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Senza Pensarci Troppo

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Può la voce di qualcuno che non c’è più raggiungerci un’ultima volta? Lo sa bene Stefano, un adolescente che sta per terminare il liceo e dare inizio alla propria vita da adulto, chiamato a fare i conti con la mancanza per antonomasia: quella del lutto. Un diario, degli oggetti in apparenza casuali e una chiave sono il lascito di nonna Elisa per suo nipote, briciole per provare a mostrargli un cammino. “Senza pensarci troppo” racconta di un tempo perduto, dimostrando come l’amore di chi non è più con noi possa manifestarsi in modi inaspettati, cercando di toccarci ancora una volta e lasciarci un ultimo insegnamento.

Prologo.
Quel codice
sul tabellone

Immaginate una strada sterrata di campagna in pieno agosto. Puglia. Io ho sette anni. Mio nonno mi porta in bici con lui. Stiamo andando a raccogliere i tanto bramati fichi d’India che piacciono molto alla mia famiglia. Mentre fischietta continuiamo a guardarci intorno. Le cicale cantano e l’aria che mi sfiora il viso è piacevole e avvolgente. Arrivati nel punto designato, iniziamo la meticolosa raccolta. Il caldo è intenso, ma nel complesso lo trovo piacevole. Nonostante i frutti fossero ricoperti di spine, mio nonno non indossa i guanti. Dopotutto si sa, i nonni hanno mani forti e pelle dura. Mio nonno inizia a raccoglierne il più possibile, poi mi chiede se voglio provare anch’io. Quelle piccole lance acuminate mi spaventano e così dico di no.

Poco dopo torniamo indietro con la bicicletta e andiamo nel suo garage per poterli pulire con la massima calma e concentrazione. Bisogna prestare molta attenzione. Lui si siede di fronte al lavandino e li versa in una grande bacinella. Poi inizia a lavarli e con un coltello pian piano ne rimuove l’involucro. Esegue tutti questi movimenti con la stessa facilità e curiosità tipiche di un bambino posto di fronte a un pacchetto di figurine, pronto a scrutarne il contenuto.

«Vuoi provare?» mi chiede ancora una volta. Io continuo a rimanere titubante a riguardo.

«Non avere paura di pungerti, fa parte del gioco» mi dice con calma, sorridendo. Poi continua a pulire, come nulla fosse. Ogni tanto qualche spina sembra attraversare la sua pelle, ma lui non se ne cura. «Un giorno ci penserai tu» mi dice imperterrito

«Non lo so, nonno, ma ci proverò» rispondo.

Ad oggi penso ancora che quella frase detta da mio nonno sulla paura non valga solo per i fichi d’India. Non vorrei di certo paragonare mio nonno a Sallustio e al suo citare “Ciascuno è artefice del proprio destino”, però di certo aveva il suo fascino. Poi quando una cosa che non t’aspetti possa accadere, invece accade, è sempre una sorpresa. Così si diverte la vita, a farci credere che le cose possano andare in una maniera e poi fare tutto il contrario. In più quella frase specifica era stata detta con spontaneità e con l’affetto tipico che un nonno ha per suo nipote. Quell’uomo mi ha insegnato tante cose nel corso degli anni. Sul podio abbiamo: saper andare in bicicletta, intonare un motivo fischiando per avvisare anticipatamente mia nonna dal vialetto che fossimo tornati a casa e selezionare i tipi di frutta e verdura più freschi rispetto ad altri. Per lui sono punti fondamentali del saper vivere bene e sui quali non si può in alcun modo transigere. Eppure, mentre m’insegnava ognuna di queste cose, si muoveva o parlava pochissimo. Non ho mai avuto idea di come questa cosa fosse possibile. Vedevo sempre da piccolo un sacco di gente gesticolare per esprimere (e forse far valere) la propria opinione, mentre lui utilizzava le parole, caricandole di energia e attenzione. La sua prerogativa era lasciarmi sempre fallire prima di riuscire. Potrebbe sembrare quasi banale, ma non lo è per niente a mio parere. Crescendo ho capito quanto cadere fosse importante, perché solo così, rialzandoci, capiamo quale possa essere la strada migliore per riuscire nei nostri intenti e per provare a essere felici. Per riuscire in quello in cui crediamo, senza farci bloccare da ostacoli che molto spesso sono frutto della nostra mente. Non che gli ostacoli non ci siano nelle nostre vite, anzi. Ce ne sono di diversi tipi, che siano essi materiali, sociali o psicologici. Risulta però fondamentale capire quali sono i nostri punti di forza e quali invece le nostre debolezze, senza dovercene vergognare.

