Ponendosi questi interrogativi addentò l’ultima mela rimastagli, mentre tutt’attorno la luce filtrava dai rami degli alberi, creando lunghi fasci di luce che si adagiavano sul terreno, ricoperto in quel punto da aghi di pino e foglie secche. Rimase a fissare quei giochi luminosi, come ipnotizzato, e si incantò per diversi istanti. Girò la testa di scatto: con un gesto istintivo, quasi meccanico, controllò lo zaino, che aveva svuotato con rapidità nel corso di quei giorni. Notò, disprezzandosi, che la scorta di cibo era praticamente finita. Doveva inventarsi qualcosa, e subito. Finì in fretta la mela, si alzò e si stiracchiò. Decise di andare in cerca di qualcosa da mangiare, per non soffrire la fame nelle giornate successive. Vagò per alcune ore e poi tornò al punto di partenza, che ormai conosceva piuttosto bene, con il bottino. Era riuscito a trovare una decina di funghi e un po’ di frutta: more, alcuni mirtilli e una mezza dozzina di prugne, che aveva colto da un pruno selvatico appena fuori dal bosco.
Prese il coltello e fece a fette i funghi. Li tagliò in modo molto sottile e adagiò le varie striscioline su una roccia investita in pieno dalla luce. Speriamo solo che secchino in fretta, pensò, così potrò utilizzarli anche nei prossimi giorni. Si autocondannò per non aver pensato bene a quel genere di problema quando aveva lasciato la città. D’altronde, nello zaino non poteva riporre solo cibarie, ma anche oggetti di prima necessità. Ripensò alla sua fuga, era stato tutto molto veloce e poco premeditato, aveva letteralmente colto l’attimo e proprio in quel momento iniziava a pentirsene. Per quanto tempo riuscirò a resistere? Un brivido freddo gli fece gelare il sangue all’idea di morire, solo, in quel posto sperduto, dimenticato da tutti.
No, sopravviverò. Aveva bisogno di aspirare boccate di libertà e non di esalare i suoi ultimi respiri consegnandosi nelle fredde braccia della morte. Non sarebbe morto, avrebbe lottato fino all’ultimo. Sei giorni prima si trovava a casa e ora, come per incanto, si svegliava ogni mattina nella radura che aveva scelto dopo una lunga ricerca. Giunse alla conclusione che si sentiva meglio in quel luogo piuttosto che al suo domicilio. «Com’è strana la vita…» mormorò sottovoce, quasi non volesse farsi sentire da qualcuno, anche se intorno a lui percepiva un silenzio irreale. La sua fuga non era stata molto organizzata, ma era certo che almeno quella fosse andata per il verso giusto. George, così lo avevano soprannominato i compagni e gli amici, aveva agito di notte, con il favore del buio. Mentre i suoi genitori dormivano, aveva finalmente deciso e si era preparato lo zaino in fretta e furia. Non ne poteva più di trattenere a stento i singhiozzi.
Attento a non far rumore, era uscito e aveva raggiunto il garage per recuperare alcune cose che gli sarebbero certamente servite. Corde, cordini, un’amaca a rete, vecchi giornali. Al resto aveva già pensato di sopra. Aveva preso un sacco a pelo, qualche maglietta, una felpa, una giacca a vento, un po’ di biancheria, le sue infradito nere, un piccolo ombrello, una torcia, dei fiammiferi e quattro accendini che aveva sottratto ai suoi amici nei giorni precedenti. Poi aveva rovistato in cucina, si era procurato un coltellino svizzero, tutte le scatolette che aveva trovato nella dispensa, una barretta di cioccolato, qualche mela, dei pistacchi e tre pezzi di sapone. Infine aveva raccattato qualche libro dal divano del salotto, aveva riempito due borracce d’acqua e, dopo aver infilato tutto nello zaino, era uscito di casa. Aveva chiuso il garage mentre reggeva la sua bicicletta e, prima di avviarsi, aveva gettato le chiavi in giardino, di modo che i suoi genitori potessero poi recuperarle. Aveva lasciato il cellulare e il portafoglio con i documenti sul comodino. Era certo che l’indomani in quella casa si sarebbe scatenato un putiferio.
Aveva pedalato a più non posso, fino a non sentire più le gambe, fino a udire soltanto il suono del suo respiro e il battito ritmato del suo cuore. Aveva percorso molti chilometri, era giunto alla periferia della città quando l’alba aveva iniziato a spuntare. Era tutto sudato per lo sforzo, nonostante una leggera brezza mattutina gli carezzasse il viso e il resto del corpo. I raggi del sole lo avevano investito in pieno e lui aveva socchiuso le palpebre a causa della forte luce. Stremato, era arrivato a una fermata dell’autobus e subito aveva controllato destinazioni e orari. Bene, aveva pensato, questo pullman porta lontano da qui e passa tra pochi minuti. Aveva legato la bicicletta al palo della pensilina e, poco dopo, in perfetto orario, era giunto l’autobus. Si era tolto lo zaino dalle spalle e aveva preso posto. Aveva ancora in tasca un biglietto di qualche giorno prima e, quasi senza riflettere, lo timbrò e si risedette. Il viaggio proseguì senza alcun intoppo, a parte i brontolii dei vecchi seduti qualche posto davanti a lui. Iniziò a salirgli l’adrenalina. In fondo si stava recando in un luogo a caso, senza sapere nulla. E forse era proprio questo che andava cercando, il piacere del nuovo, della scoperta.
Dopo un’ora e mezza il pullman era arrivato al capolinea e George era sceso velocemente, ringraziando il conducente con un sorriso beffardo. L’ultima fermata del mezzo pubblico si trovava in una cittadina di montagna e lui ne aveva approfittato per chiedere indicazioni. Si era rivolto a un vecchio con la barba folta e lo spirito da vero montanaro, che, parlandogli solamente in dialetto, gli aveva fatto notare l’inizio di tutti i sentieri che conosceva, informandolo sulle località a cui essi conducevano e ammonendolo riguardo i potenziali rischi e pericoli. Il ragazzo aveva imboccato il sentiero più ripido e aveva camminato per diverse ore. All’improvviso aveva guardato in alto e, distaccandosi dal percorso illustratogli dal vecchio, si era gettato in una folle corsa in salita. Era entrato nel bosco e infine eccolo lì, a rimuginare sul suo recente passato.
Si alzò con calma dal sasso sul quale si era accomodato pochi minuti prima e prese a camminare nel sottobosco, immerso nei suoi pensieri.
Hugo Foskolo
Piatto e banale