Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors

Solitudini

Svuota
Quantità

La solitudine non risparmia nessuno. Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, avrà fatto i conti con quel senso di vuoto che siamo abituati ad associare a qualcosa che travolge e stravolge, ma siamo sicuri che sia solo così? 

I protagonisti di Solitudini non scappano dalla solitudine. Alcuni la bramano, altri la custodiscono come ciò che di più prezioso hanno, altri ancora la subiscono passivamente come una redenzione. Non resta che chiederci: l’esclusione è bramosia o dolore? 

Questi tredici racconti hanno un solo filo conduttore, l’essere soli, mostrando la doppia faccia di un sentimento universale, attraverso storie semplici e crude nelle quali ognuno di noi può ritrovare se stesso. 

IL CALORE DI UNA MANO

(La solitudine che verrà)

 

La prima volta me ne accorsi al supermercato. Eravamo in fila alla cassa automatica e un ragazzino, senza volerlo, le urtò lievemente un fianco. Marta ebbe un sussulto e una smorfia si disegnò sul suo viso. Mi parve una reazione esagerata, ma non dissi nulla. Quella mattina avevamo avuto una piccola discussione per una cosa senza importanza, non volevo darle modo di rispondermi in modo sgarbato.

Da un po’ di tempo avevo notato in lei un nervosismo crescente. Eravamo sposati da dieci anni, dopo un fidanzamento cominciato tra i banchi di scuola. Posso dire che eravamo proprio una bella coppia: interessi comuni, pochi amici fidati, tanta voglia di viaggiare. Stare insieme ci faceva sentire completi, non saprei come spiegarlo meglio. Parlavamo molto, era stato sempre così. Condividevamo tutto, gioie e paure. La curiosità dell’altro ci accompagnava nello scorrere dei giorni. Eravamo felici, semplicemente.

Quante volte mi svegliavo la notte e nella penombra la guardavo dormire. Quel suo respiro regolare mi restituiva la pace che perdevo di giorno in ufficio, prigioniero di un mestiere che non amavo. Due anni prima ci dissero che non avremmo mai potuto avere dei figli. Eravamo stati bravi a superare lo shock e a trasformare l’inevitabile delusione in un momento di crescita. Ne uscimmo più forti e uniti.

Continua a leggere

Frequentavamo spesso il centro commerciale. Il sabato mattina era una tappa fissa, colazione al bar e scorta settimanale al Carrefour.

Arrivati a casa e svuotate le borse della spesa mi avvicinai alle spalle e la abbracciai. Le diedi un bacio sul collo e, indugiando con le labbra, sentii i suoi battiti decelerare. La conoscevo bene, si stava rilassando, le chiesi se ci fosse qualcosa che la preoccupasse.

«No, direi di no. Perché me lo chiedi?» rispose piegando leggermente la testa in quel gesto che adoravo.

«Non lo so, è che ti vedo un po’ nervosa, non hai il solito sguardo sereno» aggiunsi cercando di mascherare la preoccupazione.

Le strinsi la mano, la sua era calda e la mia fredda, da quando la conoscevo era sempre stato così. Lasciai perdere anche se non ero del tutto convinto.

Pochi giorni dopo, il problema si ripresentò. Stavamo andando al matrimonio di Luisa, la sorella minore di Marta. 

Ci eravamo alzati presto quella mattina, gli sposi avevano pensato bene di convolare a nozze in un borgo medievale, molto bello e suggestivo in verità, ma scomodissimo da raggiungere, in collina, con un ultimo tratto di strada stretta e piena di tornanti. Almeno due ore di macchina, una vera tortura per me che non amo guidare. 

Partimmo con largo anticipo, così da poter avere il tempo di fare qualche breve sosta lungo il tragitto. Contravvenendo alle ferree regole imposte dalla tradizione, gli sposi avevano deciso di arrivare insieme, con lui al volante, senza autista e senza padre che accompagna la sposa. Diedero appuntamento agli invitati direttamente nel sagrato della basilica. La scelta di contrarre un matrimonio religioso fu l’unica concessione fatta alla famiglia.