Bisogna bramarla quella strada, continuare a cercarla. Altrimenti si rischia di vivere solo per gli altri.

Ritorniamo però a mio nonno. Ogni volta che i miei occhi si posavano su di lui, lo percepivo come un’entità invincibile e quindi non facevo altro che pensare che nulla potesse scalfirlo. Quell’idea, però, era solo nella mia mente. In realtà c’era qualcuno che si prendeva cura di lui in silenzio, quasi senza che nessuno se ne accorgesse. Sto parlando di mia nonna. Per descriverla, sento la necessità di utilizzare un piccolo aiuto.

Edward Lorenz nel 1972 ha concepito per la prima volta l’idea sconvolgente dell’“effetto farfalla”. All’interno del suo articolo, lui poneva una semplice ma stupefacente domanda: Può il battito d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?

La risposta non è così semplice. Ponendo questo quesito, si voleva intendere che piccole variazioni nelle condizioni iniziali di una situazione producono grandi effetti o conseguenze nel sistema generale preso in considerazione. Mia nonna era dal mio punto di vista paragonabile a quel battito d’ali. Una sua parola, un gesto o un suo pensiero, tendeva a modificare lentamente quello dell’intera famiglia. Delicata, quasi impercettibile, eppure così decisiva nei suoi interventi. Mio nonno non riusciva a immaginare le sue giornate senza di lei.

Come se non bastasse, tutti in famiglia non facevano altro che raccontare di quanto fosse stata una grande infermiera. Di come avesse affrontato diversi percorsi nella sua vita lavorativa e personale, senza mai tirarsi indietro. Ogni tanto si parlava del momento storico in cui era stata chiamata a “combattere” quel mostro invisibile che aveva causato la morte di moltissime persone, quando era solo una ragazza. Ogni tanto ne sentivo parlare. “La pandemia” veniva chiamata. Molti ad oggi, dopo decenni, dicono che non sia mai esistita. Dicono che fosse solo un’invenzione. Una storia da raccontare per spaventare la popolazione, per tenerla quieta. Quando provo a parlarne con qualcuno, subito l’espressione dell’altra persona cambia. Non so mai se sia perché potrebbe avere qualche conflitto irrisolto con “la pandemia” o perché non creda alla sua reale esistenza. Fatto sta che mia nonna l’aveva vissuta in prima persona, vera o no che fosse. Ci aveva mostrato, quando eravamo piccoli, foto di lei da ragazza vestita con tute abnormi, calzari celesti e stretti, diverse paia di guanti indossati come matrioske e maschere di diverso tipo che le ricoprivano il volto. Noi la riconoscevamo solo perché su quelle tute bianche, lei e i suoi colleghi scrivevano i loro nomi. “Elisa” c’era scritto sulla sua.

«Era per riconoscerci» ci spiegava quando le chiedevamo il motivo. «Così bardati non era possibile distinguere il volto di nessuno di noi. All’inizio urlavamo, poi qualcuno ebbe la semplice ma geniale idea di scrivere i nostri nomi sulle tute con dei pennarelli.»

Una piccola skill, fondamentale dal nostro punto di vista, era che mia nonna amava cucinare e leggere. Così, avvicinandosi a casa sua, dopo aver superato il viale che distanziava l’ingresso della strada privata dal portone di casa, si iniziava subito a sentire l’odore di qualche pietanza e ci si aspettava di trovarla seduta accanto ai fornelli con indosso i suoi occhiali rotondi e dorati mentre sprofondava nella lettura di un bel libro.

Unico problema, soprattutto per mio nonno, era affrontare le giornate storte di mia nonna. Come vi ho detto, aveva la capacità di spostare gli equilibri emotivi di ognuno di noi. Gravavano su di lei tutte le nostre aspettative. A volte quella sensazione era percettibile, come fosse uno zaino pesante di cui talvolta si volesse liberare. Come biasimarla dopo tutto quello che aveva passato. Eppure il suo tocco era sempre dolce, il suo sorriso sempre coinvolgente e benefico e la sua voce sempre confortante.

