Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Il soldato del monte Penna

Svuota
Quantità

La guerra ti cambia, ti spoglia della tua identità e ti fa dimenticare il tuo lato umano. Carlo lo ha compreso subito, non appena ha messo piede in Albania. Lì nelle trincee il futuro sembra lontano, come lontane sono le verdi colline umbre da cui proviene.

Carlo non ha scampo contro la ferocia e la violenza che lo circonda, eppure in lui resta sempre viva la speranza, una speranza che lo porterà ad affrontare le battaglie a testa alta e che, al momento opportuno, lo spingerà a trovare la forza per ritornare a casa, affrontando un viaggio lungo e difficile in cerca della salvezza.

1. DESTINAZIONE INFERNO 

Stazione di Perugia, 15 febbraio 1941. Ore 08:30. 

Il sole splendeva alto nel cielo in quel maledetto giorno di metà febbraio, mentre un leggero vento freddo pungeva la pelle di quelle povere anime. 

Alla stazione di Perugia, centinaia di soldati stavano aspettando il proprio treno, consapevoli che il biglietto del ritorno non era compreso nel prezzo. Se ne stavano lì, in attesa del proprio destino, come bestie prima di andare al macello, pronti a donare le proprie carcasse per la gloria di un Paese dittatore. Nei loro volti e nei loro sguardi si riusciva solo a intravedere un grande vuoto, quello di chi è consapevole di essere prossimo alla morte. Nessuno tra i presenti era abbastanza ingenuo da sperare nel ritorno. In quella stazione, che fino a un giorno prima era stata un grande e confusionario crocevia, ora regnava un rigoroso e profondo silenzio: nessuno osava dire niente, o forse nessuno aveva più niente da dire. 

Continua a leggere
Continua a leggere

All’interno, seduto su una vecchia panchina, sedeva un ragazzo, solo e distante dal resto dei soldati. Aveva vent’anni, sfiorava il metro e settanta di altezza, pesava sì e no sessanta chili e aveva gli occhi e i capelli scuri come la pece. Il suo nome era Carlo, un giovane contadino proveniente da un modesto paese sperduto tra le verdi colline umbre, che portava il nome di Montemelino, e affonda le sue radici tra le pendici del monte Penna e le sponde del torrente Caina, un piccolo corso d’acqua che prende vita dal lago Trasimeno. Anche lui, come gli altri, stava aspettando il proprio treno, che in una decina di ore lo avrebbe condotto alla vecchia stazione di Bari; da lì, si sarebbe poi diretto al porto, dove una nave militare era stata incaricata di condurre tutti i soldati a Durazzo, in Albania, per combattere una feroce guerra contro l’esercito greco e i partigiani jugoslavi. In quelle terre, si vociferava che il sangue scorresse a fiumi, e ogni giorno si potevano contare decine di morti, sia da una parte che dall’altra. Poco più di un giorno e anche Carlo sarebbe stato testimone della brutalità della guerra, indipendentemente dall’esito finale.  

Era passata più o meno un’ora dal suo arrivo in stazione, quando un soldato, toccandogli la spalla destra, richiamò la sua attenzione. 

«Buongiorno, soldato, si identifichi!» 

Carlo, preso alla sprovvista, non alzò nemmeno lo sguardo, ma farfugliò velocemente il proprio nome, rimanendo seduto. «Bibi Carlo… signore.» 

Il soldato, seccato per il suo approccio, lo fulminò: «Non le hanno insegnato a salutare come si deve un suo superiore, signor Bibi?».  

Perplesso, Carlo alzò lo sguardo. Dinanzi a lui, con il fuoco negli occhi e un registro fra le mani, se ne stava rigido in piedi un vecchio soldato dall’aria severa. Due grandi baffi nascondevano un naso di notevoli dimensioni, mentre il suo sguardo non lasciava trapelare alcun tipo di emozione. Alto e snello, portava addosso con orgoglio la spilla di sergente, lucida e brillante sotto i raggi di quel sole invernale.  