Dapprima andò tutto bene, Marta era tesa ma felice per la sorella. La sera precedente avevamo cenato con i promessi sposi e Marta era stata loquace come sempre. Avevamo bevuto un po’ più del solito e tornando a casa avevamo scherzato sul ridicolo maglioncino di cotone di Renato, nostro futuro cognato.

Lasciammo la litoranea e svoltammo verso destra. Il suo umore cambiò quando iniziammo pian piano a salire e la strada si fece di conseguenza più tortuosa. Notai segni di disagio, il viso perdeva colore. Si muoveva continuamente, come se non riuscisse a trovare una posizione comoda. Tornò la smorfia del supermercato. 

«Vuoi che mi fermi? Non ti senti bene?» le dissi, visibilmente preoccupato.

«No, non voglio arrivare in ritardo.»

«Ma se siamo i primi! Come al solito…»

Marta non rispose, ora si percepiva la sofferenza. Quando vidi che si toccava il fianco decisi di accostare, ma in realtà fu lei ad anticiparmi di un secondo.

«Forse è meglio se prendo un po’ d’aria.»

«Non ti senti bene vero? Hai una brutta faccia.»

«È che questo dolore non mi dà tregua.»

«Quale dolore? Non me ne hai mai parlato.»

Riprese fiato e non rispose. Ora ansimava con la testa fuori dal finestrino, un respiro forzato e irregolare, affannoso.

«Credo sia solo la stanchezza di questi giorni, ora faccio due passi e starò meglio.»

Aprì la portiera e scese. Lo feci anche io e corsi a sorreggerla. Non rifiutò l’aiuto, mi si avvinghiò con le braccia al collo e sussurrò con un filo di voce: «Ho paura…».

Inutile dire che la cerimonia fu tutt’altro che piacevole. Marta si era un po’ ripresa, ma si vedeva lontano un miglio che non stava bene. Fu una giornata lunga, io volevo andarmene, lei insistette per rimanere fino alla fine e questo le costò molto perché fece il viaggio di ritorno piegata in due dal dolore.

Arrivati a casa, prese delle pastiglie e bene o male si addormentò per qualche ora. 

Io stentai a prendere sonno. Rimasi a lungo sveglio, sempre nella stessa posizione, supino, le braccia incrociate dietro la nuca. Avevo abbassato le tapparelle, ma non del tutto. Anche a notte fonda un tenue fascio di luce artificiale penetrava nella stanza proiettando strisce regolari sul muro. Passai il tempo a osservarle, immobili nella forma e nell’intensità. Ogni tanto il rumore di un’auto lontana rompeva il silenzio. La mente correva. Razionalmente mi dicevo che tutto si sarebbe risolto in una prescrizione medica e qualche giorno di convalescenza, non volevo arrendermi ai pensieri negativi. Ma sì, dai! Cosa vado a pensare. Provavo a chiudere gli occhi e un attimo dopo tornavo a interrogarmi e se la cosa fosse più grave del previsto? E se fosse necessario sottoporsi a un’operazione? E se… 

La mattina del lunedì per prima cosa chiamai un mio vecchio amico d’infanzia che non sentivo da qualche anno e che sapevo medico affermato. Fu molto gentile. Gli spiegai sommariamente i sintomi e ci disse di andare da lui nel primo pomeriggio. Marta non oppose resistenza e questo mi turbò molto. L’ipocondriaco di casa, quello che svaligiava il cassetto delle medicine alla prima avvisaglia di raffreddore ero io, non lei. Che ricordassi, non c’era stata una volta in cui Marta aveva detto di sentirsi poco bene e di voler andare da un medico. Questo suo diverso comportamento non fece altro che mettermi maggiore ansia.

