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Somnia – Il sigillo di Morfeo

SOMNIA - Il sigillo di Morfeo
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Consegna prevista Febbraio 2024
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Cancun 1990. I neolaureati all’università di Edimburgo Harry ed Emma scovano un tempio greco dentro una grotta nelle profondità della terra. Consapevoli di aver fatto una scoperta straordinaria, cercano di studiarne la provenienza non consapevoli di aver riesumato un segreto nascosto da secoli.
Londra 2010. L’adolescente Catherine ha una vita normale.
Nonostante la prematura scomparsa della madre, può contare su amici che le vogliono bene, un padre affettuoso e un lavoro stabile nella caffetteria di un amico di famiglia. Tuttavia, nasconde un segreto che la tormenta. Ogni notte, incubi spaventosi la tengono sveglia e non le danno pace. Le cose precipitano quando gli incubi si riversano nella vita reale sconvolgendone gli equilibri. Con l’aiuto di Andreas, un misterioso ragazzo comparso all’improvviso nella sua vita,
si ritroverà a sciogliere i nodi di un mistero intriso di miti e complotti celato per anni a cui i genitori, vent’anni prima, inconsapevolmente hanno dato inizio.

Perché ho scritto questo libro?

Ho scritto questo libro per due motivi: il primo è che una notte, dopo un sogno particolarmente vivido, ho cercato di capire cosa avessi sognato senza però trovarne un vero significato. Negli anni, sporadicamente mi ritrovavo a pensarci fino a quando in me è nata l’idea di ricamarci qualcosa intorno, ottenendo un romanzo.
Il secondo motivo è perché ho scritto il libro che avrei sempre voluto leggere.

ANTEPRIMA NON EDITATA

CAPITOLO 1

 

 

Ottobre 1990  

Sud di Cancún  

 

Una Jeep 4×4 stava percorrendo l’ultimo tratto di strada sterrata per poi essere lasciata nel punto concordato. Avrebbe raggiunto gli altri a piedi.

Il cielo terso e la poca umidità erano il motivo per cui avevano programmato la spedizione per la metà di ottobre.  
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La giornata di lavoro stava volgendo al termine, i colleghi e amici tornarono ognuno nella propria tenda a rinfrescarsi dopo una lunga giornata passata in mezzo alla polvere che profumava di passato e mistero.  

Il professore era in piedi, le mani sul tavolo e la fronte corrugata, a studiare alcuni documenti trovati vicino ad un manufatto che sperava potesse essere la scoperta del secolo.  

Un rumore di passi lo avvisò dell’ingresso di qualcuno, probabilmente un collega che gli stava portando del caffè, ma quello che vide quando si girò lo lasciò interdetto.  

Davanti a lui fasciata in un morbido completo di lino bianco c’era la ragazza più bella che avesse mai visto che lo guardava con cipiglio.  

«E così sei tu quello che mi ha soffiato da sotto il naso il progetto» esordì lei incrociando le braccia.  

Il professore rimase paralizzato dalla sua sfrontatezza tanto che non riuscì a replicare subito e la guardò cercando di capire chi fosse.  

«Che c’è? Gli spiriti dei Maya ti hanno mangiato la lingua» fece lei avvicinandosi.  

«No no, è che io non l’ho mai vista prima d’ora e non ho idea di cosa stia parlando» 

«Beh, diciamo che invece io so benissimo chi sei tu, diciamo anche che non mi ha sorpreso affatto che quell’imbecille di McKinney abbia preferito dare il progetto a te, sessista e misogino per com’è.»

A quel punto il professore capì.  

All’università di Edimburgo il professore Edwin McKinney – ossessionato dai Maya e dal Messico – ma ormai troppo anziano per poter farlo da solo aveva dato la possibilità ad alcuni neolaureati di guidare una spedizione sotto la sua stretta direttiva. 

«Posso assicurarti che non ne sapevo nulla» disse il professore.  

«Voglio darti il beneficio del dubbio, anche perché se McKinney ha scelto te, un motivo dovrà pur esserci e non credo sia per i tuoi occhioni da cucciolo abbandonato» disse lei squadrandolo dalla testa ai piedi. «Per cui, non avendo intenzione di lasciarti tutto il divertimento e qualsiasi cosa il professore ti abbia promesso una volta tornati in Scozia, voglio prendere parte attiva alla spedizione e ovviamente dividere il merito».  

