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Il silenzio raggiunse questa tavola

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Dai continui traslochi e il definitivo trasferimento della famiglia a Milano alle difficoltà di crescere una figlia da sola; dal ritrovato rapporto con le sorelle alla nuova e complessa situazione dovuta al Covid-19; dai continui lutti all’attività lavorativa portata avanti con costanza. I ricordi che si affollano nella mente di Alessandra la riportano nei locali di Milano, tra i mille colori di Napoli, nelle sfumature del mare di Ischia e tra i cipressi della Toscana, tracciando un percorso che la incoraggia a lottare contro ogni sfida e a perdonarsi, come un ultimo atto liberatorio.

 

Un soffio di luce è apparso ai miei occhi. La forza.

La forza di andare avanti.

Il silenzio raggiunse questa tavola quando venne presa la decisione più importante di tutte: lasciare la Toscana e venire ad abitare in Lombardia per lavoro. I miei genitori avevano un’attività in proprio di alimentari, frutta e verdura. Mio padre era innamorato della sua terra e, mentre la mamma stava in negozio, lui si occupava delle consegne e degli acquisti. Abitavano a Monte Rotondo Marittimo, un piccolo e grazioso paesino toscano dove tutti si conoscevano e tutti si davano una mano. La crisi, però, arrivò anche lì, parecchie persone andarono via e il lavoro iniziò a mancare, così, attraverso alcune conoscenze su al Nord, presero la decisione di trasferirsi in Lombardia dove vi erano delle possibilità migliori per il futuro.La mia famiglia è di origine Toscana, io non ero ancora nei loro pensieri quando arrivarono in Lombardia ma ricordo, per quel che mi è stato raccontato, che non fu una scelta facile.

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Era il novembre del 1959 quando mio padre partì per primo cercando di trovare la soluzione giusta per la famiglia, poi arrivò la mamma e, attraverso conoscenze, scelsero il luogo giusto per affrontare questo cambiamento. Le mie sorelle rimasero in Toscana dai parenti e la maggiore dovette sobbarcarsi tutte le responsabilità del momento.

Non furono anni facili: la Toscana è una terra calda, piena di gioia, dove la comunicazione interpersonale è di amicizia, di conforto e di aiuto, mentre Milano è una città fredda in cui le persone sono distanti e con abitudini diverse. L’inverno era rigido con temperature molto basse alle quali nessuno di loro era abituato, i grandi nebbioni che non scaldavano il cuore lasciavano spazio a grandi silenzi colmi di pianti e difficoltà interiori. La mamma era una brava sarta, cuciva per le persone che le chiedevano degli abiti, per cui si era fatta una buona clientela, e così piano piano le conoscenze arrivarono.

Mia sorella maggiore, invece, era parrucchiera, ma anche lei trovò lavoro con molta facilità e fece delle belle esperienze in quel campo che adorava. L’altra andava a scuola, ma la sua insoddisfazione e la sua sensazione di inadeguatezza le creavano dei conflitti interiori simili, comunque, a quelli degli altri, viste le nuove difficoltà da affrontare.

Il tempo passava e tra tante cose da fare nacqui io, una piccola bimba molto gracile che portò gioia, ma anche gelosia. Ricordo queste cose perché mi sono state raccontate. Quando nacqui, mio padre corse a casa, era felice, aprì la porta e con euforia disse: «Ragazzi è nata, è una femmina!». Mia sorella maggiore, presa da un attacco di gelosia, fece cadere tutto ciò che aveva in mano e si mise a piangere quando l’altra, che felice faceva i salti di gioia, propose: «La chiamiamo Alessandra», un nome che ricordava alla maggiore l’amore lasciato con dolore in Toscana.

Mio padre mi dette come soprannome “picchirillina”, a lui piaceva dare dei soprannomi a ognuna delle proprie figlie: “puccia”, “occhi neri”, “picchirillina”. Il mio babbo era una persona gioiosa, un uomo alto e ben curato, amava il buon gusto e l’eleganza, il sorriso era sempre impresso sulle sue labbra, affidabile, faceva amicizia con tutti e, anche se c’erano delle difficoltà, il mio arrivo portò una spensieratezza inaspettata.

Ero molto cagionevole e tutto quello che era di primizia lo comprava perché sapeva che mi faceva star bene. A quei tempi alcune cose si trovavano solo in farmacia ma credo che, per quanto possibile, non mi fece mancare nulla. In mia madre, però, quella felicità non c’era, ero la figlia dello sbaglio e incolpava mio padre per le sue fragilità. Quel sentimento lontano, anche crescendo, lo sentivo come un grosso macigno sul cuore.

La nostra vita continuò in Lombardia e mi chiesi spesso perché non pensassero mai di ritornare in Toscana, in quella terra che anche io ho nel cuore, pur non essendoci nata. Ricordo alcuni episodi simpatici che mi raccontarono, come quello di mia sorella che faceva il bucato e lo stendeva fuori la sera, sperando che la mattina trovasse tutto asciutto – era abituata così in Toscana – ma puntualmente, ogni mattina, piangeva disperata perché le calze sembravano dei ghiaccioli e l’intimo degli stuzzicadenti. Un giorno scese di casa con delle scarpine tutte eleganti per andare al lavoro, ma l’impatto quando aprì il portone fu devastante: quella notte nevicò tanto e le sue scarpette non erano per nulla adatte a quel clima. Tra pianti e singhiozzi dovette mettere degli stivaletti da neve e piano piano recarsi al lavoro. Il babbo le spiegava che in Lombardia era diverso e che ci si doveva abituare, ma lei era una testona e, credo, in quei momenti nel suo cuore sentiva di dover scappare in Toscana.

Anche l’altra sorella non si trovava bene a scuola perché era abituata a chiamare nostro padre nel linguaggio familiare toscano “babbo”, mentre le dicevano che “papà” era la parola corretta e questo la metteva in imbarazzo e in grande difficoltà.

Credo che in ognuno di loro ci siano stati silenzi perché nei loro cuori c’era la voglia di scappare, ma la logica li faceva rimanere in Lombardia, dove tutti avrebbero trovato un buon lavoro e, soprattutto, la propria strada.

La domenica il babbo ci portava dappertutto: secondo lui il mondo andava visto e vissuto – anche se era solo la Lombardia –, era felice di portarci in giro e diceva sempre: «Liliana, vesti bene i ragazzi che oggi andiamo a spasso!».

La mamma mi faceva sempre dei bei vestitini perché aveva una grande dote, forse solo quella: le bastava vedere un abito in vetrina, tornare a casa e disegnarlo sul cartamodello per ricrearlo alla perfezione; prendeva spunto da Burda, un giornale di sartoria del tempo, e realizzava tante belle cose anche per le mie sorelle, così, tutti felici, andavamo a “zonzo”, come diciamo noi in Toscana.

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Alessandra Beni
è nata a Legnano nel 1963, vive a Milano ed è amante degli animali e della natura. La lettura ha sempre fatto parte della sua vita, fin da quando era bambina e l’amore per i libri e per la scrittura l’ha portata a coronare un sogno attraverso la pubblicazione del suo primo libro, Il silenzio raggiunse questa tavola.
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