Pranzammo al volo, senza voglia, e uscimmo. Erano i primi giorni di settembre, la giornata era luminosissima. Il caldo afoso del mese precedente aveva lasciato spazio a una leggera brezza, tipica delle nostre parti. La città era piena di turisti che sfruttavano gli ultimi giorni di libertà prima della ripresa delle scuole. Le spiagge erano affollate e, nel viale che a esse correva parallelo, era difficile trovare un parcheggio libero. I carretti dei nordafricani stracolmi di mercanzia e i campi di beach volley che si susseguivano, stabilimento dopo stabilimento, completavano il quadro di quella che si preannunciava come una normalissima giornata di fine estate. Questa atmosfera strideva con il nostro stato d’animo. 

Arrivammo in ospedale e fummo ricevuti da una segretaria molto gentile che ci fece accomodare in sala d’aspetto. Forse perché c’erano altre persone, forse perché non sapevo cosa dire, passammo dieci minuti in totale silenzio. La osservavo di soppiatto, evitando di farmi vedere per non turbarla. Nascondere le emozioni non è mai stato il mio forte. Quante volte mi era capitato di piangere davanti a un film, lacrimoni che scendevano copiosi sulle guance e Marta ci rideva sopra. Sentivo un groppo alla gola, come se dovessi esplodere da un momento all’altro, ma era diverso, ero bloccato, il respiro e il battito del cuore accelerati.

Fu il nostro turno, entrammo in ambulatorio. Salutai il mio amico, i soliti convenevoli di rito, come stai, da quanto tempo non ci si vede, che fa Tizio e che fa Caio… Non avevo gran voglia di parlare.

Marta spiegò che da qualche tempo avvertiva un dolore al fianco destro. Mentre lo diceva io la guardavo sorpreso, non arrabbiato, ma certamente deluso dal fatto che non me ne avesse mai parlato. In principio si trattava di un fastidio, persistente ma sopportabile, per questo non gli aveva dato importanza. Ora si era trasformato in un dolore acuto da lasciarla senza fiato. 

Il dottore le chiese altre notizie sulla sua salute pregressa e nel frattempo compilava una scheda al computer. Iniziai a sentirmi estraniato dalla scena. Osservavo, ma in realtà non ero lì. Ero lontano, fuori dal contesto. I pensieri della notte tornarono ad affollare la mente. Non so perché, non era cambiato niente rispetto a mezz’ora prima, ma in quel momento ebbi la prima sensazione vera che avrei potuto perderla. Fu come se, improvvisamente, una scossa elettrica mi attraversasse il corpo. Iniziai a sudare copiosamente e credo di essere diventato pallido come uno straccio. 

Milioni di pensieri mi si affollarono in testa, uno sopra l’altro, anche sciocchi. Mi venne in mente che più o meno metà della nostra vita l’avevamo passata insieme e iniziai a calcolare il numero esatto dei giorni. Poi, non so per quale motivo, pensai a quella trasmissione televisiva a quiz alla quale lei voleva partecipare e a quanto ci fosse rimasta male quando l’avevo spinta a non farlo. Pensai al buffo berretto di lana fatto all’uncinetto da sua nonna che fui obbligato a portare per molti inverni. Forse, inconsciamente, tutto ciò era un modo per tentare di allontanare le brutte sensazioni.

Marta fece una radiografia che mostrò una macchia sospetta al polmone destro. Quello stesso pomeriggio si sottopose ad accertamenti più mirati che non diedero risultati incoraggianti. Fu inoltre necessario tornare la mattina successiva per delle analisi particolari il cui esito non sarebbe arrivato subito. Ci chiamarono tre giorni dopo, nel tardo pomeriggio, pregandoci di andare in ospedale, al telefono non dissero niente altro. Erano quasi le otto di sera, il dottore ci accolse molto professionalmente, chissà quante altre volte aveva dovuto dare simili notizie. Marta doveva essere operata e anche con urgenza. Stabilimmo che saremmo tornati il giorno dopo per il ricovero.

Salimmo in macchina e mi avviai verso casa. Marta fissava la strada davanti a sé e ogni tanto si girava verso il finestrino con il capo leggermente abbassato, a contatto con il vetro. In un gesto che ci era familiare le presi la mano, ora un oggetto inanimato, ma che riusciva ancora una volta a trasmettere calore alle mie dita inerti.

«Scusami…» mi disse voltandosi con gli occhi pieni di lacrime.