Però, che caratterino, pensò il professore.  

«Dimmi a che punto siete» disse avvicinandosi, le mani che seguivano i documenti appoggiati su alcuni libri.  

«Nei giorni passati abbiamo già effettuato l’analisi del territorio, lo scavo stratigrafico e abbiamo scoperto un passaggio che porta ai fiumi sotterranei, i ragazzi stanno preparando le attrezzature per poter scendere giù domani all’alba. Se deciderai di rimanere farò preparare le attrezzature anche per te».  

«Ci puoi scommettere» rispose lei con un sorriso soddisfatto, poi incrociò le braccia al petto.  

 

La mattina seguente, al sorgere del sole, i due erano pronti a calarsi dal passaggio scoperto il giorno prima. Il professore era ancora destabilizzato dall’incursione improvvisa della ragazza.

Legarono le funi agli alberi vicino all’accesso, accesero la torcia sull’elmetto e si calarono giù. 

La puzza di muffa fu la prima cosa che li accolse e uno stretto sentiero in mezzo alle radici e alla terra ostacolavano il passaggio così si misero carponi e gattonarono per diversi metri fino a quando la cavità si allargò tanto da permettergli di mettersi nuovamente in piedi. Quando gli occhi si abituarono alla fioca luce delle lampadine, quello che videro li lasciò senza fiato. 

 

 

CAPITOLO 2

 

Novembre 2009  

Londra  

 

 

Umido. Muffa. Vecchio.  

Una zaffata di marcio mi invase le narici e cominciai a tossire.  

Mi trovavo in una soffitta dall’aspetto familiare, accasciata a terra e con i polmoni in fiamme, le lacrime scendevano copiose e il volto reso appiccicoso dal sudore mi bruciava nei punti in cui ero escoriata.  

Benché mi sforzassi di reagire, di urlare, non riuscivo a fare nulla, ero paralizzata.  

Da un angolo buio mi accorsi di una figura che mi scrutava, un ghigno maligno gli deformava il volto e due occhi scintillavano nel buio. Un brivido mi corse lungo la schiena fino all’attaccatura dei capelli, strizzai gli occhi pregando che fosse solo un’allucinazione.

Quando li riaprii qualsiasi cosa si celasse nel buio, era scomparsa.  

Poi un dolore sordo si irradiò dalla testa e tutto si fece buio.

 

Mi svegliai in un bagno di sudore ansimando, il cuore che minacciava di uscirmi da petto e la testa in fiamme. Mi girai a guardare la sveglia sul comodino: quattro minuti dopo le tre.  

Scesi dal letto stropicciandomi gli occhi e andai in cucina per prendere un bicchiere d’acqua dopodiché tornai in camera, recuperai il tascabile dal comodino e sperai che il sonno tornasse a prendermi.  

Da che ne ho memoria, ho sempre fatto fatica ad addormentarmi e da qualche mese a questa questi problemi si sono accentuati tanto che la maggior parte degli incubi si ripetono a cadenza regolare. Se ci fosse Beth probabilmente mi direbbe che non dormo la notte perché leggo troppi romanzi horror…

Come darle torto?  

Probabilmente io le tirerei addosso proprio uno di quei romanzi.  

 Tuttavia, da qualche mese il sogno della soffitta mi perseguitava quasi tutte le notti e non riuscivo mai a trovare un nesso che mi aiutasse a capirne il significato. Un demone sarebbe venuto a prendermi durante la notte? Dovevo stare lontana dalle soffitte che puzzavano di zombie? Beth si sarebbe vendicata e mi avrebbe tirato il tascabile in testa?  

Visto che la soluzione non arrivava, mi concentrai sul libro che stavo leggendo e lasciando che Morfeo mi prendesse fra le braccia e mi portasse nel suo regno fatto di sogni.  

 

 

«Cat!» 

Mi girai di scatto e vidi la mia amica farsi largo fra il fiume di studenti per venirmi incontro.  