Carlo, consapevole dell’errore appena commesso, si alzò in piedi velocemente e si affrettò a salutare nel modo corretto, con la schiena ben eretta e la mano tesa sotto il cappello. «Buongiorno, signor sergente! La prego di scusarmi per la mia mancanza di rispetto nei suoi confronti,» disse e poi, cercando di rimediare, aggiunse «le prometto che non succederà più! Non mi farò cogliere impreparato, ha la mia parola!» 

Il sergente scosse il capo e lo liquidò con una rapida occhiata, per poi mettersi a controllare il registro che teneva tra le mani, precisando, senza mai alzare lo sguardo dal foglio, il motivo del controllo: «Dato che molti soldati hanno cercato invano di fare i furbi, gettandosi dai treni in corsa nel momento in cui rallentavano nei pressi delle stazioni, da una settimana a questa parte abbiamo iniziato una serie di controlli sia alla partenza che all’arrivo, così da capire fin da subito l’identità dei latitanti. Mi auguro che lei non decida di imitare il loro esempio».  

Non appena ebbe finito di parlare, rialzò lo sguardo, fissando Carlo negli occhi: «Per caso è a conoscenza della punizione riservata a questo genere di feccia umana, signor Bibi?».  

Carlo fece cenno di no con la testa. «Non ne ho idea, signore.»  

Il sergente, lentamente, avvicinò le labbra all’orecchio destro di Carlo, sorridendo, come se il suo cuore fosse fatto di ghiaccio: «Una pallottola in testa, signor Bibi… una semplice ed efficace pallottola in testa».  

Carlo rabbrividì, deglutendo un boccone amaro. Il sergente, a quel punto, fece due passi indietro, mantenendo il suo ghigno beffardo e gli occhi puntati su di lui. «Arrivederci, signor Bibi… a lei la scelta!» Detto questo, si voltò di scatto e si incamminò verso un gruppo di soldati poco più avanti.  

Carlo rimase immobile per qualche secondo, ancora scioccato dalle affermazioni fatte dal sergente. Poi, con la sua solita calma, raccolse la valigia e si incamminò verso il binario numero due, dato che mancavano solo una decina di minuti all’arrivo del treno. Scese velocemente il sottopassaggio che divideva i due binari, per poi mettersi di nuovo seduto sulla prima panchina vuota. Il tempo intorno a lui sembrava essersi fermato, come se la rigorosa logica che lo muoveva in un istante avesse perso ogni suo fondamento. In tutta la sua vita non aveva mai provato una simile sensazione. Iniziò a contemplare il cielo, chiedendosi per quante altre volte gli sarebbe capitato di farlo. Provò una strana pace e, per un istante, dimenticò cosa lo attendeva. Respirò a fondo, cercando di distinguere i vari profumi che si sprigionavano intorno a lui. Tra un paio di giorni, ci sarà solo l’odore della polvere da sparo e del fango delle trincee; ora, però, Carlo poteva distinguere ancora i profumi portati dal vento, tra i quali spiccava l’odore forte del tabacco, che in molti in quel momento stavano consumando, sperando invano di alleviare le ansie. Fu bello, ma durò poco. In lontananza, infatti, si udì il fischio di un treno che si stava dirigendo verso la stazione, pronto a strappargli l’ultimo brandello di libertà che gli rimaneva. Carlo lo guardò avvicinarsi lentamente, fino a quando gli si fermò davanti, spalancando le sue porte per far entrare quei poveri diavoli. Si alzò senza fretta e salì quasi per ultimo. Perlustrò i vagoni in cerca di un posto libero, ma non ne trovò nemmeno uno: c’erano solo tre vetture, insufficienti a garantire un posto a sedere per tutti i soldati. Decise quindi di fermarsi sullo spazio destinato alla salita e alla discesa dei passeggeri. Gettò la sua valigia a terra e vi si sedette sopra; appoggiò poi la schiena alla parete, cercando la posizione più comoda. Appena la trovò, stese le gambe e abbassò il cappello, così da coprire gli occhi, nella speranza di recuperare qualche ora di sonno. Non era come starsene seduti su un sedile, ma era sicuramente meglio che starsene in piedi per tutto il viaggio. 

