«Rinnoviamo la testata! E poi, Lo Specchio… che nome è?»
disse il giovane butterato della pagina dei necrologi.
«Lo Specchio ha centosei anni, fa parte della storia di Brasa,
la Proprietà non rinuncerà mai al nome. Vogliono tagliare
alcune pagine, capite? Pagine significa persone. Devo dirvi
quali tirano di meno?»
«Quelle di cui non frega niente a nessuno e che si fanno
mantenere da noi» disse un altro teppista dello sport.
Quello con gli occhiali grandi da signora della pagina politica
si alzò, aggiustandosi cravatta, polsini e capelli.
«Internet, canali che trasmettono ventiquattro ore su ventiquattro
notizie da tutto il mondo… e noi dove crediamo di andare con
la carta? Stiamo scomparendo, mettetevelo in testa, come i
dinosauri, non c’è niente da fare. Ma cosa pensate di salvare?
Siamo un malato terminale. Stacchiamo la spina.»
Tutti parlarono, nessuno ascoltò. Ognuno disse la sua, e
ognuno nello stesso momento. Le voci si alzarono gonfiando
le vene sulle fronti. Il caporedattore sapeva che sarebbe finita
presto e così urlò di andarsene e di pensarci. Dentro di sé li
mandava a farsi fottere. Uscirono uno addosso all’altro come
una mandria ruminante.
Nel silenzio della sala riunioni svuotata, Roberto Papaquano,
giornalista di cronaca nera, era ancora alla finestra, zitto,
drogato dal movimento luminescente giù nella strada.
All’E.A.P., pub vecchio stile inglese, non c’era un tavolo
libero. Si appollaiarono sugli sgabelli alti, al bancone.
«Brasa produce poca nera» disse Carlo.
«Tra poco è estate, con il caldo gli assassini vengono fuori»
rispose Papaquano.
«Buttati su più fronti, non fissarti su una cosa sola. Non star
lì ad aspettare il serial killer dei tuoi sogni, non ce ne sono
tanti di quelli buoni.»
Allungarono le mani sulle pinte di birra nera e le bevvero
subito fino a metà, in apnea.
«La politica…» riprese Carlo «quella va sempre, di questi
tempi. Non ti offro la pagina degli spettacoli, non voglio
umiliarti. Inventati un’inchiesta, una rubrica che faccia parlare la
gente. La Proprietà sarà costretta a tagliare, non puoi
aspettare in eterno la grande storia. Chi si adatta sopravvive.»
«Ascoltami, Darwin: è la nera, quella seria, che tira. Uno,
quando torna a casa stanco, cosa vuole leggere? La politica?
L’economia? No, vuole una misteriosa storia di sangue. E cosa
mi sono ritrovato tra le mani io, in questi anni? Assassini
suicidi o che si fanno arrestare subito. A me i finali non sono
mai piaciuti. Quando la storia si chiude e non se ne parla più,
quando tutto quello che c’era da scrivere è già stato scritto…»
«Vorresti uscire dalla redazione e trovare sul marciapiede
un bel morto ammazzato fresco fresco.»
Papaquano socchiuse gli occhi, finì la pinta per non pensarci.
Intorno, musica jazz, uomini e donne accaldati sempre
più vicini. «Ricordi l’idraulico?» disse poi. «La storia del
tizio che ha trovato la moglie a letto con l’idraulico, amico di
famiglia, e ha sfondato il cranio a tutti e due con una grossa
chiave inglese, dell’idraulico. Poi non ha trovato di meglio da
fare che salire in macchina e andare dritto a cento all’ora
contro l’angolo di un palazzo. Ha trovato il modo di sfondarsi il
cranio pure lui. Ho tirato questa storia oltre il tirabile. Prima
di tutto, trovare qualcosa di drammatico è stata una grande
prova di giornalismo… cioè l’idraulico che vestito da idraulico
si rotola nel letto con la casalinga trascurata, e il marito che
torna a casa e si ritrova sul set di un film porno amatoriale… è
stata dura tirare fuori qualcosa di buono, eppure ce l’ho fatta,
ci ho messo tutto me stesso. Ho ricostruito il matrimonio, ho
scandagliato le vite private di moglie e marito, e anche quella
dell’idraulico. Ho intervistato tutti i vicini di casa, i parenti
stretti e lontani, i conoscenti, ho preso i pettegolezzi del paese.