«Buongiorno raggio di sole» mi disse con un largo sorriso.  

«Ciao Beth» risposi abbracciandola.  

«Nottataccia eh?» 

Alzai gli occhi al cielo e feci spallucce «Come sempre».  

«Pronta per la verifica di Algebra?» 

Inserii la combinazione dell’armadietto ormai arresa al mio destino e le dissi che no, non ero pronta e non lo sarei mai stata: il lunedì mattina già non era il mio giorno preferito, l’algebra faceva il resto.  

«Dopo dovrei chiederti un piiiiccolo favore» mi disse con lo sguardo da ti-prego-non-dirmi-no.  

Annuii studiandola con circospezione e ci dirigemmo verso l’aula di matematica, ne avremmo parlato a pranzo.   

 

La mensa scolastica era paragonabile a un girone dell’inferno e ovviamente tutti i tavoli erano contrassegnati da un’etichetta immaginaria che ti precludeva la possibilità di occuparne il posto a meno che non rientrassi in una categoria ben definita. Fortunatamente – essendo all’ultimo anno di liceo e prossimi al diploma – io, Beth, Oliver e il suo fidanzato Paul avevamo il nostro intoccabile tavolo conquistato con le unghie e con i denti durante i primi mesi in questa scuola. Il fatto che poi Paul fosse diventato rappresentante d’istituto ci aveva permesso di rivendicarne la proprietà a tutti gli effetti.   

«Secondo voi, da uno a bocciato, quanto avrò fatto schifo alla verifica di Algebra?» disse Oliver, accusando la gomitata che Paul gli aveva rifilato dritta nelle costole.

«Se avessi almeno aperto un libro in questa settimana, sicuramente non sarebbe stato così disastroso» disse Paul facendogli la ramanzina.  

«E come avrei potuto quando c’erano i tuoi addominali a fissarmi con così tanta intensità?» Oliver ammiccò con le sopracciglia.

Mentre Oliver e Paul si prendevano in giro a vicenda, Beth si girò verso di me e mi chiese se potessi accompagnarla in un posto quel pomeriggio.  

«Che tipo di posto?» le chiesi, addentando il mio sandwich.  

«Beh, ecco, ti ricordi di Stacy?» 

«Stacy? Aspetta…Tua cugina Stacy?» dissi strabuzzando gli occhi rischiando di strozzarmi.  

Stacy e Beth erano cugine da parte di padre, coetanee e insofferenti l’una all’altra, non mancavano mai l’occasione di punzecchiarsi a vicenda.  

«Si. Proprio lei. Sabato prossimo è il suo compleanno e mia madre mi ha costretta ad andare in giro per negozi a trovare qualcosa di carino da mettere. Qualcosa di bello ed elegante sia alla moda ma non troppo da far sfigurare la festeggiata» finì, scimmiottando il tono di voce di Stacy.  

Presi un respiro profondo e guardai la mia migliore amica negli occhi «Beh, le amiche servono anche a questo no?» Non feci in tempo a finire la frase che mi ritrovai le sue braccia al collo e lei che mi riempiva la faccia di baci.

«Grazie grazie grazie». 

«Andiamo subito dopo scuola però che stasera devo aiutare Sam in negozio».  

«Affare fatto» rispose sorridendo.  

Appena uscite da scuola andammo in centro, nelle boutique di moda italiana più prestigiose, ma non fu facile trovare qualcosa di adatto e nonostante non le importasse molto della festa si percepiva dal suo stato d’animo, all’ennesimo buco nell’acqua, che voleva fare una bella figura.  

Uscite dal negozio di Dior le domandai come mai non avesse chiesto aiuto a sua madre.

«D’altronde tua madre ha sempre confezionato vestiti bellissimi» le dissi entrando da Starbucks.  

Ordinammo due caffè e ci sedemmo al primo tavolo disponibile, Beth si tolse la sciarpa lasciando che i suoi lunghi capelli biondi le cadessero sulle spalle.  

«Ci ho già provato» rispose bevendo un sorso «ma non le piace farsi pubblicità in eventi di famiglia, anche se è già abbastanza famosa, non capisco proprio di che pubblicità parli, probabilmente il vero motivo è che ha troncato ogni rapporto con la famiglia di mio padre e non vuole che si parli di lei.» Posò la tazza sul tavolino.  