Proprio in quel momento, il treno iniziò a muovere i suoi primi passi verso la morte. Dai finestrini, centinaia di fazzoletti sventolarono all’unisono in segno di saluto, nello stesso modo in cui sventolava il tricolore in mano al vento. Cento metri e tutto ritornò tranquillo, silenzioso e mite, proprio come il clima che c’era prima in stazione. Si udiva solo in sottofondo il rumore delle rotaie e qualche fischio prodotto dal treno di tanto in tanto. 

Passò un’ora, eppure a Carlo non sembrava più possibile neanche dormire. Quel silenzio avrebbe dovuto farlo crollare in pochi minuti, invece gli stava solo facendo riaffiorare troppi ricordi nella mente, oramai sempre più fragile. Finì per perdersi nel suo stesso passato, riportando alla luce le persone e i luoghi che fino a ieri arricchivano il suo mondo. Pensò subito a sua madre, quando da bambino, affacciandosi la sera dalla finestra, la vedeva china, sotto un cielo color porpora, mentre era intenta a raccogliere l’erba per i conigli del conte. Lei si girava, nascondendo con un sorriso il suo volto stanco. Carlo era la sua ancora, il suo unico motivo per arrivare fino in fondo a ogni benedetto giorno. Andarsene di casa quella mattina era stato straziante per entrambi, anche se nessuno dei due lo aveva fatto notare all’altro.  

Suo padre era morto di polmonite molti anni prima, quando Carlo era ancora un neonato; di lui non aveva nessun ricordo. L’unica consolazione stava nel fatto che la sua famiglia era composta da venticinque persone, e questo lo rassicurava molto, perché aveva la certezza che sua madre non si sarebbe mai trovata sola nel dover affrontare un’eventuale perdita.  

Durante quel viaggio, la nostalgia e la rabbia fecero accelerare la percezione che Carlo aveva del tempo: un paio d’ore e della verde Umbria non c’era più traccia da un pezzo. Ogni tanto, il fischio del treno faceva ritornare alla realtà la mente di Carlo, avvisandolo che si trovavano nei pressi di una nuova stazione. Arrivarono le cinque e, come di consueto a quell’ora, anche il sole dette il suo addio, nascondendosi dietro le colline che si innalzavano nel Gargano. Con l’arrivo del buio, aumentò anche il senso di angoscia dei soldati; un paio d’ore, e si potrà dire conclusa la prima parte del viaggio.  

Arrivarono le sette, e il treno, con insolita puntualità, iniziò a rallentare. Sullo sfondo, un mare calmo e gelido dava il suo benvenuto ai soldati, mentre le prime stelle iniziarono a dare spettacolo, splendendo come non mai su un cielo scuro e privo di nuvole. Le anime dei soldati erano già piatte, proprio come il mare che si dilungava davanti ai loro occhi, sfinite da un viaggio che finalmente volgeva al termine. Carlo si strofinò gli occhi, pur non avendo dormito per niente, sbadigliò, stirò i muscoli indolenziti e si alzò in piedi. Diede un ultimo sguardo fuori dal finestrino: il mare aveva lasciato spazio a delle vecchie case di città dall’aspetto squallido e poco curato. Dai vagoni, nel frattempo, iniziarono a uscire i primi soldati. Carlo li osservò con cura, senza farsi notare. Notò subito il loro aspetto trasandato, come se, in appena una decina di ore, avessero già perso la cura di sé. Il loro sguardo era spento e privo di qualunque passione umana. Guardandoli, credette di vedere in essi la propria immagine riflessa, non più brillante e piena di vita, bensì fioca, a un passo dallo spegnimento. 

Un altro paio di minuti e il treno si fermò. La tensione si poteva tagliare con il coltello: faceva molto freddo, eppure tutti sudavano. Infine le porte si aprirono, facendo entrare un vento gelido e pungente. Tutti scesero, in fila, rispettando il silenzio che avevano tenuto fino ad allora. Davanti a loro, in riga lungo la banchina, se ne stavano immobili una decina di soldati.  