Ho spolpato la storia fino all’osso, anzi mi sono sgranocchiato
anche gli ossi.» Roberto non sembrava accorgersi della
bolgia che gli cresceva intorno e non alzava la voce, era una
bocca muta che si muoveva nel caos.
Carlo scese dallo sgabello. «Vado. Ho una moglie e una cena
che mi aspettano. Rifletti. Le cose devono cambiare. La Proprietà
ci sta sul collo. Se continuerà a perdere, svende tutto.
Tu cosa fai?»
«Io non ho moglie e non ho cena. Vedo come butta la serata.»
Carlo si strusciò tra la folla. Fuori il vento sollevava la
polvere della strada. Una goccia di pioggia grossa come uno
sputo rabbioso lo colpì in piena fronte.
Raffiche di polvere di legno. Grandi mani spostano grandi
tronchi nel rumore elettrico e meccanico della segheria. Un
bambino di sette anni tra uomini giganteschi che gridano e
tronchi rotolanti. Il bambino gioca a correre tra i giganti. Un
tronco sfugge dalle mani, sta per finirgli addosso, lo scansa con
un salto, cade ma si alza subito. «Non mi sono fatto niente!»
grida. E lo vede. Lo vede a terra nella polvere di legno. Il suo
braccio sinistro. «Non sento male, non sento male…» Il volto di
suo padre si avvicina deformato da un urlo senza voce, mentre
una sega circolare schizza sangue sui muri.
Tommaso spalancò gli occhi. Buio. Battere ostinato di gocce
sul tetto e sulle finestre. Pioggia come non se ne vedeva da
anni, nei boschi di abeti rossi sulle montagne di Brasa. Una
volpe tremante dalla fame affondava le zampe nel fango…
Là, nel suo letto, due metri di uomo dei boschi senza il
braccio sinistro udiva l’eco del sogno nella mente sveglia, e versi
striduli di galline in lontananza. Scattò in piedi, afferrò
la torcia elettrica, infilò gli scarponi lanciandosi fuori nella notte
e nella pioggia, in mutande. Entrò nel pollaio, puntò la luce
sulla volpe chiusa nella trappola. Le galline sbattevano da
ogni parte. Lasciò cadere la torcia e con l’unica mano prese
la volpe alla gola. Restò così fermo, fulminato da un ricordo:
Papà aveva una pistola.
Le dita si chiusero a morsa. Il coccodè selvaggio si placò. A
passi lenti uscì dal pollaio. Le nuvole scagliavano grandine. Si
era dimenticato la volpe in mano; la gettò in una pozzanghera,
il collo spezzato. Entrò nella segheria, spostò dei vecchi scarti
di legname marcio. Prese un martello a coda di rondine,
schiodò un’asse del pavimento. C’era.
CAPITOLO DUE
Una fredda mattina di sole pieno. Ludovica e Matilde Zizzi,
gemelle omozigote, senza trucco, stesso modello di occhiali
con la montatura nera, occhi verdi molto distanti, capelli
rossi raccolti e compatti, castigate in abiti accollati grigio
antracite, parcheggiarono davanti al negozio di alimentari, dentro
una pozzanghera grande come l’auto. Matilde aprì la porta.
Suono di campanella. Tutto spento, nessun cliente. Solo una
vecchia dietro la cassa, con lo sguardo buttato sul pavimento.
«Ci scusi, signora, è forse chiuso?» chiese Matilde.
