La ragazza, più grande d’età di lui ma non troppo, arrivata ormai in corrispondenza della sua fila, cercò di catturare la sua attenzione: «Siamo quasi arrivati, desidera uno snack? Ne abbiamo sia di dolci che di salati.»
«No, grazie.» Fu la laconica risposta. Non aveva voglia di alcuno spuntino.
Non ne aveva voglia, ma era stata proprio quella frase a farlo desistere: «Dolce o salato?»
Quelle parole, il loro significato, che non poteva essere definito se non per mezzo di due sensazioni precise, gli facevano pensare a ciò da cui stava scappando. Sì, perché la vita era o dolce o salata. E a lui, era toccato il salato, che ora percepiva sulla lingua asciutta, e nel cuore dal sangue grigio.
Dopo che la ragazza dallo sguardo allegro se n’era andata, puntando ai passeggeri successivi, il ragazzo voltò nuovamente la testa verso il finestrino dell’aereo. In un primo momento, le nuvole che danzavano nel cielo catturarono le sue pupille, ma queste dopo pochissimo, ritornarono a dare forma alle immagini che volevano loro, andandole a ripescare nella mente, in meandri oscuri, non tanto lontani…
La Milano notturna di qualche sera prima tornò e si sostituì alle immagini del finestrino fatte di azzurro e bianco, tinteggiando con tonalità diverse, ma sempre scure, il nero delle sue palpebre serrate. Il buio della metropoli, lo rammentava bene, era spezzato da qualche luce qua e là per poter far perdere i suoi occhi nel vuoto. Una sorta di adorno, tutt’altro che triste, per quella città ora muta.
Si trovava seduto, in silenzio, sui gradini di qualche edificio non meglio identificato, ad ammirare la città con una bottiglia di birra in mano, già consumata a metà, che era la temporanea risposta ad un malessere interno. Forse l’alcool l’avrebbe affogato, forse se avesse bevuto abbastanza quel dolore sarebbe morto. Era possibile, ma non prima che fosse morto anche lui, ucciso da quella stessa bevanda che stava consumando.
Ma Michele non era stupido. La barba, un po’ trasandata, gli dava un aspetto maturo, ma maturi erano pure i suoi pensieri.
Ciò che stava bevendo era solo un piccolo aiuto per un momento di distacco dai problemi della sua vita di tutti giorni, che si erano appostati lì, dietro l’angolo, pronto a ghermirlo non appena fosse tornato indietro a casa, e, quindi, alla vita di tutti i giorni. Ma sintanto che rimanevano là nascosti, al momento, andava bene, almeno poteva respirare un po’.
Le sue mani reggevano senza troppa forza il cellulare. Lo schermo emanava una luce verde e le sue dita disegnavano forme specifiche su di esso: avevano impostato il blocco del registratore vocale, in maniera da inoltrare l’audio tramite WhatsApp a Ludovica, una sua amica di Palermo, conosciuta ai tempi di quell’università abbandonata dopo un solo anno.
«Sai…», disse ad un certo punto, «…Ho in mente una nuova canzone, o perlomeno una parte, insomma…»
Prese la sua chitarra. Il contatto con le corde dure gli era molto famigliare e non c’era sensazione più soffice per lui.
«Te la faccio sentire.» Non sapeva esattamente che ore fossero, ma era sempre l’ora adatta per la musica. Almeno per lui. Ma forse non aveva comunque torto.
Si mise quindi a strimpellare e le note uscirono fuori, invisibili ma presenti, e sarebbero andati a toccare qualcos’altro di invisibile ma presente: l’anima.
L’intro pareva infinita, in un ritmo oscillante di suoni, finché non arrivò il momento della parte vera e propria. Tuttavia si dovette fermare lì, con la bocca aperta, senza aver fatto vibrare minimamente le sue corde vocali: qualcuno, dall’alto di qualche palazzo, gli aveva detto di tacere.
«Ah, mi spiace… Sarà per un’altra volta, sembra.»
Ripose quindi la sua chitarra nella custodia, come una bacchetta magica o qualcosa di simile che viene riposta nella sua scatola, eliminando l’audio indirizzato all’amica siciliana e terminando quella magia.
(Scannerizza il QR Code per ascoltare l’audio indirizzato a Ludovica)
Si alzò dunque in piedi, si sistemò i jeans, si caricò la chitarra sulle spalle, prese fra le dita la bottiglia mezza piena, anzi, mezza vuota, e se ne andò.