Come tutti furono scesi, un giovane sergente maggiore fece un passo in avanti e prese la parola: «Soldati del 130° reggimento fanteria Perugia, benvenuti! Ora dovrete formare due file, in modo tale da poter eseguire un veloce controllo dei vostri dati, così da constatare se qualcuno dei vostri compagni ha deciso di scavarsi la fossa da solo». Poi, dopo essersi preso una pausa per riprendere fiato, aggiunse: «Non appena il controllo sarà terminato, verrete caricati su dei camion militari e trasferiti al porto, dove troverete una nave pronta a farvi salire a bordo. Lì, potrete mangiare un pasto caldo e dormire qualche ora. La partenza è prevista per mezzanotte. La mattina, quando vi sveglierete, ci troveremo già a Durazzo. Dopo la colazione, il generale Luciani sarà lieto di illustrarvi il da farsi». Detto questo, se ne andò, lasciando agli altri soldati il compito di controllare i documenti. Carlo si mise in fila. Tutto doveva procedere molto velocemente e senza intoppi.  

La procedura era molto semplice: il soldato dichiarava le proprie generalità, mostrando il documento, e colui che era incaricato al controllo doveva semplicemente spuntare il nome di quest’ultimo, scritto sullo stesso registro che aveva in mano il sergente alla stazione di Perugia. 

Carlo si era precipitato tra i primi venti, certo che questo non lo avrebbe fatto restare troppo a lungo in piedi ad aspettare. In pochi minuti, difatti, arrivò il suo turno. Diede il suo nome al soldato, che lo sottolineò, annotando la presenza. Fatto ciò, a Carlo fu indicata l’uscita dalla stazione, con l’ordine di salire sul primo furgone che risultasse vuoto. 

Appena uscito, fu sorpreso nel vedere un tale numero di soldati predisposti al controllo. Si guardò intorno spaesato, cercando di capire su quale furgone salire.  

«Ehi, ragazzo… dico a te! Vieni da questa parte!» 

Carlo si voltò di scatto, notando un soldato dai folti baffi che lo invitava a salire su un furgone poco più avanti.  

«Arrivo!» replicò Carlo. Detto questo, con passo veloce si diresse verso il furgone, che era parcheggiato in fondo alla fila, ed era, rispetto al resto, decisamente più piccolo. Appena arrivato, il soldato, senza perdere tempo, lo invitò a muoversi: «Forza sbrigati, non abbiamo molto tempo!».  

Carlo salì, mentre il soldato continuava a urlare ordini ai nuovi arrivati, facendoli salire negli altri furgoni. Si mise seduto, appoggiando la valigia sotto i piedi, dato lo spazio ridotto che offriva il mezzo. Nel furgone c’erano altri tre ragazzi, tutti molto giovani, probabilmente anche loro sulla ventina. Uno di loro, l’unico dei tre che sedeva davanti a Carlo, allungò la sua mano, presentandosi con entusiasmo: «Piacere, io sono Aldo!». Carlo, con educazione, sforzandosi nel fare un sorriso, si presentò a sua volta: «Piacere, Carlo». 

Aldo strinse con forza la mano di Carlo, poi presentò gli altri due soldati: «Il ragazzo vicino a te si chiama Daniele, mentre quello al suo fianco è Mattia». Entrambi strinsero la mano a Carlo, ricambiando il saluto. Dopo le presentazioni tornò il silenzio, così che Carlo ne approfittò per osservare bene i tre ragazzi, come a voler esaminare l’apparenza che trapelava dalle loro espressioni.  

Aldo sembrava il più grande e aveva dei folti capelli biondi e ricci. Di lui si poteva notare fin da subito l’allegria che lo caratterizzava, tanto da farlo apparire come un tipo spensierato, dalla grande parlantina. Era alto e snello, con un perfetto naso alla francese. Portava tra le labbra uno stuzzicadenti, come probabile alternativa alla più comune sigaretta.  