Inutile nascondere che molto spesso si viene condizionati dall’ambiente circostante. A seconda della stagione dell’anno si indossa una coperta per il freddo accompagnata da una tazza di tè caldo, oppure ci si spoglia e si rimane quasi nudi con la pelle appoggiata su una superficie fresca. Ugualmente la nostra mente cerca conforto e si adatta a chi o cosa è vicino a noi.

Così, tramite gli insegnamenti e la guida dei miei nonni sono cresciuto. Nel mio percorso fino a ora, purtroppo, nel momento in cui dovevo compiere delle scelte ha influito una forte emozione: la paura. Questa sensazione mi ha reso meno lucido e mi ha fatto convincere del fatto che non sarei mai stato in grado di camminare con le mie gambe. Mi ripetevo che non ero pronto o che non era il momento giusto per me.

Prendo per esempio un classico Disney: La bella e la bestia. Penso che tutti avranno in mente la scena in cui il padre di Belle, in carrozza, d’improvviso si trova dinanzi a un bivio. Una strada è alberata e rigogliosa, l’altra invece distorta e piena di insidie. Lui, fermo nella sua posizione, decide di prendere la seconda. Persino il suo cavallo, mosso dalla paura, tenta di cambiare percorso. In questa maniera, prendendo quella scelta, dà il via a tutte le vicende che conosciamo bene e che hanno portato poi al lieto fine. Se si fosse fatto fermare dalla paura o dal pregiudizio, non avrebbe sicuramente scelto quella strada, non facendo così mai incontrare i protagonisti e non dando loro la possibilità di spezzare la maledizione lanciata dalla strega all’inizio del film.

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Mi è sempre stato difficile pensare con serenità al detto “il treno passa una sola volta nella vita”. Mi auguro vivamente che non sia così. Spero, al contrario, che ognuno di noi abbia diversi modi e momenti per farsi notare e valere. Mia nonna, parlando della sua vita e delle scelte compiute, diceva di essersi sempre sentita dentro una grande stazione ferroviaria. Come quelle di Milano Centrale o di Roma Termini. Ogni volta ci si fionda su quei tabelloni, tutti illuminati come alberi di Natale, per cercare di scrutare e leggere il binario a cui è associato il numero del nostro treno e non rischiare di perdere le eventuali coincidenze. Una paura che lei aveva spesso quando si muoveva in giro per l’Italia per partecipare ai diversi concorsi da infermiera. Tra voi e quel tabellone passa tantissima gente, qualcuno vi urta, qualcuno vi fa entrare per un attimo nella propria vita, facendovi origliare per sbaglio conversazioni telefoniche private. A volte ci si fa caso, a volte no. Si è sempre concentrati, perché bisogna assolutamente scovare quel codice sul tabellone e correre al prossimo binario. Tutto il resto sembra perdere di valore.

Intravedere quella luce in fondo al famoso tunnel è fondamentale, perché aiuta ad andare avanti in quello che facciamo ogni giorno e a capire quanto ci stiamo avvicinando al punto che vogliamo raggiungere. Mio nonno mi ha insegnato come fronteggiare concretamente alcune situazioni, ma il supporto psicologico mi è sempre stato dato dalla nonna. Mentre parlavo con lei, la vita sembrava prendersi temporaneamente una pausa dal suo continuo inseguirmi e chiedermi qualcosa. Il parere di mia nonna era fondamentale e insostituibile, anche se a volte conoscevo già la risposta o non condividevo il suo pensiero. Per tutti questi motivi è stato difficile far fronte e superare il momento in cui è venuta a mancare.

1. Variazione

Molto spesso capita che la capacità di comprendere un argomento non stia nelle parole di chi spiega ma nelle orecchie di chi ascolta, quindi io cercavo sempre di ascoltare i consigli di mia nonna, cercavo di interiorizzarli adattandoli a quello che era ed è il mio vissuto. Arriva però un punto in cui tutte le proprie certezze iniziano a sgretolarsi, insieme a tutto quello che fino a quel momento sembrava aver avuto un senso.

