Continuo a correre lungo l’estremità del campo sino a sfinirmi e quando terminiamo sono ricoperto di sudore dalla testa ai piedi. Nello spogliatoio regna il caos: volano maglie sporche e scarpe da calcio, il fremito della partita del weekend comincia a farsi sentire. Tutti, a petto nudo, si radunano attorno a Davide, che sta mostrando qualcosa al telefono. Deve essere l’Instagram di una ragazza.
“Gabri, guarda qui” mi avvicino curioso al capitano e sposto lo sguardo dove lo hanno gli altri. È il fisico scolpito in bikini di una bionda con un seno esagerato. Bella e comune. Comunque, ugualmente irraggiungibile per me. La squadra mi guarda in attesa del mio commento, non li faccio aspettare.
“È clamorosa zio”; mi sorride in approvazione.
“Certo che lo è. È la tipa con cui mi sento.” Ci complimentiamo con lui, assicurandogli che è mille volte meglio di Aurora, di una settimana fa. Davide è molto così: il numero dei suoi follower e il suo fisico palestrato gli permettono di mostrarci una ragazza nuova quasi ogni settimana.
Mi affretto a prepararmi e partecipo al discorso intervenendo con qualche cazzata divertente come mi sono allenato a fare. Poi però, i miei occhi si spostano su Simone. Simone se ne sta lì, in un angolino, mentre caccia tutto dentro la borsa e si infila le scarpe alla velocità della luce. Tiene lo sguardo basso e sta in silenzio, non vede l’ora di levarsi di torno. Perché lì dentro nessuno lo considera, ed essere ignorati fa schifo. Ti rende insostenibile anche solo stare in un posto. Lo guardo con sincera compassione, sperando, come ogni volta, che oggi per lui sia diverso, che si decida a parlare. Non capisce che deve fare tutto da sé, che non sono gli altri che verranno da lui perché provano pena, che se la deve sudare l’accettazione in un gruppo. E non è colpa sua, il fatto è che nel mondo del calcio se sei uno timido e riservato non duri tanto. D’un tratto, ruota il volto esaminando chi ha intorno e i miei occhi si accendono; se mi guardasse gli tirerei uno sguardo di incoraggiamento, ma non lo fa. Uno, due, tre secondi e poi… i suoi occhi tornano sul borsone che si carica in spalla. Ha perso anche oggi e, silenzioso e in fretta, abbandona lo spogliatoio. Nessuno ci fa caso.
Mezz’ora di moto dopo, arrivo finalmente a casa. Ho sfrecciato nel traffico e mi rendo conto che dovrei fare un po’ più di attenzione. Ma a volte, quando sono in moto, mi sembra di avere un potere sovrumano, come se fosse impossibile fare un incidente perché ho il pieno controllo in ogni istante. Potrebbe essere pericoloso.
Prima di varcare la soglia di casa, tendo l’orecchio in attesa della voce odiosa, la cui presenza determinerà il mio ingresso. Stranamente c’è silenzio, così entro.
“Chi c’è?” La sento prima ridere e poi zittire qualcun altro. Merda, dovevo stare fuori.
“Sono io” uso la modalità più dura che la mia voce possa offrire.
“Finalmente eh” mia sorella non riesce a stare seria. Continua a ridere come un’oca da camera sua, allora sbuffo. Quando mi accorgo di averlo fatto troppo forte, impreco e mi dirigo veloce in camera, ma per farlo devo attraversare il corridoio che dà sulla porta di Giorgia. Questa si spalanca proprio nel momento in cui la sto superando. Mi giro forzatamente e tre cose mi fanno accecare dalla rabbia guastando l’umore, che per una volta era rimasto intatto, nel giro di trenta secondi. In primo luogo, il coglione che indossa il mio cappellino NY preferito, appoggiato allo stipite della porta; poi il suo sorriso storto mentre incrocia le braccia al petto nudo e lo sguardo di sfida che mi rivolge, e infine mia sorella che infila istintivamente la maglia per non farsi vedere in reggiseno.
Stringo i pugni conficcando le unghie nella pelle e conto fino a tre nella mente.
“Come stai Gabri?” mi provoca lui. Giorgia si catapulta al suo fianco. Deve allentare la tensione che intercorre fra me e l’idiota del suo ragazzo. A cui spaccherei così volentieri la faccia.
“Come è andata? La mamma ha detto che sta arrivando e di scaldare il pollo. Fra poco apparecchio.” Mi sorride leggermente imbarazzata, la ignoro.
“È mio.” Indico con un cenno il cappellino nero. Il fatto che sia più grande di due anni e più alto di almeno dieci centimetri, non fa che accrescere la mia rabbia.