Conoscevo Beth dall’inizio del liceo e non le avevo mai chiesto di suo padre né lei aveva mai aperto il discorso. Volevo che si sentisse libera di poterne parlare con me senza che io la forzassi in nessun modo. Probabilmente non si sentiva ancora pronta e a me andava bene così. Tuttavia, da parte mia, le avevo già raccontato di mia madre anche se non c’era molto da dire.

Infanzia strana, ma felice e mia madre che muore dandomi alla luce.

Finii il caffè. «Scusami, ma ora devo proprio correre in negozio ad aiutare Sam. Ti scrivo questa sera e non preoccuparti, vedrai che troverai il vestito giusto!»

 

Scesi dalla metro e mi fermai davanti al posto che consideravo la mia seconda casa, la caffetteria che aveva fondato mio padre, completamente gestita e acquisita da Samuel E. Clearwater.  

Sam era uno stretto collaboratore e socio di mio padre, nonostante parecchi anni fa mio padre abbia venduto la società e Sam abbia preso pieno possesso della caffetteria, erano rimasti molto amici e io ero molto legata a lui, lo consideravo come il fratello che non avevo mai avuto. Mio padre si dedicò esclusivamente alla sua professione, l’archeologo, diventando poi direttore dell’università di Cambridge.  

Entrai da Sam’s e subito mi investì quel profumo delizioso di caffè appena macinato che per me era sinonimo di casa.  

 

«Oh Cat, grazie al cielo sei qui» disse Sam sollevato tirandomi dal braccio. Era sudato e rosso in viso, evidentemente quel pomeriggio aveva avuto molti clienti.  

Tolsi sciarpa e cappotto e li appesi in spogliatoio, presi il mio grembiule e corsi da lui facendomi spiegare cosa mancasse da fare. Le ore passarono in fretta e nonostante fuori fosse scoppiato un vero e proprio temporale, entrarono molti clienti.

Durante il servizio al banco io e Sam non parlavamo mai, io mi occupavo della caffetteria, lui confezionava e serviva i dolci che insieme avevamo preparato la mattina.  

Adoravo lavorare in caffetteria, nonostante la fila e le richieste, i clienti maleducati e la mole non indifferente di lavoro, quando ero lì era come se mi staccassi dal mio corpo, il mio cervello si spegnesse e il tempo volava senza che me ne rendessi conto, il fatto che io e Sam lavorassimo in sincronia quasi perfetta era un’aggiunta che non guastava.  

 

«Grazie e a presto!» dissi chiudendo la porta dietro l’ultimo cliente del giorno.

Mi appoggiai alla porta e sorrisi soddisfatta del lavoro ben svolto.  

Sam tolse gli occhiali, si asciugò il sudore dalla fronte con un panno umido e mi fece segno di seguirlo sul retro. Mi staccai dalla porta e ciondolai fino al bancone, presi due bicchieri di carta, versai dentro una generosa quantità di caffè, dopodiché lo seguii.  

«Potevi anche chiamarmi prima se non riuscivi a gestire i clienti da solo» lo rimproverai porgendogli il bicchiere.  

Lui lo prese e fece un cenno di ringraziamento. «Non volevo disturbarti sapendo che eri fuori con Betty».  

Alzai gli occhi al cielo. «Sicuro di non volerci ripensare nell’assumere qualcuno che ti aiuti?» 

«No tesoro, è già difficile arrivare a fine mese con tutte le spese che ci sono e pagare il tuo stipendio. Non riuscirei a pagare un’altra persona.» Bevve un sorso e appoggiò la testa al muro.   

Nonostante la caffetteria andasse bene, non era sicuramente facile far quadrare i conti alla fine del mese: gli affitti erano molto alti e Sam aveva fatto un prestito per comprare la quota di mio padre. Bevvi un sorso di caffè mi alzai battendo le mani. «Bene, mettiamoci a lavoro, vorrei essere a casa presto stasera, domani vado a prendere papà all’aeroporto.»  