Daniele era l’opposto: basso e robusto. Bastava fissare il suo viso rotondo per provare una profonda simpatia verso la sua persona. Mattia, invece, era un ragazzo alto intorno al metro e settantacinque, leggermente robusto. Era l’unico dei tre a essere calvo e portava una folta barba scura. Aveva uno sguardo serio, tipico di chi non vuole far trapelare le proprie debolezze. Quello che subito gli apparì ben chiaro era il fatto che, dei tre, lui era indubbiamente il più agitato. Non riusciva a starsene un attimo fermo; con il piede, picchiettava freneticamente contro il pavimento, mentre borbottava nervoso.  

Il silenzio si fece imbarazzante, tanto che Aldo decise di porre fine a quella situazione: «Da quale parte di Perugia vieni, Carlo? Non ti ho mai visto nelle nostre zone».  

Non fece in tempo a terminare la frase che Mattia lo interruppe, impedendo a Carlo di rispondere. «Ti pare il momento di fare certi discorsi? Possibile non ti renda conto della situazione in cui ci troviamo?»  

Aldo fece per rispondere, ma venne a sua volta bloccato da Carlo, il quale, con un semplice cenno della mano, mise fine alla discussione, placando i bollenti spiriti. 

«Non c’è problema, Mattia, sicuramente parlare ci farà dimenticare il casino in cui ci troviamo» disse, fissandolo negli occhi e sorridendogli. 

Sentendo quelle parole, sbuffando, Mattia si ricompose e tornò a fissare il pavimento, proprio come aveva fatto fino a quel momento. 

«Vengo da Montemelino, un piccolo paese tra il lago Trasimeno e Perugia» disse Carlo. 

«Quindi vieni dalla campagna? Provo quasi invidia per voi contadini. Godete di una pace e una tranquillità che noi in città neanche di notte ci possiamo permettere» sospirò Aldo, alzando gli occhi al soffitto, come se fosse possibile attraversarlo con lo sguardo. Carlo annuì, dandogli ragione.  

«Con uno come te neanche in campagna avrebbero pace, saresti capace di infastidire anche le piante!» replicò Daniele, riuscendo a strappare un sorriso a tutti i presenti. 

«Saresti una bella rottura anche là, concordo in pieno! Non riesci proprio a tapparti la bocca!» aggiunse Mattia, che sembrava aver ritrovato improvvisamente il buon umore.  

«Allora non hai perso la lingua! Peccato per i tuoi capelli! Per quelli ci vorrebbe un miracolo!» rispose Aldo scocciato, mostrando il dito medio con la mano sinistra, mentre con la destra era preso a strofinarsi i propri capelli, sottolineando la calvizie precoce del suo amico. I tre scoppiarono a ridere, coinvolgendo in quel momento di spensieratezza anche Carlo, che per un attimo era rimasto attonito e incredulo a guardare.  

«Voi siete tutti matti!» concluse Carlo, asciugandosi le lacrime dopo la grossa risata che si erano fatti. 

«Benvenuto all’inferno, allora!» intonarono tutti e tre, dopo avergli dato una pacca a testa sulla spalla.  

Proprio in quel momento, il soldato predisposto allo smistamento salì nel furgone sbattendo la porta. Era scuro in volto, in piena crisi di nervi. «Credete di essere a una festa in maschera o cosa? Vi sembra il modo di comportarvi?» disse, poi, con il sangue che gli usciva dagli occhi,  aggiunse: «Qui si va a morire!». 

I quattro, consapevoli di aver esagerato, si scusarono velocemente, per poi tornarsene ognuno a pensare ai fatti propri. Il soldato scosse il capo, come a voler sottolineare la stupidità del loro atteggiamento. Poi, scansando in malo modo i presenti, si avvicinò alla parete che divideva i passeggeri dal guidatore, e bussò con forza sul metallo, dando così il segnale di via per la partenza. Per la gioia di tutti, nel loro furgone erano rimasti tre posti vuoti, il che garantiva qualche centimetro in più per ognuno. Probabilmente quel soldato aveva scelto deliberatamente di lasciare dello spazio libero, così da stare più comodo durante il viaggio. Il furgone si accese, facendo uscire una nuvola di fumo nero dal tubo di scappamento. Si iniziò a muovere insieme agli altri mezzi, chiudendo la fila in ultima posizione. Passarono tra le strade di Bari, diretti al porto. Il furgone si muoveva con calma, seguendo il convoglio davanti a lui. Dopo un quarto d’ora di marcia, il mezzo si fermò di colpo. L’autista scese al volo e si precipitò ad aprire la porta con un gran frastuono; fu talmente veloce nell’eseguire quell’operazione che i quattro ragazzi rimasero impietriti per lo spavento. La quiete, a cui si erano inesorabilmente abituati, cessò di colpo. 