La cosa brutta di una malattia è che trasforma anche la persona più forte e indipendente di questo mondo in qualcuno di diverso, soprattutto se è un male rimasto per tanto tempo assopito o tenuto sotto controllo. Quel genere di situazione che ti fa pensare che andrà tutto bene e che non c’è niente da temere. Quando poi il conto da pagare arriva, è molto più salato di quello che ci si aspetta.

«Ha preso il fegato» aveva detto il medico quando siamo andati a trovare nonna Elisa in ospedale. «Non c’è molto altro che possiamo fare. Anche le nuove tecniche risultano inefficaci» aveva concluso.

Da quel giorno ho sentito solo il vociare delle persone che venivano a trovarla accompagnati dai pianti e dalle urla dei miei genitori. Era come se avessero preso il mio cuore e lo avessero gettato dentro un tritacarne. Percepivo un voragine nel petto indescrivibile.

Questo stato d’animo fu interrotto solo da una cosa: l’arrivo di mio nonno. Mio padre gli aveva già lentamente anticipato la situazione prima che lui entrasse nella stanza d’ospedale. Silenzioso e integerrimo come sempre, si era avvicinato lentamente al letto, aveva preso una sedia e si era posizionato accanto a mia nonna. Si erano guardati intensamente. Le aveva stretto una mano e si erano scambiati un sorriso. Poco dopo mio nonno si era voltato verso di me sorridendo e dai suoi occhi socchiusi a mezzaluna, lentamente erano scese delle pesantissime lacrime che gli avevano attraversato il ruvido viso. Non riesco a descrivere la sensazione di quel momento. Era stato come se entrambi mi volessero abbracciare e mi stessero dicendo che era tutto a posto. Che non c’era niente di cui preoccuparsi. Però era limpida e tangibile anche la loro di sofferenza, il dolore che dovevano provare. Fisico e psicologico.

Se n’è andata una mattina, all’alba. Silenziosamente, come aveva sempre fatto qualsiasi cosa. Il vuoto che ha lasciato è direttamente proporzionale alle cose che ha fatto in vita. È sorprendente come nel 2068 la funzione funebre sia rimasta pressoché invariata rispetto al passato. Si erano fatti passi da gigante su tanti altri aspetti: auto e mezzi elettrici in ogni città e fonti di energia alternative utilizzate per alimentare intere nazioni.

Certe cose rimanevano però immutate davanti allo scorrere del tempo. Una di queste era proprio la funzione funebre.
In chiesa sono seduto tra le prime file di banchi, insieme agli altri membri della nostra famiglia. Vedo entrare diverse persone, molte delle quali non conosco. Mi vengono incontro per porgermi le condoglianze e per esprimere il loro dispiacere sull’accaduto.

«Una grande perdita» continuano a ripetere.

Certo che lo è! vorrei urlare, ma non posso.

Si alternano diverse persone al microfono durante la funzione. Le vedo come tante scene spezzettate, come atti di un’opera teatrale. Vorrei dire anch’io qualcosa. Spiegare quanto mia nonna fosse stata un’àncora o un faro per tutti noi. Un punto di riferimento su cui contare in ogni istante. Mi sembrano cose talmente scontate da dire nei confronti della grande donna che era stata che decido di rimanere al mio posto. Mi sento totalmente impotente da non riuscire a muovermi, come se i miei piedi fossero inghiottiti da delle invisibili sabbie mobili posizionate sotto il mio banchino all’interno della chiesa. Quanto è difficile venirne fuori.

Una volta terminato il rito funebre, accompagniamo tutti insieme mia nonna per l’ultima volta. Si sente qualcuno che grida e altri invece che piangono. Qualcuno con un fazzoletto in mano annuisce. Come se tutto avesse un senso. Ci muoviamo in gruppo e una volta fuori dalla chiesa, accecati dalla luce del sole pomeridiano, continuiamo a sbandare alla ricerca di un appiglio. Mi sento tanto come uno degli zombie presenti in Alba dei morti viventi, un film un po’ datato che vedeva sempre mio nonno quando ero piccolo.