«Perché? Di cosa ti dovresti scusare? Andrà tutto bene vedrai». Non seppi dire di meglio, la voce uscì strozzata e poco convincente.

Se la notte precedente stentai ad addormentarmi, quella prima del ricovero la feci interamente in bianco. Provavo a convincermi che non tutto fosse compromesso. Nessuno aveva pronunciato la parola “cancro”, né il medico, né noi stessi. Macchia sospetta, che vorrà dire? mi interrogavo. Anche se fosse qualcosa di molto grave, magari l’abbiamo presa in tempo. Mi contorcevo nel letto sforzandomi di essere ottimista, ma ecco che arrivò di nuovo quel tarlo nella testa che mi diceva che l’avrei potuta perdere. Mi sfiorò il pensiero, al di là del dolore della perdita, di quale sarebbe stato il mio destino. Subito mi sentii in colpa. È lei che stava soffrendo, non io, dovevo concentrare le forze nel tentativo di aiutarla, dovevo starle vicino, confortarla, amarla come mai avevo fatto sino ad allora.

Il giorno seguente Marta fu operata e tutto il castello di speranze che mi ero costruito crollò miseramente. I medici non ci diedero speranze.

Il male l’aveva aggredita in modo subdolo, evidenziando i sintomi solo in un secondo momento, troppo tardi per impostare una cura efficace. Contro ogni parere medico e anche contro il mio, Marta decise di non sottoporsi alla chemio. Uscì dall’ospedale dopo una quindicina di giorni, il tempo di riacquistare un minimo di forze, per sostenere in casa delle cure palliative. Un infermiere stava con lei dalla mattina fino a pomeriggio inoltrato. Nei due mesi successivi allentai molto gli impegni lavorativi per passare più tempo possibile con mia moglie. Di solito riuscivo a essere di ritorno per le quattro, anche per poter incrociare l’infermiere e farmi raccontare la giornata. Lucia e la madre le facevano compagnia durante il giorno, ma la sera e la notte non volevo nessuno tra i piedi. 

Tutto degenerò piuttosto velocemente e io reagii in un modo che, a mente fredda, fu senz’altro sgarbato nei confronti dei suoi cari. Marta perse progressivamente conoscenza e pur rendendomi conto di non esserle più di grande aiuto decisi di stare con lei ventiquattro ore su ventiquattro, da solo. Pregai persino l’infermiere di astenersi dal venire e di insegnarmi quelle due o tre cose che avrei potuto fare anche io. Per Marta ormai non c’era più alcuna differenza tra la notte e il giorno. Era immersa in una sorta di limbo, dovuto ai potenti antidolorifici, dal quale si svegliava solo per pochi attimi. Non potevo permettermi di perdere questi ultimi momenti insieme.

Piazzai una poltrona vicino al letto, un poco più in alto, in modo da poterla vedere in viso. Avevo bisogno di nutrirmi del suo amore e di trasmetterle il mio, ora più forte che mai, e pensavo che l’unico modo fosse quello di guardarla. Semplicemente guardarla, in totale silenzio. Osservarne i lineamenti deformati dalla sofferenza, le guance smunte, i muscoli del collo tesi. Tendevo le orecchie nella falsa quiete della notte per intuire il suo respiro, aspettando i rari risvegli per offrirle l’unica cosa che potevo darle, un sorriso. Passavo ore così, arrendendomi alla stanchezza solo verso le quattro o le cinque del mattino.

Sapevo che il momento del distacco definitivo non avrebbe tardato ad arrivare, ma adesso ero certo di conservare questa intimità che, ora posso dirlo, è la cosa che più mi manca. Perduta ogni speranza riflettei sulla mia condizione attuale e su quella che sarebbe di lì a poco arrivata, due facce della stessa medaglia. 

Non mi ha mai fatto paura la solitudine. Penso sia uno stato mentale, non fisico. Si è soli anche in mezzo a una moltitudine. 