«Forza, ragazzi, veloci! Non c’è tempo da perdere! Muoversi!» urlò il soldato che si trovava con loro nel furgone.  

I ragazzi scattarono in piedi, afferrando la valigia con quel poco che conteneva, e scesero a tutta velocità dal mezzo. Si ritrovarono di nuovo tutti in fila, nell’oscurità della notte. Davanti a loro, immobile, si innalzava scura la sagoma di una grande nave militare. Da essa iniziarono a scendere altri soldati. Uno di loro gridò a squarciagola l’ordine di salire, mentre gli altri si appostarono alle spalle dei nuovi arrivati, pronti ad assicurarsi che nessuno decidesse di tirarsi indietro all’ultimo momento.  

Salirono velocemente sulla nave, tutti con lo stesso nodo alla gola e le stesse farfalle nello stomaco. Entrarono e seguirono i soldati che li precedevano lungo il corridoio che dall’ingresso portava al dormitorio. Posarono le valigie, accaparrandosi il primo letto vuoto. Le camere erano piccole stanze composte da quattro letti, il che giocava tutto a loro vantaggio. Si tolsero velocemente i giubbotti di dosso, per poi correre verso la sala mensa, spinti da una fame sempre crescente. Percorsero un paio di corridoi, fino ad arrivare a una scalinata dove un cartello con su scritto “Mensa” indicava che bisognava scendere al piano inferiore per raggiungerla. Scesero le scale, mentre l’odore del brodo caldo invadeva le loro narici, facendogli venire l’acquolina in bocca. Aumentarono il passo, ignorando la fatica del viaggio. Percorsero l’ultimo corridoio, fino a trovarsi di fronte alla loro destinazione. Erano oramai le nove di sera quando si sedettero a tavola, pronti a consumare la loro ultima cena. Carlo si guardò intorno, orgoglioso di essere uno dei primi a essere arrivato lì. Ci vollero una decina di minuti prima che la sala mensa fosse piena, anche se, dopo più di mezz’ora, del rancio non c’era ancora l’ombra. Daniele, che nel frattempo si era seduto al suo fianco, manifestava il suo disappunto per l’attesa, lamentandosi di continuo, inveendo anche svariate volte contro il creatore. Davanti a loro, Mattia e Aldo se ne stavano in silenzio, visibilmente provati per la fatica del viaggio. Finalmente, dopo una quarantina di minuti, videro sbucare dalla cucina un enorme pentolone fumante.  

Un sergente ordinò di mettersi in fila, in silenzio. Nessuno provò a scattare per accaparrarsi i primi posti, probabilmente per paura che come punizione gli venisse tolto l’unico pasto della giornata. 

La fila scorreva velocemente, interrotta solo dal cambio del pentolone quando il primo fu svuotato. Arrivò il loro turno: il soldato predisposto alla divisione del rancio diede un mestolo per ciascuno della tanto attesa minestra in brodo. Tornarono seduti al tavolo, fissando con aria perplessa quella che sembrava solo acqua sporca con all’interno qualche verdura e qualche chicco di minestra. L’odore era disgustoso, decisamente peggiore dell’aspetto. Si voltarono, sperando di vedere qualche impavido versarsi nello stomaco quella roba. Nessuno aveva ancora avuto il coraggio di assaggiarla. Qualche tavolo più avanti, isolati dal resto dei soldati, sedevano i sergenti e i tenenti, intenti a mangiare una minestra dall’aspetto decisamente diverso. Ora era chiaro: il profumo che avevano sentito lungo le scale altro non era che la minestra per coloro a cui lo Stato riservava ancora un minimo di dignità. Lo stesso Daniele sembrava aver perso l’appetito, mentre guardava con orrore quello strano liquido. Teneva in mano il cucchiaio, indeciso sul da farsi. I quattro si fissarono, aspettando ciascuno che fosse l’altro a fare la prima mossa, fino a quando Aldo, sorridendo con ironia mentre fissava quella brodaglia, ne prese una bella cucchiaiata, ingoiandola a occhi chiusi. 