Dietro di lui non c’era nessuno.
Nella fredda notte, non era il vento umido a raffreddargli le ossa, bensì quei suoi pensieri, gelidi come il ghiaccio, ma che non si scioglievano.
Continuò a camminare fra i rumori saltuari che sbucavano fuori di tanto in tanto. Dal fruscio di qualche foglia di qualche albero, al grido di qualche adolescente scemo che si era ubriacato, ad un’auto solitaria che gridava come se la strada fosse solo sua a quell’ora. L’aria gelida congelava le poche ombre che riuscivano ad apparire, bloccandole là dove si trovavano.
Dentro il ragazzo due emozioni distinte si presentavano al cospetto della sua anima, la quale diede udienza a tutte e due: da una parte il sapere di dover tornare a casa, dall’altra la voglia di non tornarci. Ammesso che quella fosse davvero casa sua. In fondo, casa è dove si sta bene, no? E là, dove tendenzialmente dormiva ogni notte (o avrebbe dovuto dormire), dove era registrato il suo domicilio, non stava bene. Decise dunque di incamminarsi verso quella che era la sua dimora, ma facendo un giro più lungo, prendendo tempo ad ogni passo, sfuggendo alle vie dritte principali per rifugiarsi nelle viuzze e nelle stradine almeno un po’ tortuose, che gli ricordavano il percorso della sua vita. Camminare e camminare ancora, non in cerca di un obiettivo, ma trascinato da altri o da altro.
Vagava seguendo la scia dei lampioni, inciampando nelle buche dei marciapiedi del capoluogo lombardo e imprecando ogni qual volta esse lo facevano scivolare a terra.
Quell’immagine era la metafora della sua vita: un percorso caratterizzato da brusche cadute.
Era stato deluso da tutto, ma soprattutto da tutti: famiglia, amici, amori.
Forse lui era in effetti un vagabondo, non tanto concretamente quanto spiritualmente. Un vagante, oppure un marinaio incapace di usare il timone, trasportato dal mare della sua incostanza emotiva. E un marinaio che non sa navigare è solo uno scemo che si fa trascinare dove decide la nave. La differenza era che un individuo può scegliere se salire o meno sull’imbarcazione, anche se non sa governarla, lui, invece, su quella nave c’era semplicemente perché era nato e non aveva quindi avuto opzioni.
Sì, perché quella era la maledetta, anzi, la Maledetta, come la chiamava lui. Quella dannata malattia, invisibile se non vista con altri occhi. Inascoltata e che non permette di ascoltare nient’altro se non la propria triste voce: la depressione.
La depressione, che, nel suo caso, pareva essere “familiare”, come se fosse ereditaria. Che cazzo di eredità è mai un fardello del genere? Perché non poteva essere denaro o una villa di un lontano parente defunto? Invece era un peso ricevuto sin da quando era ancora un feto da un parente molto prossimo. Non aveva chiesto lui di far parte di questo mondo di merda, e ora doveva farlo partendo pure svantaggiato? Con una schifosa malattia che faceva proprio parte di lui?
E con un’eredità del genere, in fondo, neanche una compensazione in monete d’oro o la villa di un qualche lontano familiare morto, immaginata poc’anzi, avrebbero potuto aiutarlo.
Forse, comunque, anche senza la Maledetta dentro di sé, Michele non avrebbe trovato soddisfazione nel ricevere qualche appartamento di lusso, non essendo un tipo così superficiale. Anzi, si ritrovava spesso a fare (e a farsi) battute ciniche e sarcastiche come ultima arma, l’extrema ratio, per poter almeno ridere un po’ di tanto in tanto della sua sfiga. Come ridere in faccia al tuo nemico, l’unica cosa che puoi fare quando non hai vie di scampo. E, d’altro canto, l’ironia cinica è spesso l’ultimo rifugio di chi soffre ma, allo stesso tempo, ha una mente profonda.