Ludovica continuò: «Non si sente bene, signora?».
La vecchia alzò gli occhi; vedendo le Zizzi sussultò come
colpita da una scarica elettrica. «Buongiorno, signorine.
Scusatemi, non vi ho sentito entrare.» Accese le luci allungando
un braccio, senza guardare il pulsante.
Le sorelle riempirono i piccoli carrelli, evitando il reparto
surgelati che puzzava: senza corrente si era sciolto tutto.
«È sola, oggi, signora?» chiese Matilde prendendo due litri
di latte.
«Le mie figlie non vengono quasi più, stanno cercando un
altro lavoro. Una sembra che l’ha trovato in banca. Speriamo…»
«Tutta colpa del nuovo centro commerciale» disse Ludovica.
«Come, scusi?»
«Il nuovo centro commerciale le ruba i clienti.»
«Non andremo avanti per molto…»
La spesa delle Zizzi continuò veloce e senza dialogo.
Pagarono la signora, che aveva ancora la mente altrove.
Aprendo la porta, dopo lo scampanellio, Ludovica disse:
«Abbia pazienza, vedrà, la gente ritornerà. Il centro commer-
ciale è destinato a fallire, posti così grandi non riescono a
durare».
«È gentile, signorina, ma alla mia età… ah, ho visto che è
tornata vostra sorella. Quanto tempo… è passata qui davanti e…»
Matilde tranciò la frase sbattendo la porta. Il campanello cadde
sul pavimento nel punto esatto in cui prima si era smarrito
lo sguardo della vecchia. Ludovica, con il sacchetto in mano, si
avviò verso l’auto con passo da fuga. Matilde rimase ferma sul
marciapiede per qualche istante, poi uscì dai suoi pensieri e si
mise al volante rischiando di ammazzare qualcuno.
Posarono la spesa sul tavolo della cucina. Le mani e le
gambe di Matilde iniziarono a tremare, e dovette sedersi.
Ludovica guardò fuori dalla finestra: una giovane mamma spingeva
una carrozzina rosa.
«L’hai fatta tornare» disse Matilde con una voce profonda e
rauca, da uomo.
Tommaso scese dal suo furgone ammaccato e corroso dalla
ruggine. Lasciò nel cruscotto la pistola tirata a lucido.
Proseguì a piedi per le vie di Brasa. Un’officina meccanica. Entrò.
C’era solo una macchina senza ruote. Un ragazzo con la
sigaretta sull’orecchio gli apparve alle spalle.
«Sì?»
«’Giorno,» disse Tommaso voltandosi «posso parlare con il
proprietario?»
«È mio padre, ma adesso non c’è. Può dire a me.»
«Non avete bisogno di un aiuto?»
«Chi gliel’ha detto?»
«Cosa?»
«Che cerchiamo un aiutante.»
«Non me l’ha detto nessuno.»
«Potrebbe andare in giro a spaccare le macchine…» disse il
ragazzo prendendo dall’orecchio la sigaretta fatta a mano e
passandosela tra le dita. «Cosa è successo al braccio?»
Tommaso era già fuori.
Passò accanto a tre cantieri deserti. Chiese in un panificio,
in un negozio di scarpe e in uno di abbigliamento. Sempre la
stessa storia: nessun lavoro per uno come lui.
Pausa bar e caffè. Si sedette a leggere il giornale lasciato
aperto su un tavolo proprio alla pagina delle offerte di lavoro.
Cercò qualcosa come carpentiere, muratore, manovale, magazziniere,
elettricista, idraulico, scaricatore. Trovò: cercasi
operatori telemarketing, operatori call center, web/mobile
designer, junior web developer, programmatore.
Ritornò al furgone, il serbatoio mezzo pieno, sgommò via
da Brasa. Tra un tornante a gomito e l’altro pensava alla cena:
Ancora uova o una gallina intera?
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