescono grazie all’interazione che dalla diversità crea ricchezza. Il nostro atteggiamento non è decostruttivo, ma attento, a tratti sarcastico, e forse ancora, in fondo, ci crede e si impegna. La fine non l’abbiamo ancora decisa, questo è chiaro, abbiamo occupato troppo tempo a decidere di tutto il resto. E poi non si spoilerano i “the end”. E ancora, tra l’altro, un romanzo di formazione non finisce mai, e gli esami nella vita neanche, come diceva qualche brutto titolo della prova di maturità.
Tornando alla veste grafica, rivelerà delle sorprese. Basta non essere mentalmente tappati però, altrimenti le nostre sperimentazioni futuriste si scaricano subito.
Qualche tempo fa, a Parigi, durante un corso, l’insegnante ci ha mostrato un libro in cui le pagine non erano tutte piene di parole, ma a tratti esponevano anche degli spazi. Così mi piace ricordarla, Parigi. Incredibilmente, instancabilmente sperimentale. Insomma c’era questo libro che liberava degli spazi al suo interno e cominciava con pagine vuote e poi progressivamente ci faceva camminare sopra lettere come formichine, che silenziosamente, ma con costanza e dedizione, costruivano un impero. Non mi ricordo se cominciasse o finisse con una pagina bianca ma questa anarchia nei confronti della formattazione del libro mi aveva incredibilmente affascinato. È un peccato che non portino i fuorilegge nelle nostre aule scolastiche, ne uscirebbero persone più interessanti, più avventurose, meno morte dentro. Comunque, quale che fosse la ragione per cui in questo libro si aprivano spazi di bianche potenzialità, certamente noi abbiamo ben chiaro perché questi “vizi di forma” abbelliranno anche la nostra narrazione. Lo svelo, perché le cose sono incredibilmente più brillanti quando sono comprensibili. Quando si parla di cinema impegnato spesso si chiama in gioco l’intervallo, lo spazio vuoto tra due movimenti, quel gap tra le inquadrature in cui si può installare uno sguardo consapevole. In altre parole: la percezione del tempo che passa e dello spazio che scorre può vivificare questo tempo e questo spazio, può renderlo pieno e pregno, può rendere noi spettatori infinitamente più consapevoli di quel gesto, fatto per rielaborare una realtà da cui può discendere un insegnamento vero, importante anche per noi. Tutti i mezzi che l’uomo usa per mediare la realtà sono strumenti attraverso cui questa viene risignificata. Una fotografia, una ripresa cinematografica, di fatto, aggiungono al reale il cuore, la mente e la morale di colui che le ha realizzate. E se attraverso queste riprese compare l’uomo, e si riesce a distanziare dalla realtà la finzione comprendendo la sua natura di insegnamento, allora il percorso può istruire anche il fruitore. Gli spettatori, i lettori che diventino consapevoli non solo del percorso della narrazione, ma anche del perché essa assuma quella specifica forma, del perché siano utilizzati determinati accorgimenti piuttosto che altri, arricchiscono felicemente la propria esperienza di vita. Esperienza che comprende in quale misura la vita, quella vera, deborda a monte e a valle della narrazione; in che modo, quando lo spettacolo finisce, lo show, in un certo senso, must go on nel mondo effettivo, quello che chiama a un nostro impegno reale. È stato un attraversamento, diceva Dario Cecchi del cinema di Kiarostami, e si spera che sarà significativo.
Derno: introduzione
Credo che Ge volesse dire questo con “metanarrativo”: una storia che parla di come si fa una storia. E s’è capito il perché.
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