I giorni passano lenti e a casa non si riesce a sostenere una conversazione per più di qualche minuto. Io riprendo a frequentare le lezioni del mio quinto anno di liceo scientifico. A breve dovrò farmi un’idea su cosa fare per il resto della mia vita. Sembra così assurdo solo pensare a una cosa del genere. Il resto della mia vita è un tempo lunghissimo. Come posso adesso, a diciott’anni, scegliere cosa fare? Questo mondo è colmo di variabili e incognite. Come una di quelle equazioni incomprensibili che ci chiedono di risolvere durante le lezioni di matematica. Proiettano sullo schermo olografico, ormai dall’inizio del terzo anno, equazioni che non hanno apparentemente più senso.

Dove sono finiti i numeri? Vedo solo lettere, penso ogni tanto mentre osservo il mio tablet.

Una serie infinita di scelte e decisioni così difficili da diventare quasi insensate. Al momento non so un granché del mondo lavorativo. Quali sono le opportunità migliori, le ore di lavoro o le paghe. Mi guardo allo specchio e ho paura di non essere abbastanza. Di non riuscire a fare abbastanza. Le aspettative che la gente si fa su di me pesano come un macigno e sento continuamente questa spada di Damocle che incombe sulla mia testa, così cerco di fare del mio meglio per non deludere nessuno. La cosa più importante è che non vorrei rimanere deluso neanch’io. Tutto questo bel pacchetto di emozioni, già da qualche tempo, accompagna le mie giornate. Ho già vagliato diverse opzioni. Potrei seguire la strada di mia nonna e tentare la carriera infermieristica, oppure gestire la pagina social e gli account di qualche compagnia importante o, ancora, uno di quei nuovi consulenti sulla gestione della propria vita personale. Le persone fanno proprio quello che questi coach dicono loro, come fossero automi o marionette. Potrebbe essere una valida idea se non dovesse voler dire tieni, ti do la mia vita, gestisci tutto e non fare casini.

Se mi fermo un attimo a pensare, però, viene fuori il reale desiderio di approfondire i miei studi in campo umanistico. Di scoprire il pensiero e le scritture di chi ha vissuto questo mondo prima di me, di come hanno affrontato le diverse difficoltà che la storia ha messo loro di fronte. I miei genitori purtroppo non sembrano essere molto d’accordo quando gliene parlo. Sembra che io stessi proponendo loro un colpo alla banca centrale o uno sterminio. Non è pratico mi dicono. Come se ci fosse qualcosa a questo mondo che in qualche modo possa esserlo.

Un giovedì pomeriggio torno a casa da scuola. Il clima mite di febbraio mi avvolge, così una volta chiusa la porta, accendo il riscaldamento con il solito comando vocale. Vado in camera e inizio a spogliarmi. Poco dopo si avvicina alla soglia della porta mia madre.

«Stefano» mi sussurra.

«Sì, mamma, dimmi» le rispondo, sempre con tono pacato. Odio l’atteggiamento che sto assumendo in questo periodo, ma non riesco a essere energico e gioioso. Non riesco ad alzarmi dal letto o a sorridere a mia madre.

«Nonna Elisa…» continua lei con voce spezzata dopo aver chiaramente attirato la mia attenzione. «Sembra ti abbia lasciato qualcosa.»

«In che senso?»

2024-07-24

Aggiornamento

📍RAGGIUNTE LE 200 COPIE!📍 Con questo traguardo, "Senza Pensarci Troppo" sarà definitivamente pubblicato dalla casa editrice Bookabook a partire dal prossimo inverno. Ringrazio di cuore chi mi ha aiutato a raggiungere quest'obiettivo pre-ordinando il libro. Verrà recapitato direttamente a casa vostra a partire dai primi mesi dell'anno prossimo. 📖 La campagna di crowdfunding non è ancora terminata. Andrà avanti per altri cinquanta giorni, nei quali sarà ancora possibile pre-ordinare il libro. Duecento volte grazie a chi ha creduto e crede in me. Questa pubblicazione è in qualche modo anche vostra. ❤️ Ci vediamo presto 🍀

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Andrea Defronzo
Andrea Defronzo nasce a Bari nel 1996 e vive a La Spezia. Negli anni ha viaggiato molto per lavoro e per passione, ma è stata la sua esperienza come infermiere a Padova durante il periodo pandemico ad aver profondamente influenzato la sua scrittura, con cui cerca di raccontare la complessità emotiva che si cela dietro la quotidianità.
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