“Questo? Oh, non lo sapevo.” Finge innocenza e lo odio ancora di più. Mia sorella glielo sfila e me lo porge.
“Scusami, è colpa mia, mi ha chiesto se poteva provarlo” lei sorride ancora e questa volta intravedo senso di colpa. Lo sa che è uno stronzo, mia sorella non è una stupida. Però lo vuole lo stesso e io detesto questa situazione. Lei lo trascina dentro camera sua e chiude la porta. Prima, però, il figlio di puttana mi indirizza un’ultima occhiata per sfottermi. Appena entro nella mia stanza, lancio prima il borsone e poi il cappello e sbatto la porta. Dentro di me si fa spazio un senso di frustrazione potente che non riesco a cancellare neanche impegnandomi. Vorrei spaccare la camera intera e poi andare di là e spaccargli le ossa, ma mi trattengo. Per Giorgia e perché in una rissa tra me e lui ne uscirei probabilmente perdente io, e anche a pezzi. Non che me ne fregherebbe qualcosa, ma, ecco, non vorrei dargli la soddisfazione.
Se solo fossi alto quanto lui, se solo fossi una montagna di muscoli, se solo sapessi pestare. Cazzo, la farei pagare al mondo intero. Invece mi siedo per terra e deglutisco.
Odio la mia vita.
Capitolo 2
Marta
Lascio che la musica fluisca dalla cassa incessantemente. Alzo il volume ancora e ancora, sino ad essere tanto forte da sovrastare i miei pensieri. Però non riesce a zittirli del tutto, così sbuffo. La musica si può stoppare, ma non sono ancora riusciti ad inventare un metodo per bloccare il flusso dei pensieri. È insensato.
Scelgo i vestiti da indossare con cura per distrarmi. I jeans strappati li scarto, lì ho già usati mercoledì, e scarto anche quelli a palazzo che mi fanno un fisico orrendo. Opto per un paio scuro e lo abbino ad un maglione color panna a collo alto. Infilo la giacca e getto telefono, chiavi e Air Pods nella borsa nera. Spengo la cassa e mi guardo allo specchio. Provo a tenere lo sguardo ancorato per più di qualche secondo, ma concludo che mi farò solo del nervoso, allora lo distolgo. Esco di casa in fretta, riattivando la musica. Sono belli questi momenti, in cui mi devo spostare da una parte all’altra a piedi o in autobus. Gli unici in cui sono completamente sola e in cui penso, ma senza lasciare che i pensieri prendano il sopravvento, perché, beh, devo mantenere un contatto con la realtà. E guardare dove metto i piedi, magari. Adesso che sto facendo le prime guide, ho capito che mi piace anche quello. Due ore piene in cui sono obbligata ad utilizzare tutte le energie mentali che possiedo, in cui non ho tempo né possibilità di concentrarmi su qualcos’altro che non sia la strada proiettata di fronte a me. È stancante, ma anche soddisfacente e credo che quando avrò la patente passerò più tempo del dovuto in macchina.
Appena Asto mi vede arrivare, si affretta a regalarmi un abbraccio sincero. In queste situazioni mi sento sempre in imbarazzo perché so qualcosa che non vorrei sapere. So di piacergli da un sacco di tempo. Me lo ha fatto capire lui stesso in una serie di modalità che ho sempre detestato: odio i ragazzi troppo espliciti, credono di essere divertenti ma io non sono come le altre. A me fanno solo sentire a disagio certi atteggiamenti. All’inizio credevo che fosse solo il suo modo di fare, quello che ha un po’ con tutte. Poi però ha provato a baciarmi in discoteca, ed io ho fatto l’errore di ricambiare il bacio perché, beh, non ero abbastanza sobria da controllare i miei freni inibitori. Quando, nei giorni seguenti, ha cercato di parlarmene, ho semplicemente finto noncuranza: non volevo perdere il mio migliore amico. Forse facendo così ho rischiato il contrario, ma alla fine, in un modo o nell’altro, non ci siamo mai distaccati.
“Marti sta arrivando”
“i suoi amici?”
“Ci raggiungono in centro.” Lo ammetto, ho un po’ di agitazione. Si definisce ansia sociale, a quanto ho sentito. È quello che provi quando sai che stai per conoscere qualcuno e ti rendi conto che dovrai sforzarti di parlare a vuoto per non sembrare timida, ma senza annoiare nessuno, per cercare di fare una bella impressione. In realtà è l’esatta sensazione che viene dopo, ossia la paura di non riuscire a fare queste cose. E quindi di non apparire abbastanza interessante da suscitare il desiderio di conoscerti. Dovrei essere brava a gestirlo, ormai ci convivo da anni. Ma ogni volta è la stessa storia.
“Ciao amori!” Martina ci raggiunge e avvolge con la sua energia vitale. Stampa un bacio sulla guancia a entrambi e poi chiede “cosa dite, sto bene o sembro una troia?” Come ogni volta le diciamo che è la più bella, perché effettivamente è così. Indossa una minigonna nonostante siano i primi freddi giorni di novembre e collant quasi trasparenti, sopra un maglione molto corto di marca e un cappotto semi aperto. E poi la borsa fucsia Valentino. Le sue gambe sono sottili in modo esagerato, mentre ci penso sento una morsa sottile allo stomaco.
“Scusa ma… non doveva essere una cosa semplice? Avevo capito andassimo solo nei vicoli a bere qualcosa” Le chiedo. La negatività mi pervade: se si è vestita così, con ogni probabilità anche le altre saranno su questa onda e io non farò che sentirmi inadeguata tutta la sera. Succede sempre: le chiedo come dobbiamo vestirci, mi dice “da sera normale” e poi arriva impeccabile. E ormai la conosco da anni, ogni volta ci casco. Mi odio per questo.
“Si, fidati che vai bene. Dovevo essere sexy per Matteo, ci raggiunge lì. Oh, e porterà i suoi amici.” Mi sorride. Fingo esaltazione, ma dentro si scatena nervosismo alle stelle. Matteo è oggettivamente un bel ragazzo, di quelli che ti catturano l’attenzione se li incontri per strada. Con il fisico scolpito e l’aria da duro. Questo significa che i suoi amici sono come lui. A quella gente piacciono solo le ragazze facili ed estroverse e in cerca di attenzione e con le forme spropositate. Diciamo, tutto quello che non sono io. Come può lei anche solo pensare di combinare qualcosa tra me e uno degli amici del ragazzo con cui si sente? Neanche Martina è quel tipo di ragazza, se no non saremmo così amiche. Lei è più il genere di persona tranquilla, ma sicura di sé, bella in modo consapevole, espansiva sì, ma non egocentrica, ecco. Siamo opposte e forse è ciò che ci permette di essere così legate.
Venti minuti dopo arriviamo nei vicoli.
Martina non è riuscita a darci indicazioni chiare su chi ci raggiungerà stasera. Io però devo saperle prima queste cose, per prepararmi. Tra noi tre di solito è lei a portare gente nuova. Gli amici di Asto ormai li conosciamo bene, è meglio evitarli, e io, beh… non sono quel tipo di persona che saluta chiunque quando va in giro. Mi piace dare la colpa alla mia timidezza, forse sono io che non attiro le persone. Ma non sono come Chiara di quinta G che non parla con nessuno e sta sempre in casa; a me piace davvero uscire e divertirmi, così in ogni occasione ringrazio mentalmente di avere Martina al mio fianco. Ogni volta che invita qualcuno alle serate, però, una parte di me prega che ci sia dell’alcol. È complicato da spiegare, ma solo così riesco ad allentare i freni dentro di me e a godermi la serata. È così quando non ho confidenza con la gente che mi circonda. Mi permette di sentirmi come loro e di zittire i pensieri. Ma è solo un’illusione.
Esco dalla mia mente e torno nei vicoli. Io, Marti e Asto siamo seduti al nostro pub di fiducia.
“Oh Dio eccoli. Marta, sono a posto??” L’agitazione non punge solo me, a quanto pare.
“Sei perfetta”
Matteo e il suo gruppo si avvicinano lentamente e prego di sbagliarmi, che non siano loro. Non si tratta di “qualche amico” ma una decina di persone, maschi, con aria disinvolta e visi marcati. I gruppi di ragazzi così belli mi fanno paura. Sembrano i padroni della piazza con i loro sguardi duri con cui studiano l’ambiente e le persone che hanno attorno. Quando ci raggiungono, uniscono dei tavoli al nostro senza chiedere il permesso a nessuno e si sfilano i loro giubbotti lucidi di marca. Ricordano un gregge di pecore prive di fantasia negli atteggiamenti e nel modo di vestirsi. Matteo mi dà un bacio sulla guancia e mi chiede come sto. Lui mi piace, nonostante l’espressione da cattivo ragazzo, perché è gentile con Martina e con noi. Ma ancora è presto per giudicarlo. Gli amici siedono senza preoccuparsi di presentarsi. Ad un certo punto mi accorgo che Marti parlerà con Matteo ed Asto si farà notare con le sue uscite stupide per fare amicizia. Asto si è attribuito il soprannome Labrador parecchio tempo fa: se potesse farebbe amicizia anche con le pietre. A volte esagera, per questo non sempre sta simpatico, però in genere riesce ad inserirsi presto. Mi rendo conto che rimarrò in disparte quando gli amici iniziano a parlare fra loro.