Presi l’occorrente da sotto il lavello e iniziai a pulire in vista della chiusura. Generalmente Sam chiudeva la cassa e io mi occupavo di pulire i banconi, rassettare e preparare il necessario per la mattina successiva.  

 

Mentre ero impegnata a pulire la macchina del caffè sentii il trillo della campanella che indicava l’ingresso di qualcuno.  

«Siamo chiusi» esclamai senza alzare gli occhi.   

Sentii dei passi venire verso di noi. «Mi dispiace ho detto che siamo ch…» Le parole morirono sulle labbra.  

Mi pietrificai e non riuscii a dire nulla, mille pensieri diversi mi passarono per la testa in un secondo. Davanti a me, un uomo con un passamontagna mi stava puntando una pistola alla testa guardandomi con disprezzo.

«Qualsiasi cosa tu voglia, prendila e va via senza farci del male» balbettò Sam da molto, molto lontano.  

Successe tutto in una frazione di secondo. Il tizio si voltò verso Sam e gli sorrise, poi fece per sparare e un lembo scoperto sul polso mi diede la visione di un tatuaggio: due piume con delle stelle attorno. Tuttavia, era tutto troppo confuso e surreale per poter pensare lucidamente ai dettagli. Mi riscossi dallo shock iniziale giusto in tempo e mi buttai a terra nel momento in cui l’uomo sparò prendendomi la spalla di striscio e facendo esplodere i bicchieri dietro di me. Atterrai sull’altra spalla sbattendo il fianco in uno sgabello che tenevamo dietro il bancone per i momenti di calma e il dolore esplose facendomi boccheggiare. Schegge di vetro mi arrivarono in testa provocandomi dei tagli sulla guancia e sentii Sam urlare.  

Me lo ritrovai accanto ansimante mentre pregava non so quale dio che io stessi bene.  

«Non ti muovere Cat, stai giù. Aspetta, prendo un panno per tamponarti le ferite. Aspetta. Oh, cielo. Aspetta» continuava a ripetere in preda al panico.   

Nonostante il dolore lancinante, cercai di mettermi seduta e non appena lo feci un fiotto di vomito minacciò di uscire. Feci in tempo a girarmi e vomitai sul linoleum accanto a me graffiandomi la gola. La testa iniziò a pulsare e dovetti stringere gli occhi.

«Sam, perché non hai ancora chiamato la polizia?» riuscii a dire ancora scossa dai conati. Mi pulii la bocca con il panno. Sam scattò e corse sul retro in cerca del telefono. Dopo pochi minuti, tornò al mio fianco.

«Stanno arrivando» disse.

Appoggiai la testa e chiusi gli occhi. «Sperano non ci mettano troppo» sospirai.

 

         

I paramedici arrivarono parecchi minuti dopo e nel frattempo riuscii ad alzarmi e a trascinarmi su una poltroncina in sala. Sam mi portò una tazza di camomilla ma al primo sorso mi venne la nausea e per non rischiare di vomitare ancora la lasciai sul tavolo. Dopo una visita preliminare mi dissero che la ferita alla spalla non era grave e che sarei guarita presto senza aver bisogno di punti. Al fianco mi stava già spuntando un ematoma grande quanto una mano e mi diedero degli antidolorifici consigliandomi una nottata di sonno per riprendermi dallo spavento, raccomandandomi di correre in ospedale se avessi accusato malessere generale.  

Una nottata di sonno, si, certo.  

Mentre la polizia interrogava Sam sull’accaduto cercai di ricordare quanti più dettagli possibili.

Perché il rapinatore aveva puntato la pistola su di me e non su Sam che era davanti la cassa? E soprattutto, perché sparare se Sam gli aveva detto che poteva prendere i soldi?  

Perché evidentemente non si trattava di una rapina o di un semplice ladro.  

Ma allora perché?  

Mi alzai e zoppicai fino a loro tenendomi il fianco. Uno dei due agenti scribacchiò su un taccuino i punti essenziali.

«Cat, non dovresti alzarti e camminare, sei ancora sotto shock» mi disse Sam.  

«Agente, potrebbe spiegarmi cosa sta succedendo?» chiesi.