E mentre seminava questi pensieri lungo il suo percorso, come semi sterili da cui nessun fiore sarebbe mai sbocciato, la strada, alla fine, venne consumata. L’oscurità aveva inghiottito quello che si era lasciato dietro, il tempo aveva inghiottito la sua lunghezza ed ora era ritornato di fronte casa. La bottiglia, sua compagna da poco ma non per questo non importante, era stata svuotata, e il suo contenuto aveva riempito lo stomaco del ragazzo. Ciò, però, non voleva dire che lui ora non si sentisse svuotato proprio come quel contenitore di vetro. Vi ci guardò un attimo attraverso, proprio perché percepì sé stesso in quell’immagine, ma, nonostante il materiale trasparente, la luce era troppo poca per poter scorgere qualcosa da cui prendere ispirazione. E forse era proprio quella l’immagine che gli serviva. Il nulla, il niente della bottiglia vuota cominciarono a far emergere in lui un pensiero. Una volta privato del suo contenuto, quell’imballaggio rimaneva un oggetto senza più uno scopo, un senso, e il liquido che Michele aveva ingerito l’aveva fatto stare meglio, ma solo per poco, giusto il tempo in cui se lo stava godendo.
La depressione annaspava contro il continuo scendere per la gola della birra, facendola faticare come un uomo che cerca di tornare in superficie dopo essersi buttato in un mare in tempesta con le onde anomale. Ma una volta finita quella cascata di alcool, la Maledetta tornava a galla senza problemi. E certo non poteva distruggere il suo corpo continuando a bere, perché non avrebbe avuto senso.
Buttò quindi la bottiglia nel cestino stracolmo sotto un lampione guasto, poco lontano dal portone di casa sua, senza salutarla, senza dire una parola. Ne aveva fin troppe dentro la sua testa, però nessuna di esse voleva uscirne.
Tirò fuori le chiavi di casa e il fatto che riuscisse a tenerle salde e a riconoscerle una ad una, era positivo. Aprì dunque la porta, venendo risucchiato da una oscurità diversa da quella che circolava fuori. Un’oscurità nera come pece, come le profondità marine… come i suoi sentimenti.
Camera sua era come al solito in ordine e in disordine, con ogni cosa sparsa qua e là in un preciso posto. Vari poster abbellivano la stanza, o perlomeno erano le toppe a buchi emotivi che quel luogo grigio gli provocava. Come un fiore colorato in mezzo ad un cinereo campo di battaglia, dove, però, lo scontro continuava.
I suoi genitori dormivano già da tempo, probabilmente. In ogni caso si erano coricati da un pezzo, e lui cercò quindi di fare meno rumore possibile, ma i suoi pensieri facevano troppo chiasso per poter dormire.
Disteso sul letto, a fissare il vuoto, ancora vestito, erano sempre le stesse sensazioni che tornavano, come una pallina legata con una corda elastica ad una racchetta. Lui la colpiva, colpiva quegli oscuri ragionamenti il più lontano possibile, ma essi tornavano indietro ancora e ancora. Oscillavano, si dimenavano, rotolavano, ma non si staccavano mai. Era la Maledetta a generarli, chissà se afflitta nell’essere lì o contenta per il male che gli stava causando.
Ad ogni modo, aveva bisogno di una pausa. Continuare a contrastarla significava avere una grande forza d’animo, ma anche un’eterna stanchezza addosso e, se la passeggiata non lo aveva fatto svagare a sufficienza, aveva bisogno di qualcos’altro ancora, per far distrarre un po’ la sua mente. I suoi pensieri gli avrebbero ucciso il sonno, ma non la fatica di quel peso.
Supino sul materasso, con le mani dietro la nuca, non v’era molto che potesse fare: riprendere in mano la chitarra e suonare no, non era una cosa da fare a quell’ora, né era bene pensare al testo o a scrivere le note della sua canzone, perché c’era bisogno che venisse sentita, ascoltata, per poter avere un senso. Non bisognava infatti sottovalutare l’importanza che aveva la musica per Michele. Non poteva essere trattata con così tanta banalità, con così tanta superficialità. Era ciò che lo aveva salvato, il più delle volte. Era stata diverse cose: dalla mano che ti afferra prima di precipitare nel burrone, dallo scudo e spada per scacciare la maledetta, quando non un caldo abbraccio gentile che lo difendesse da quest’ultima. Era stata un’amica su cui piangere, a cui raccontare il dolore, una terapeuta, un’amante con cui fare l’amore più bello e delicato, quello con l’anima. Era stata la pacca sulla spalla che aveva bisogno nei momenti felici e nei momenti tristi, la stella luminosa nel buio della vita, il profumo che gli salvava le narici dalla puzza di merda del marcio della sua anima. Ma soprattutto, era l’unica cosa che non lo aveva abbandonato. Mai. Se avesse smesso un giorno di suonare, cosa che non sarebbe successa neanche in diecimila fottuti anni, sarebbe stato lui a lasciare la musica, non viceversa, e questo faceva comprendere come mai ne fosse così tanto legato. Non era un bambino, un ragazzo, un adulto o un vecchio che ascoltava la canzoncina e si sentiva soddisfatto così, e che quindi sarebbe poi tornato alle sue faccende. No. Le corde della chitarra erano troppo legate a quelle del suo cuore, infatti se avesse allontanato lo strumento da sé questo si sarebbe portato via tutto il muscolo cardiaco e probabilmente Michele sarebbe morto.
Si alzò dunque dal letto, in cerca di ispirazione, ma non musicale, al momento. Sulla sua scrivania vi si trovavano vari oggetti, vari fogli, e varia altra roba. Magari lì ci sarebbe stato qualcosa.
Si mise a frugare quindi fra quello che c’era, cercando di non far rumore. È inutile fare descrizioni perché tutto era scuro, e non si vedeva nulla da cui ricavare informazioni e dettagli. In ogni caso, sotto le sue dita, sentì alcuni pezzi di carta, il computer portatile e gli adesivi ad esso attaccati, il portamatite e la matita con la quale si punse, qualche plettro e, infine, la fredda cornice di una piccola fotografia. Fu in quel momento che si fermò un attimo. La prese con mano incerta. La delicatezza con cui la stringeva non era sinonimo di dolcezza, ma di insicurezza. La avvicinò al volto dove la flebile luce della luna riusciva ancora ad arrivare.
Osservò i volti ritratti.
Erano volti sorridenti, di un altro tempo che rimpiangeva. Allora era tutto molto più ingenuo, più semplice, più superficiale e spensierato. Ma quei momenti erano passati e alcune cose erano cambiate. Ciò significava che altre erano state distrutte, uccise, fatte scomparire per far posto a nuove. Nuove non necessariamente positive, ovviamente. E se gli umani sono esseri complessi, che difficilmente provano un solo sentimento per volta (e già quelli sono complicati), il giovane chitarrista dentro di sé ne aveva molti: nostalgia, lietezza, dolore, rifiuto, stanchezza. E nel momento in cui le sensazioni negative superarono quelle positive, il ragazzo rimise a posto la fotografia. Tuttavia, forse per la fretta di volerla mettere via, forse perché nel momento in cui toccò la superficie della scrivania egli distolse lo sguardo, la cornice cadde a terra, provocando un rumore tutto sommato ridotto, ma che il silenzio e il buio amplificarono. Era quel tipo di rumore che di giorno non sarebbe stato notato, però che di notte avrebbe richiamato tutta l’attenzione.
Michele si affrettò impacciato a raccogliere la fotografia, come se questo potesse annullare la confusione che aveva appena generato. Con goffa destrezza allungò il braccio arrivando a stringere, dimenticandosi l’insicurezza di prima, la foto con l’intento di rimetterla dove sarebbe dovuta essere, indirizzando l’arto in modo sicuro, trapassando l’oscurità come una lama. Ma fu proprio in quel momento che, fra le figure scure che contornavano la stanza, notò quella che gli avrebbe dato l’ispirazione che cercava. Anzi, gliela aveva appena data.
Prese dunque la cornice e con un gesto neutro la rimise dov’era prima che cadesse. Successivamente, si affrettò a prendere la scatola che giaceva sotto il mobile e che aveva catturato la sua attenzione, per poi tirarla fuori. Fece attenzione che lo struscio non generasse eccessivo fastidio, però non aveva intenzione di lasciarla lì ora che qualcosa nel suo animo si era riacceso. Il contenitore in questione non aveva una copertura, eppure l’ansia di vedere cosa contenesse, sebbene lo sapesse benissimo, cresceva ad ogni tirata.
A quel punto accese il PC. Quel maledetto ci metteva sempre troppo ad attivarsi, specie quando uno aveva fretta. Dai, cazzo, muoviti!
In realtà Michele doveva comunque trattarlo con una certa gentilezza, dato che era lo strumento che utilizzava per il suo lavoro non sempre retribuito (nel senso che a volte creava musica per sé stesso, altre volte, quando lo faceva per altri alla fine non veniva pagato, perché c’erano i costi del locale, delle luci, perché era più importante la visibilità, perché la religione di chi l’aveva ingaggiato non permetteva di retribuire gli artisti o i corpi astrali non erano in posizione per un pagamento). Ad ogni modo, pure il computer, se non voleva essere gettato in discarica doveva alla fine collaborare e, seppur con calma, alla fine si decise a funzionare per bene. Per fortuna, o meglio, per previdenza del ragazzo, quell’elaboratore elettronico era in grado di leggere i DVD, cosa che in quel momento era la più importante di tutte. Poco importavano le alternative in streaming quali Netflix, quel gesto ormai retrò di utilizzare i dischi faceva parte della sua adolescenza e non voleva rimpiazzarlo con niente al mondo, neanche con sistemi più veloci e pratici. Se infatti si vedono serie TV o film per provare emozioni, farlo alla “old school” era ciò che gliele faceva provare, quindi era perfettamente logico.
Prese dalle sue tasche anche le cuffiette, tutte aggrovigliate ma funzionanti, le quali vennero sbrogliate in fretta e vennero successivamente collegate all’apparecchio attraverso l’apposita porta posta a lato. Finalmente era tutto pronto.
Michele si immerse quindi in un altro mondo, un mondo che non esisteva ed esisteva allo stesso tempo. Nel breve tempo che l’episodio procedeva, circa una ventina di minuti, la sua mente trovava finalmente una certa pace e quiete. Ma proprio per la durata limitata, era abbastanza logico voler vedere un nuovo episodio e poi un altro ancora, per poi cambiare DVD e riprendere il ciclo. No, era una cazzata. La durata non c’entrava un tubo: gli piaceva e voleva continuare a guardare. Ogni volta che sentiva la sigla iniziale la canticchiava in silenzio, senza sapere se effettivamente le sue corde vocali vibrassero ad un tono troppo basso per poter essere udito o se la musica era solo nel suo cervello.
Ad ogni modo, alla fine di quella manciata di secondi del motivetto, il titolo della serie compariva a grandi lettere bianche, divenendo il simbolo di serenità e spensieratezza: How I Met Your Mother (HIMYM per gli amici), in Italia arrivato con il nome poco convincente di “E alla fine arriva mamma.”
La straordinaria capacità dello show era quella di raccontare la vita vera, quella percepita e vissuta ogni giorno, in toni leggeri ma senza farsi mancare momenti emozionanti e ispiranti, che facevano riflettere. E alla fine, nonostante tutti i problemi che i protagonisti potevano avere, si ritrovavano lì, al MacLaren’s come una sorta di famiglia. E forse era questo ciò che a Michele mancava: un legame con qualcuno così profondo che potesse risollevarlo ogni volta che sarebbe caduto. Quanto avrebbe desiderato essere là, seduto con loro sugli sgabelli di quel bar.
Specie dopo che era accaduta quella cosa, non poteva fare altro che lasciarsi andare a qualche impulso incauto che lo tirasse su. E quella voglia, quell’istinto, si stava trasformando in un pensiero ben più concreto. Lui agognava essere dentro quel pub, lo bramava, cazzo! Perché non poteva esserci? ‘Fanculo, perché non poteva esserci? Perché non poteva andarci!?
Un momento… Andarci…?
E fu in quell’istante. I suoi occhi rimasero fissi sullo schermo, ma il suo sguardo si perse nel vuoto. Le immagini si riflettevano nelle sue pupille, ma esse non le percepivano. Tutto il suo sistema celebrale era fisso su un unico punto.
La notte, quindi, passò così, senza chiudere occhio se non per sbattere le palpebre e accumulando momenti di spensieratezza insieme a pensieri. Ma pensieri positivi, speranzosi, che lo portarono, ad un certo punto nel cuore della notte, fra una puntata finita e una puntata nuova, a comprare d’impulso un biglietto online d’aereo di sola andata, per la città che affollava ora la sua mente e che presto lui stesso avrebbe affollato ulteriormente con la sua presenza.
Non un semplice insieme di grattacieli e palazzi da visitare, ma un simbolo, di pace, di rinnovamento, di ricerca interiore, qualsiasi cosa che gli facesse pensare più positivamente. La Grande mela era là ad attenderlo e sul biglietto il suo nome campeggiava come l’Empire State Building: New York. O Nuova York, come diceva la sua vecchia professoressa di liceo, e il ragazzo si lasciò andare ad un rapido riso, anche perché quel ricordo stava per divenire parte del passato e quest’idea lo faceva stare meglio.