“Asto”
“Si?”
“Non mi lasciare sola”
“Si, ma stai serena per una volta” lo dice senza pensarci, senza darvi peso, però fa male. Perché è la verità: non riesco mai a godermi il momento o a divertirmi davvero. La realtà viene sovrastata dall’ansia e dalle paranoie su come si svolgerà la situazione. E non riesco a controllarlo. Allora mi alzo e mi dirigo al bar senza dire nulla. Ordino un Gin Lemon per iniziare, sapendo che al massimo con due sarò a posto per la sera e aspetto di essere servita. Il nuovo barista dagli occhi di un agghiacciante azzurro, mi studia attentamente, per poi decidere di chiedermi la carta d’identità. Succede una volta ogni due e lo detesto: a Martina non la chiedono mai, non lo facevano nemmeno quando aveva diciassette anni. Appena capisce che non gli sto mentendo, ma ancora sospettoso, mi porge il drink ed io lo trangugio avvicinandomi al tavolo. Aspetto che faccia effetto, ma non succede niente, perché effettivamente è diluito con troppa acqua. Impreco. Quando mi siedo è in corso un discorso: uno degli amici sta raccontando qualcosa a proposito di una rissa che lo riguarda e la cosa non mi stupisce. Si sono aggiunte delle ragazze, proprio il tipo di ragazze che immaginavo, alcune sulle gambe di qualcuno. Due si stanno baciando molto approfonditamente e Asto mi sussurra che si sono conosciuti stasera. Incredibile con quanta facilità accadano le cose per tutti eccetto che per te. Il modo in cui intervengo, come sempre, è limitarmi a ridere al momento giusto. Non ci provo neanche a fare di più: in gruppi così grandi, con questo tipo di persone, prendere la parola è ancora un traguardo distante. Per Asto è una sfida già vinta da tempo, un percorso che conosce a memoria. Così si mette tranquillamente a raccontare di quando lo hanno perquisito due settimane fa all’aeroporto. Anche se non conosce praticamente nessuno. Anche se non ha la certezza che il suo racconto possa interessare davvero. Non ascolto nemmeno, mi concentro ad osservarli uno ad uno. Martina è completamente sedata dallo sguardo di Matteo; forse è riuscito a prenderla davvero. Dopo decine di relazioni da un mese al massimo, questa cosa sta durando più del previsto. Loro non stanno ancora insieme, ma si sentono da settimane, quindi credo succederà in questi giorni. Sono felice per lei, davvero. A volte penso che Martina non sia in grado di stare da sola, o che abbia paura. Lo è già abbastanza: i suoi sono divorziati ed è figlia unica, per questo è sempre ovunque eccetto che in casa.
Dalle casse del locale comincia fluire una hit di Ana Mena, e tutti nel locale, coinvolti dall’atmosfera, si mettono a cantare, no, urlare le parole della canzone. Ridono, si guardano, sorridono, come se di felicità ne avessero da vendere. Come se non ci fossero i problemi che li tengono incatenati alle loro vite di giorno, che scatenano la loro rabbia, la frustrazione, la parte che seppelliscono perché non vogliono mostrare.
Le ragazze del mio tavolo cominciano a trascinare le pecore in pista. Matteo guarda Martina, le sorride, le fa cenno di alzarsi e lei esegue senza esitare. Mi si scioglie un po’ il cuore, ma segue subito una fredda percezione di vuoto. Pagherei per essere guardata così. Non mi è mai successo.
Mi alzo anch’io quando mi rendo conto di essere rimasta l’unica al tavolo, ma non per andare a ballare. Non ho abbastanza alcol in corpo per riuscirci e so che prenderne altro non servirebbe. Questi drink sono inutili. Mi appoggio ad un muretto e sollevo il cappuccio in testa, li guardo mentre ballano spensierati, tutti insieme.
Anche Asto ha conosciuto gli altri questa sera, però balla con loro, ci scherza. Martina canta a squarciagola e poi comincia a muoversi sensualmente nel suo modo perfettamente coordinato. Se ci provassi io sembrerei una stupida.
Un freddo gelato mi accarezza la pelle. Potrei stare qui per ore che nessuno se ne accorgerebbe. Nessuno mi nota mai. E più li guardo, più so che per quanto ci provi, per quanto mi sforzi di cambiare, non sarò mai come loro.
Odio la mia vita.
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