L’uomo stabilisce dei rapporti sociali, interagisce con gli altri, fa amicizie, si sposa, ma alla fine, nei momenti critici, ha bisogno di rimanere da solo. Non avrei potuto condividere con nessuno le sensazioni che provavo in quei momenti. Io e Marta eravamo l’universo intero. Tutto ciò che era al di fuori di quella stanza perdeva di importanza, anche il tempo si era rarefatto, giorno, notte, luce, buio, non mi interessavano più. Questa era la solitudine che in quel momento desideravo più di ogni altra cosa, un completo isolarsi dal mondo.

Poi c’era l’altra faccia della solitudine, quella non desiderata. Cosa accadrà dopo? L’eventualità di tornare a una vita normale, a riprendere rapporti sociali, persino a innamorarmi di nuovo erano ipotesi che vedevo irrealizzabili, lontane mille anni luce. Riflettevo su come sarebbe stato tornare a casa senza di lei, immaginavo con terrore il primo giorno in cui questo pensiero sarebbe diventato realtà. La piena consapevolezza di un evento, felice o triste che sia, si ha solo dopo che questo è avvenuto. È giusto: prima puoi solo immaginare cosa succederà e ipotizzarne le conseguenze.

L’essenza delle cose sta nell’accadere, il loro valore sta nella presa di coscienza del dopo. Emozione e razionalità. 

Gli ultimi giorni furono davvero duri. Il male aveva compromesso vari organi. Le si era formata dell’acqua nei polmoni che a tratti la soffocava. Seguendo le indicazioni dell’infermiere le avevo inserito un sondino per eliminare una parte di liquido permettendole di avere un minimo sollievo. 

Arrivò l’ultima notte.

Poco dopo le undici il respiro di Marta si fece più affannoso. Faceva fatica a prendere fiato e ogni volta che inspirava il corpo le si contraeva. Rimaneva alcuni secondi immobile, la bocca semiaperta nel tentativo disperato di attaccarsi alla vita.

Con una spugna inumidita le detersi le labbra secche. Spostai una ciocca di capelli che le aveva invaso la fronte e indugiai con le dita. La pelle era diventata di una consistenza quasi impalpabile, come carta velina. 

Le presi la mano sinistra e la avvolsi tra le mie. Avevo bisogno del suo calore. Poggiai i gomiti sul letto e, sollevandole il braccio, le sfiorai la mano con la bocca. Sentivo distintamente il tepore di Marta propagarsi alle mie dita, ai palmi e ai polsi fino a invadere tutto me stesso. Le presi anche l’altra mano, strinsi più forte che potei. Sprofondai in una serenità interiore che non conoscevo più da tempo. Continuai a fissarla, l’intervallo tra un respiro e l’altro sempre più lungo: le rughe della fronte, solo pochi mesi prima inesistenti, le palpebre incavate, le ossa della mandibola sporgenti e dure a ricordarmi la vittoria della malattia. 

Poi il silenzio, assoluto. 

Qualcosa di unico stava accadendo, in qualche modo io ero lo strumento del passaggio tra la vita e l’infinito, tra la presenza e il ricordo.

Rimasi così per minuti, fino a che le mie mani tornarono fredde.

Troverai qui tutte le novità su questo libro

Commenti

  1. (proprietario verificato)

    Un libro molto toccante che affronta una tematica attuale…
    Leggendolo si ha la sensazione di essere all’interno della storia.
    Lo consiglio fortemente.

Aggiungere un Commento

Condividi
Tweet
WhatsApp
Giuseppe Bianchini
Sessantenne, è dirigente d’azienda nella vita reale, musicista e scrittore nel tempo libero. Tra i suoi autori preferiti vi sono Carver, Martinez de Pison, Steinbeck, Pavese: grandi narratori che raccontano la vita di tutti i giorni, storie ordinarie di persone normali, di fatti e vicende che stimolano riflessioni e che spesso lasciano l’amaro in bocca. Su questi principi si basa “Solitudini”, la raccolta di racconti che rappresenta il suo esordio letterario. Al momento sta lavorando al suo primo romanzo.
Giuseppe Bianchini on FacebookGiuseppe Bianchini on Instagram
Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Post Type Selectors