Ci mise un po’ a recuperare la lucidità, come se si fosse svegliato da un sogno e la sua mente dovesse un attimo riprendersi. In effetti, la situazione era molto simile, con la differenza che non si era appisolato. Era stato come dormire, ma senza farlo davvero. E ora che i suoi occhi si erano riaperti alla luce, lui riprendeva celermente il contatto con la realtà.
A colorare il suo mondo, rimasto nel buio ad ascoltare unicamente i suoi pensieri, ci pensarono la divisa blu dell’hostess, le sue labbra truccate di rosso, i suoi occhi verdi e i capelli mossi e biondi. Quel turbinio di vivacità improvvisa, assieme a quella sorta di dormiveglia, lo colse un attimo impreparato, prendendolo alla sprovvista. Si guardò rapidamente attorno e si ricordò di essere sull’aereo.
La ragazza, più grande d’età di lui ma non troppo, arrivata ormai in corrispondenza della sua fila, cercò di catturare la sua attenzione: «Siamo quasi arrivati, desidera uno snack? Ne abbiamo sia dolci sia salati».
«No, grazie.» Fu la laconica risposta. Non aveva voglia di alcuno spuntino.
Non ne aveva voglia, ma era stata proprio quella frase a farlo desistere: “Dolce o salato?”.
Quelle parole, il loro significato che non poteva essere definito se non per mezzo di due sensazioni precise, gli facevano pensare a ciò da cui stava scappando. Sì, perché la vita era o dolce o salata. E a lui era toccato il salato, che ora percepiva sulla lingua asciutta e nel cuore dal sangue grigio.
Dopo che la ragazza dallo sguardo allegro se n’era andata, puntando ai passeggeri successivi, il ragazzo voltò nuovamente la testa verso il finestrino dell’aereo. In un primo momento, le nuvole che danzavano nel cielo catturarono le sue pupille, ma queste, dopo pochissimo, ritornarono a dare forma alle immagini che volevano loro, andandole a ripescare nella mente, in meandri oscuri, non tanto lontani…
La Milano notturna di qualche sera prima tornò e si sostituì alle immagini del finestrino azzurre e bianche, tinteggiando con tonalità diverse, sempre scure, il nero delle sue palpebre serrate. Rammentava bene il buio della metropoli, spezzato da qualche luce qua e là per poter far perdere i suoi occhi nel vuoto. Una sorta di adorno, tutt’altro che triste, per quella città ora muta.
Si trovava seduto, in silenzio, sui gradini di qualche edificio non meglio identificato, ad ammirare la città con una bottiglia di birra in mano già consumata a metà, che era la temporanea risposta a un malessere interno. Forse l’alcol l’avrebbe affogato, forse se avesse bevuto abbastanza, quel dolore sarebbe morto. Era possibile, ma non prima che fosse morto anche lui, ucciso da quella stessa bevanda che stava consumando.
Ma Michele non era stupido. La barba un po’ trasandata gli dava un aspetto maturo, ma maturi erano pure i suoi pensieri.
Ciò che stava bevendo era solo un piccolo aiuto per un momento di distacco dai problemi della sua vita di tutti giorni, che si erano appostati lì, dietro l’angolo, pronto a ghermirlo non appena fosse tornato indietro a casa e alla vita di tutti i giorni. Ma mentre rimanevano là nascosti, al momento, andava bene, perché almeno avrebbe potuto respirare un po’.
Le sue mani reggevano senza troppa forza il cellulare. Lo schermo emanava una luce verde e le sue dita disegnavano forme specifiche su di esso: avevano impostato il blocco del registratore vocale, in maniera da inoltrare l’audio tramite WhatsApp a Ludovica, una sua amica di Palermo, conosciuta ai tempi di quell’università abbandonata dopo un solo anno.
«Sai,» disse a un certo punto «ho in mente una nuova canzone o, perlomeno una parte, insomma…» Prese la sua chitarra. Il contatto con le corde dure gli era molto familiare e non c’era sensazione più soffice per lui. «Te la faccio sentire.» Non sapeva esattamente che ore fossero, ma era sempre l’ora adatta per la musica. Almeno per lui.
Si mise quindi a strimpellare e le note uscirono fuori, invisibili ma presenti, decise a toccare qualcos’altro di invisibile ma presente: l’anima.
L’intro pareva infinita, in un ritmo oscillante di suoni, finché non arrivò il momento della parte vera e propria. Tuttavia, si dovette fermare lì con la bocca aperta, senza aver fatto vibrare minimamente le sue corde vocali: qualcuno, dall’alto di qualche palazzo, gli aveva detto di tacere.
«Ah, mi spiace… Sarà per un’altra volta, sembra.»
Ripose quindi la sua chitarra nella custodia, come una bacchetta magica o qualcosa di simile che viene riposta nella sua scatola, eliminando l’audio indirizzato all’amica siciliana e terminando quella magia.
Fabiano Fantoni (proprietario verificato)
Devo fere i miei complimenti agli autori di questo libro che mi ha tenuto compagnia negli ultimi giorni ed ha catturato in pieno la mia attenzione e la voglia di farsi leggere.
Un viaggio alla ricerca di sé stessi accompagnato da una colonna sonora “leggendaria” come direbbe Barney.
Un percorso a volte difficile in quanto lei, la maledetta, è sempre pronta a tarparci le ali quando meno ce lo aspettiamo, rovinando sentimenti, amicizie e speranze.
Se conosci la maledetta troverai in questo racconto un esempio di come poterci convivere nonostante i pugni in faccia presi o dati. Se non la conosci, la incontrerai in queste pagine che ti aiuteranno a rispettarla, così come hanno fatto alcuni dei personaggi di questo libro.
Mi è piaciuto inoltre il modo con il quale gli autori trattano e descrivono le tante figure femminili che via via si incontrano scorrendo i capitoli, tutte molto presenti ed ognuna, a modo suo, capace di lasciare un po’ del proprio fascino nel bagaglio del nostro viaggiatore. Una su tutte, lei che non ha avuto paura di nulla e che…… Lo scoprirete solo leggendo.
Fabiano