I giorni seguenti li passò a richiedere il visto turistico e a fare i bagagli, sotto gli occhi dei suoi genitori spaventati ma comprensivi nei confronti di quella scelta.
Si informò sulle assicurazioni sanitarie e decise di farne una, un po’ perché da buon pessimista già si vedeva in qualche ospedale e voleva evitare di sborsare cifre stratosferiche, un po’ perché il viaggio non aveva una data di scadenza: sarebbe durato finché i risparmi di quel vecchio lavoro lo avrebbero permesso.
Decise di prenotare un buon hotel nei pressi di Central Park per i primi giorni e poi, una volta presa confidenza e domestichezza con la metropoli delle grandi opportunità, avrebbe cercato qualcosa di più economico e modesto fuori da Manhattan.
Per la prima volta nella sua vita l’impulso e l’entusiasmo guidavano le sue scelte. Una filosofia “Carpe Diem” che si penetrava la sua mente all’alba dei ventidue anni.
Finalmente, dopo tre settimane, arrivò il venerdì prescelto.
La prima luce diurna gli diede, calma e pacifica, una sensazione che il musicista non aveva mai provato, ma che quella mattina accolse con piacere perché, forse, iniziava ad assaporarla. Non che la sua giornata fosse iniziata priva di dubbi, anzi. Essa fu scandita continuamente da pensieri come: «Non starò facendo una cazzata?», «Forse, in fondo non dovrei partire…», «Non sono sicuro che sia la cosa giusta…», «…E una volta lì che minchia farò?».
Parole e tormenti, che lo accompagnarono per tutto il tragitto da casa sua sino all’aeroporto. Ogni passo era pesante, eppure non era mica ingrassato. Ma il peso dell’anima, quello sì che cambia in fretta. Portarsela dentro è la condanna di ogni essere umano e se c’era chi riusciva ad alleggerirla, lui, nonostante la prospettiva del viaggio, non era mai riuscito a renderla meno gravosa sulle sue spalle. Tuttavia, ciò non importava, perché nonostante tutti quei dubbi, e tutte quelle perplessità, Michele era lì, che faceva ogni momento un passo avanti, e poi uno ancora e uno ancora, finché non si ritrovò sull’aereo dove poté recuperare un po’ il sonno e, dopo quello, il sogno che stava facendo di visitare la città si trasferì nella realtà, svegliandosi con la voce della hostess che domandava ai passeggeri quale snack fosse di loro gradimento e, poco dopo, ripensando a tutto quel vortice che lo aveva condotto lì, a guardare apparire i primi grattacieli di Manhattan fuori dal finestrino.
E così, finalmente, dopo nove ore di volo, il suo viaggio aveva inizio. Uscito dall’aeroporto americano, dopo aver passato i controlli, si coprì il viso perché il sole era particolarmente baldanzoso quel giorno, ed i raggi arrivavano forti sulla sua faccia. Era fastidioso, eppure, allo stesso tempo, piacevole. E per un infinito istante, mentre tutto il mondo attorno a lui continuava a girare, sentì, per un attimo, qualcosa di nuovo. Una scintilla, di una sensazione mai provata prima, un barlume che sparì in fretta e a cui non era riuscito a dare un nome. Poi il tempo riprese a scorrere e il sole venne coperto da una nuvola. Fu in quel momento che il profilo della Grande mela si poté finalmente presentare al giovane, togliendosi il cappello e dandogli il benvenuto. Gli edifici si mescolavano tra loro in un continuo gioco di alto, basso, grigio, marrone, vecchio, nuovo, innovazione e vecchio stile. Tuttavia, la città era ancora lontana, ed era giunta l’ora, quindi, di andare ad esplorarla.
Si assicurò che la chitarra fosse con lui, di certo il bagaglio più importante di tutti gli altri. Più importante persino dei suoi soldi e dei suoi documenti. Il toccarne la custodia lo rassicurò, un gesto istintivo di chi cercava la protezione dell’unica cosa che gli era rimasta sempre accanto. Solo dopo quel gesto fu veramente pronto, e dopo aver inspirato ed espirato con calma ad occhi chiusi, riaprì e palpebre ad un nuovo arco della sua vita, che cominciò con una mano alzata per chiamare un tassì.
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