«Beh, da quello che ci ha appena riferito il suo collega, pare che si tratti della prima volta che qualcuno tenta di rapinarvi. Inoltre, da un’analisi preliminare, abbiamo a che fare con un uomo sui venti, armato che è ancora in circolazione. Saremmo venuti da lei dopo a raccogliere la sua deposizione, ma visto che è qui, ha notato qualche dettaglio che magari può essere sfuggito? Un segno particolare? Qualcosa che possa aiutarci a identificare il rapinatore?» mi chiese guardandomi negli occhi.  

Mi sedetti al fianco di Sam e cercai di pensare a tutte le informazioni utili che potessi dare.  

«Mi è sembrato di vedere un tatuaggio sul polso. Sembravano delle piume circondate da stelle. Non credo che si possa trattare di un uomo di vent’anni, sembrava molto più anziano; tuttavia, è successo tutto troppo in fretta per poterlo dire con esattezza» finii mettendo le mani sul tavolo.  

Sentii Sam agitarsi sulla sedia, evidentemente ancora scosso dall’accaduto.  

«Bene, se vi vengono in mente altri particolari che potrebbero aiutarci, questo è il mio numero» disse allungando un bigliettino sul tavolo.  

Sam li accompagnò alla porta.

«State attenti nel caso dovesse tornare e d’ora in poi, chiudete a chiave la sera. Il mondo è pieno di pazzi.»

Annuii e li ringraziai, stringendo il bigliettino in mano.

Lentamente, aiutai Sam a pulire il pandemonio che si era creato dietro il bancone.

«Cat, vai a casa.»

«No. Voglio aiutarti» ribattei.

«Testarda. Adesso chiamo un taxi» disse prendendo il telefono, «hai giusto il tempo di prendere le tue cose.»

Buttai lo straccio dentro il lavandino. L’odore di alcool e ammoniaca mi stava dando il voltastomaco; quindi, accolsi la sua richiesta senza protestare ulteriormente.

Grazie al cielo mio padre era fuori città in quei giorni e non dovetti avvisarlo di quanto accaduto quella sera, sperando che non lo facesse Sam.  

Entrai in casa e buttai tutto sul divano, mi preparai una tisana dopodiché salii le scale, mi spogliai e feci una lunga doccia bollente per rilassare i muscoli, facendo attenzione alle parti dove faceva più male.  

Uscii dalla doccia, raccolsi i capelli in una coda e lasciandoli bagnati mi misi a letto stremata.

Presi il cellulare e scrissi un messaggio a Beth ricordandole che aveva promesso di accompagnarmi in aeroporto il giorno dopo.  

La sua risposta arrivò pochi minuti dopo.  

Tutto bene Cat?” 

Serata difficile, domani ti racconto.”  

Contaci.”  

Spensi il cellulare e provai a dormire. Il sonno proprio non ne voleva sapere di arrivare e mi girai e rigirai a letto per ore. 

Ogni volta che chiudevo gli occhi vedevo quello sguardo carico di odio.

Dopo un’eternità finalmente mi addormentai ma il mondo dei sogni neanche quella sera volle essere clemente con me.  

Sognai un enorme campo di fiori con uomo senza volto in mezzo che diceva parole incomprensibili, mille piume gli vorticavano intorno e urla così forti intorno a me da togliermi la capacità di pensare. All’improvviso cessò tutto, l’uomo sghignazzò con mille voci di tonalità differenti, e disse un’unica sillaba:  

Sì.  

 

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Riccardo Filloramo
Nato a Messina, vivo a Milano da parecchi anni.
Lavoro a Milano nella grande distribuzione ma da piccolo sognavo di aprire una libreria con angolo bar.
Da sempre appassionato alla lettura e all’arte in ogni sua forma, in passato ho scritto vari racconti rimasti chiusi nel cassetto senza che mai venissero realmente alla luce. Se potessi riassumere in un autore il mio genere preferito, Stephen King sarebbe in cima alla lista.
Dopo un sogno particolarmente vivido, per anni ho girato e rigirato quelle scene nella mia testa fino a quando ho deciso di dar loro forma.
SOMNIA è il mio primo romanzo
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