Riaprì gli occhi, cercando di non apparire disgustato. «Ragazzi, ho come l’impressione che mangeremo molta merda da qui alla fine della guerra!» 

Si trattennero dallo scoppiare dal ridere per il nervoso, rassegnati a dover mangiare una volta per tutte quella schifezza. 

«Alla salute!» disse Daniele, mandando giù il primo cucchiaio di minestra. Non appena lo ebbe ingoiato non perse tempo, ma iniziò a mangiare senza pensarci, così da finire il pasto il prima possibile. Gli altri tre, dopo aver abbandonato le prime titubanze, seguirono il suo esempio, consapevoli di dover mettere in corpo un po’ di energie. Fu davvero disgustoso, tanto che fecero davvero fatica a finirla tutta. Si asciugarono le labbra con il tovagliolo e bevvero un paio di bicchieri d’acqua a testa, nel tentativo di eliminare quel terribile sapore.  

«Me ne vado a letto… ne ho abbastanza di tutto questo!» borbottò Mattia, sbattendo il pugno sul tavolo prima di alzarsi.  

«Credo sia l’unica cosa sensata da fare adesso. Se provano a darmi un’altra porzione di quella robaccia giuro che gliela vomito sul pavimento!» disse Aldo, arrabbiato come non mai, mentre riaccostava la sedia alla tavola dopo essersi messo in piedi.  

Sentendo quelle parole, Carlo si avvicinò ai due, e appoggiò una mano sulla spalla di entrambi. «Capisco la vostra delusione, perché la sto provando anch’io… però d’ora in poi non possiamo più permettere alla rabbia di prendere il sopravvento, altrimenti non saremo lucidi abbastanza per affrontare quello che ci aspetta a Durazzo!» 

Il suo sguardo era serio, intriso di rabbia e delusione verso la sua stessa terra. Si sentiva tradito, anche se, dentro di lui, c’era la consapevolezza che, per sopravvivere, era necessario non perdere al testa, neanche di fronte a un’umiliazione.  

«Hai ragione, Carlo, l’unica cosa che conta ora è sopravvivere a questa dannata guerra» disse Aldo, dopo aver fatto un respiro profondo. 

«Ce la faremo, ne sono certo!» disse Mattia. 

«Ce la faremo insieme!» aggiunse Daniele dopo essersi alzato in piedi a sua volta. 

I quattro si scambiarono uno sguardo di intesa, pronti più che mai ad aiutarsi a vicenda.  

«Ognuno di noi deve essere un sostegno per l’altro. Torneremo a casa e festeggeremo! Berremo del buon vino, cantando le canzoni della tradizione perugina fino a che il sole non ci dirà che si sta facendo giorno!» concluse Aldo, mentre si incamminava verso l’uscita della mensa.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

Ancora non ci sono recensioni.

Recensisci per primo “Il soldato del monte Penna”

Condividi
Tweet
WhatsApp
Riccardo Finocchi
Sono nato il 3 giugno del 1992 a Perugia. Da sempre vivo nei luoghi citati nel mio stesso libro. Mi basta aprire la finestra per vedere il Monte Penna, cosi come Montemelino estendersi sulle sue pendici. Di professione faccio il cuoco, ho due figli e sono sposato da sei anni. Tra i miei autori preferiti c’è senza ombra di dubbio Primo Levi, con “Se questo è un uomo”. Il suo libro è per me un capolavoro, un testo che chiunque dovrebbe leggere, almeno una volta nella vita.
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors